La parola da cui
partire per intendere, manzonianamente, il sugo della storia è
l’attributo “ultima” riferito all’“inchiesta”. Del
commissario Marè, certo, apparentemente, anzi illusoriamente,
sbattuto là, sulla coda del titolo, per confondere le acque. Ovvio
che, trattandosi di un’inchiesta giudiziaria, il commissario Marè,
che la conduce, anche se poi muove altre pedine, sia non solo
l’attore – sì, l’attore, la maschera principale, colui che
muove le fila stesse dell’indagine. L’autore, invece, che lo
manda allo sbaraglio, è alluso per allegoria. Dietro le quinte o,
meglio, dietro le righe. Quasi come una narrazione autobiografica per
interposta persona. Ma, come nel Pasticciaccio di Gadda, e nelle
ultime quasi borgesiane inquisizioni di Montalbano, il delitto – di
cui né il commissario né il suo reticente scrittore, come se
parlasse per interposta persona, sembrano inorridire, è solo la
faccia apparente, la maschera superficiale di un crimine più
diffuso, più profondo, che inquina per intero tutta la vita sociale
dei personaggi, a loro volta maschere, o – chi sa – specchi, del
lettore, dell’ “ipocrita” lettore che vi si dovrebbe
riconoscere, più che fratello, complice. La reticenza dello
scrittore allude proprio a questa complicità. Diradiamo la sciarada.
E’, questo, forse, il libro più amaro di Quattrucci. Quasi un
tirare i conti, non già della propria vita, ma della vita del paese
in cui è nato: niente, perciò, sembra oggi piacergli di questo
paese. Se serve uno straccio di spiegazione, lo dice anche con i
versi di canzoni famose cantate da interpreti famose. Come questi da
una canzone di Billie Holiday: “I’ll never be the same / There is
such an ache in my heart”. Heart, cuore. La parola del titolo,
troppo, sempre troppo. La reticenza, in fondo, è una forma di
difesa. A guardare il mondo con il cuore non è, infatti, che la sua
figura si deforma, come in un quadro di Francis Bacon, che anzi essa
appare in tutta la sua bruttezza e quell’occhiata può perfino
portare al crimine. Ogni capitolo ha per esergo il testo di una
canzone. Billie Holliday sta nel 18° capitolo. Uno dei personaggi
chiave del romanzo – e della vicenda – dice a un certo punto:
“Siamo in una crisi profonda, Marè. Di sistema, di civiltà …,
culturale: dello spirito pubblico. E’ crisi della democrazia,
disaffezione, distacco dallo Stato, lacerazione della società civile
e abbandono”. Lo stesso personaggio, una gallerista, poco prima, a
proposito di Francis Bacon, aveva detto: “La deformazione, sì. E’
quella che delinea più di un Rembrandt l’anima dell’Uomo … e
del mondo perciò. - Siamo tutti così? - chiede il vecchio. - Più o
meno, senza scampo. La nostra doppia natura … - riprende la
signora. - E ciascuno di noi, ci dice Bacon, è quel contorto
groviglio che svelato, o se si mostri in qualche modo, sconvolge i
nostri tratti. E ciascuno lo ha dentro quel dolore ...quel terrore e
orrore …, che ci rendono capaci di ogni cosa: sublime o maledetta”.
Poco più avanti, sempre lo stesso personaggio: “Ma io non credo
che la deformazione di Bacon voglia indicare soltanto la compresenza
del male … No: io penso che egli voglia piuttosto parlarci del
dolore, della sofferenza, della contraddizione che ognuno di noi …,
e la vita …, porta in sé. E non solo di ciò che è dentro di noi,
intrinseco all’individuo, ma di quanto ci è inflitto
dall’esterno”. La gallerista, Marella (il nome sembra una
variante femminile del nome del commissario, e forse non a caso), ha
un ruolo fondamentale nel romanzo, è anzi la chiave che lo spiega,
madre di uno dei sospettati del delitto. Perché il romanzo si apre
subito con un delitto, anzi con un cadavere: quello di un’avvenente,
affascinante e avviluppante cantante di jazz, la gezzista, come la
chiamano molti, Angela, in arte Angelica. Anche qui: nomen omen.
