Queste riflessioni ne hanno prodotte altre, che aggiungo in coda. Potrei chiamarle Divagazioni brahmsiane. Oppure: Intermezzi.
Breve riflessione su un aspetto della musica di Brahms che può trarre in inganno sia l’interprete sia l’ascoltatore. Brahms è attratto, come pochi altri musicisti del secondo Ottocento, dal canto a gola spiegata, soprattutto se di origine popolare, o in ogni caso simile al canto popolare (Mahler ne farà tesoro). Ma se ne vergogna, o piuttosto sa che non è più possibile intonarlo con la spontaneità e freschezza di uno Schubert. Inoltre Brahms è tedesco, tedesco del Nord, come Schumann, nemmeno di Monaco, e non è austriaco, tanto meno viennese. Ma proprio per questo ama Vienna come nessuna altra città: perché gli offre quel canto che è il suo sogno, la sua utopia, ma che ritiene irrealizzabile. Vienna è anche Johann Strauss, padre e figlio. Oltre che Schubert. Ed è la porta dell’Ungheria. Nella brumosa Amburgo il canto popolare aveva, per lui, l’accento delle canzoni di taverne sul porto o di postriboli, dove il padre, ancora bambino, e poi ragazzo, lo portava a suonare, sfruttando la sua incredibile abilità d’improvvisatore. Ma i suoi modelli musicali sono alti: Beethoven e Schumann, tra i tedeschi, e Chopin. Anche Liszt, per la tecnica pianistica. Sono come una diga alla tracimazione di un canto inadeguato, di una confessione impudica. Ecco, tutto questo ritorna nella sua musica come ricordo, utopia, nostalgia. E quando è spudorato, esplicito, ritorna come contraffazione: le danze ungheresi, i canti gitani (Zigeuner Lieder), dove può gridare “ich liebe dich” (io ti amo), con un motivetto che sarà ripreso da Mahler nel Canto della terra. Io li possiedo registrati alla Carnegie Hall da Christa Ludwig e Leonard Bernstein al pianoforte: sublimi! Nonostante questa ritrosia, il canto a gola spiegata fa irruzione anche nelle opere più severe: il secondo tema del secondo concerto, il secondo del concerto per violino, quasi un tango, l’attacco del quintetto con clarinetto, e tanti altri luoghi. Proprio la tensione tra la spinta all’afflato effusivo e il controllo del pudore, quasi un segreto timore di scoprire troppo le carte, più che dell’intelligenza critica, costituisce il fascino del melodizzare brahmsiano, d’una densità espressiva che fa paura. Aveva ragione Schoenberg: è la via che porta al prosciugamento (rimozione?) definitivo della melodia. E Schoenberg lo sa bene: lo rende perfino evidente nel percorso dei Gurre Lieder. Su quella riva si arriva quasi all’afasia di un Webern. Che non è vera afasia, ma l’estrema concentrazione, anzi contrazione di una melodia nel respiro istantaneo di un solo suono. Di Brahms si leggano al pianoforte, se si è capaci, o si ascoltino, gli ultimi pezzi per pianoforte, l’op. 116, 117, 118, ma soprattutto 119. Se volessimo assegnare un nome a questo atteggiamento di Brahms, dovremmo dire che è la consapevolezza della fine, ma il rifiuto di accettarla. Ed è per questo che lo sentiamo così vicino a noi, così contemporaneo: alla lettera, uno del nostro stesso tempo.
Breve riflessione su un aspetto della musica di Brahms che può trarre in inganno sia l’interprete sia l’ascoltatore. Brahms è attratto, come pochi altri musicisti del secondo Ottocento, dal canto a gola spiegata, soprattutto se di origine popolare, o in ogni caso simile al canto popolare (Mahler ne farà tesoro). Ma se ne vergogna, o piuttosto sa che non è più possibile intonarlo con la spontaneità e freschezza di uno Schubert. Inoltre Brahms è tedesco, tedesco del Nord, come Schumann, nemmeno di Monaco, e non è austriaco, tanto meno viennese. Ma proprio per questo ama Vienna come nessuna altra città: perché gli offre quel canto che è il suo sogno, la sua utopia, ma che ritiene irrealizzabile. Vienna è anche Johann Strauss, padre e figlio. Oltre che Schubert. Ed è la porta dell’Ungheria. Nella brumosa Amburgo il canto popolare aveva, per lui, l’accento delle canzoni di taverne sul porto o di postriboli, dove il padre, ancora bambino, e poi ragazzo, lo portava a suonare, sfruttando la sua incredibile abilità d’improvvisatore. Ma i suoi modelli musicali sono alti: Beethoven e Schumann, tra i tedeschi, e Chopin. Anche Liszt, per la tecnica pianistica. Sono come una diga alla tracimazione di un canto inadeguato, di una confessione impudica. Ecco, tutto questo ritorna nella sua musica come ricordo, utopia, nostalgia. E quando è spudorato, esplicito, ritorna come contraffazione: le danze ungheresi, i canti gitani (Zigeuner Lieder), dove può gridare “ich liebe dich” (io ti amo), con un motivetto che sarà ripreso da Mahler nel Canto della terra. Io li possiedo registrati alla Carnegie Hall da Christa Ludwig e Leonard Bernstein al pianoforte: sublimi! Nonostante questa ritrosia, il canto a gola spiegata fa irruzione anche nelle opere più severe: il secondo tema del secondo concerto, il secondo del concerto per violino, quasi un tango, l’attacco del quintetto con clarinetto, e tanti altri luoghi. Proprio la tensione tra la spinta all’afflato effusivo e il controllo del pudore, quasi un segreto timore di scoprire troppo le carte, più che dell’intelligenza critica, costituisce il fascino del melodizzare brahmsiano, d’una densità espressiva che fa paura. Aveva ragione Schoenberg: è la via che porta al prosciugamento (rimozione?) definitivo della melodia. E Schoenberg lo sa bene: lo rende perfino evidente nel percorso dei Gurre Lieder. Su quella riva si arriva quasi all’afasia di un Webern. Che non è vera afasia, ma l’estrema concentrazione, anzi contrazione di una melodia nel respiro istantaneo di un solo suono. Di Brahms si leggano al pianoforte, se si è capaci, o si ascoltino, gli ultimi pezzi per pianoforte, l’op. 116, 117, 118, ma soprattutto 119. Se volessimo assegnare un nome a questo atteggiamento di Brahms, dovremmo dire che è la consapevolezza della fine, ma il rifiuto di accettarla. Ed è per questo che lo sentiamo così vicino a noi, così contemporaneo: alla lettera, uno del nostro stesso tempo.