Intorno a lei, alla ricostruzione della sua vita si muove tutto un
mondo solo apparentemente normale, tranquillo, innocente, che ama
l’arte e la musica. Circola, invece, cocaina, si traffica con
organi di bambini rapiti, si specula sui finanziamenti di società
benefiche. Il compito del commissario è di scolpare il primo
sospettato subito indagato dalla polizia. Che naturalmente è quello
sbagliato. Il romanzo è un racconto d’inchiesta e dunque non si
può dire troppo per non rovinare l’effetto, davvero sorprendente –
ma poi non eccessivamente – della soluzione finale. Attraverso la
Roma che appare, Monti, San Saba, c’è la Roma scomparsa. E c’è
la lingua dei romani, e quella lingua italiana romanizzata, che rende
così caratteristica la prosa di Quattrucci, anche se qui meno
invadente che negli altri suoi libri. Anche il ritmo della prosa è,
infatti, lento, riflessivo, trasuda tristezza per ogni sillaba. Come
la vicenda che racconta. E c’è sfoggio di cultura, di letteratura,
di arte, ma per vie indirette, sulla bocca dei personaggi. L’altra
cultura, quella che ha forgiato questa prosa e lo sguardo dello
scrittore sulla vita, è più nascosta, va letta tra le righe,
nell’attributo insolito, nel nome buttato lì che improvvisamente
risveglia, in chi abbia frequentato il mondo romano del cinema e
della musica, improvvise accensioni del ricordo, ferite mai
rimarginate, quasi prustiane intermittenze del cuore (sempre lui!).
Sì, prustiane, come direbbe Marè. Per esempio: Maria Pia Fusco. Mi
si permetta un ricordo personale. Festival di Spoleto. Ristorantino
raffinato, ma familiare. Lo stesso dell’albergo in cui sono
alloggiato. Scendo e mi siedo a un tavolo. La proprietaria – amica
da anni – mi illustra i piatti del giorno. E’ notte inoltrata,
dopo lo spettacolo. Alzo lo sguardo, e al tavolo di fronte scorgo
Maria Pia con un’amica. Le invito al mio tavolo. Parliamo e beviamo
fino a notte fonda, la bottiglia di vino regalata dalla proprietaria.
Una vita di spettacolo scorre via dalle bocche, e pettegolezzi di
giornale – Maria Pia scriveva sullo stesso giornale per il quale
scrivo anch’io – ridiamo, alziamo troppo il gomito, e rientriamo
più che alticci ciascuno nella sua stanza. Che c’entra con il
romanzo di Quattrucci? si domanderà il lettore. Il fatto, niente. Ma
il modo del ricordo, tanto. Così come la ferita al cuore. Di nuovo,
sempre lui. Tutto il romanzo, infatti, vive di questo continuo
sussultare dei ricordi, perfino l’inchiesta scava nei ricordi della
donna morta ammazzata. E, appena nominato, ogni luogo risveglia
memorie, ogni figura richiama somiglianze, speranze tradite, paure
avveratesi. Quattrucci racconta un delitto, o meglio le indagini
sull’attore, più che sull’autore, di un delitto. E attraverso le
ipotesi di assassinio prende corpo l’assassinio di una società, il
seppellimento di una cultura. Chi ha compiuto il crimine di ammazzare
la cantante può, forse, finire dietro le sbarre, ma il crimine
collettivo che ha demolito una società, come lo si potrà punire,
isolare, rinchiudendo un intero popolo in un carcere di massima
sicurezza? Ed è di questo crimine, che attraverso la maschera
dell’assassinio della gezzista, ci parla, in questo
bellissimo, amarissimo romanzo, Quattrucci. E ci lascia con la bocca
amara, il cuore – eh sì! di nuovo lui! - pesante, stramazzato per
terra, troppo grave, troppo sfracellato, per tentare di raccoglierlo.
Dino Villatico
Fiano, 9 maggio 2018
Mario Quattrucci,
Troppo Cuore. L’ultima inchiesta di Marè, Robin Edizioni,
2018, pagg. 312, € 15,00