Fiano Romano, 18 giugno 2016
Stravinsky doveva avere in mente
qualcosa di simile quando compose il Concerto di Basilea. E nella poesia antica
è l'atteggiamento di Callimaco e di Orazio. Il moderno è sempre l'esperienza di
una perdita. Ci pensino tutti coloro che s'illudono di ricuperare tale e quale
un passato concluso. Il passato lo si può rievocare, ritrasformarlo, ma mai
riprodurlo, anche nella vita.
La Quarta Sinfonia è disperazione
pura, estratto di disperazione. E' il culmine di un percorso che Brahms
comincia con il Requiem tedesco. “Selige sind die Toten”, beati sono i morti. Brahms
era ancora giovane, aveva 35 anni. Ma la morte della madre divide in due la sua
vita. La perdita lo Invecchia subito, Brahms abbandona il proprio corpo alla
deformazione. A 50 anni è già un vecchio, grasso e con le rughe sotto gli
occhi. C' qualcosa che non ha mai rivelato. E' l'artista più riservato che
esista. Affida ogni rivelazione alla sua musica. Ma anche qui, come con un
codice cifrato. L'aveva imparato dall'amatissimo Robert (Schumann) a cifrare la
propria musica. Brahms non ama il gesto plateale, l'esibizione del sentimento.
Ma la sua musica è intricata, contorta, reticente, e perciò incredibilmente
densa, intensa, e proprio perciò sublime come poche altre. Tra l'altro, il tema
che apre la sinfonia nasce da un passaggio - poche battute - dell'adagio
dell'op. 106 di Beethoven. Brahms vi riconosce la sua stessa consapevolezza di
un declino, di una fine. Si parla tanto dell'ammirazione di Brahms per
Beethoven, ma pochi si soffermano sul fatto che Brahms non ammira, né tanto
meno imita uno “stile” beethoveniano. Sente, invece, in Beethoven un sentimento
affine di chiusura, di esperienza di fine. Il bello, il sogno è passato, è
finito. L'ultima delle variazioni Diabelli rievoca Haydn. Dopo tutto l'inferno
di 32 variazioni, Beethoven evoca il fantasma di Haydn (lo aveva già fatto
nell'Ottava Sinfonia, una sinfonia meravigliosa, sembra già lo Stravinsky
neoclassico), il fantasma di un equilibrio perduto. Haydn è il bello già
realizzato, ma ormai irrealizzabile. A meno che non si buttino sulla carta gli
schizzi delle Bagatelle, nel tentativo di arrestare l'attimo. Haydn è, anche,
il segno di un fallimento: il fallimento dell’utopia illuministica. Beethoven è
come Faust che ode i lemuri scavargli la fossa, ma crede che sia il lavoro di
una futura società operosa. La Germania, tra Otto e Novecento, aveva già visto
che cosa sarebbe accaduto dell'Europa. Il giacobino e sordo Beethoven che
"sente" i Francesi bombardare Vienna, deve avere "sentito"
con disperazione questa fine. Arrestarla è impossibile. Ma far sentire il
proprio rifiuto, la propria protesta, questo sì: e Beethoven lo proclama a
tutto il mondo in ogni nota della sua Nona Sinfonia.
Mi sorgono molte riflessioni su
questo concerto (il secondo per pianoforte), che fu una folgorazione giovanile.
Da allora Brahms è per me una sorta di modello, l’esempio di una modernità che
sa di dovere voltare le spalle al passato, ma ne soffre terribilmente. Adora la
cantabilità, ma deve frenarla, strangolarla, perché la sa finita, inattuale. Ne
traggano lezione tutti gli Allevi del mondo.
Fiano Romano, 19 giugno 2016