Le Dieci poesie vissute a
Palermo da Solstizio
di Roberto Deidier costituiscono una piccola raccolta chiusa in sé
all’interno della raccolta di poesie che formano il libro. Ed è
per questo che mi piace analizzarle a parte.
La prima cosa che salta subito
agli occhi è che tutte e dieci le poesie sono di quattordici versi.
La misura del sonetto. Ma la divisione non è quella tradizionale
italiana o francese o spagnola, due quartine seguite da due terzine,
e nemmeno quella inglese, tre quartine concluse da un distico a rima
baciata. La tradizione italiana, che si vuole cominciata da Jacopo da
Lentini, e dunque nell’ambito della scuola siciliana, mantiene
rigorosamente le stesse rime nelle due quartine, ABAB ABAB, oppure
ABBA ABBA, e poi nelle due terzine, che ammettono maggiori soluzioni:
ABA BAB, DEE DFF, DEF FED, DEF DEF. I francesi si sentono spesso
liberi di variare le rime delle quartine, gli spagnoli restano invece
fedeli alla tradizione italiana. Nella letteratura europea il sonetto
ha un successo ineguagliato da altre forme metriche. Perfino poeti
d’avanguardia come Mallarmé, Valery, Apollinaire, Borges, Vallejo,
Antonio Machado, Walter Benjamin (che ne scrive di sublimi), George,
Hofmannsthal, ne hanno scritto e di bellissimi. In Italia meno, già
l’Infinito di Leopardi, che quanto a dimensioni lo arieggia (15
versi), è in endecasillabi sciolti. Ma splendidi sonetti hanno
scritto D’Annunzio, Pascoli, Saba, Betocchi, Gatto. Questi di
Roberto Deidier, se sono sonetti, seguono uno schema tutto proprio.
Divisi in due strofe di sette versi ciascuna, fanno uso assai libero
di rime, assonanze e consonanze. Libero, sì, ma costante. Deidier
sembra attivare un orecchio attentissimo, sensibilissimo a stabilire
connessioni non solo tra le parole che chiudono il verso, ma anche
all’interno stesso del verso, e a mescolare la risonanza musicale
dell’assonanza con quella della rima e della consonanza. Per
esempio nell’ottava poesia del gruppo, “Città del doppio regno,
quale infanzia”, l’intrico tra rime, assonanze e consonanze è
fittissimo. Prendiamo la prima strofa di sette versi:
Città del doppio regno,
quale infanzia
Fai trasmigrare da una costa
all’altra,
Che miriade di pietre si
confonde -
Oro, pietà, pittura, calce ed
ansia -
Nelle navate di chiese
profonde,
Perché la morte trionfa così
scaltra
E la memoria è una casa
deserta …
Infanzia, altra,
ansia, scaltra sono parole tutte con assonanza a-a,
altra e scaltra fanno rima, infanzia e ansia
si distinguono solo per lo scarto tra la s sorda di ansia e la
z sorda di infanzia, fanno quasi rima. Confonde e
profonde sono in rima. L’ultimo verso sembrerebbe senza rima
né assonanza. Ma scaltra sta in assonanza con la penultima
parola casa, e l’ultima parola deserta si avvicina a
produrre una consonanza con scaltra: ltr-rt. La seconda
serie di sette versi chiarisce il senso di queste combinazioni.
Un silenzio si sente e non è
mio.
Mie non sono le strade della
Kalsa,
Gli improvvisi vuoti urbani,
le palme
Robuste e i ficus verso la
marina.
Viene dal corso un traffico
che incalza,
Un peschereccio smuove le onde
calme.
La gente senza fretta
s’incammina.
Il primo verso sembrerebbe
senza rima né mostra qualche assonanza con gli altri versi. Eppure
quel sente sembra un’eco del si confonde e profonde
della strofa precedente. Ma poi, come fa il silenzio a legarsi con
il resto della città, con il sentimento del poeta? Intanto si
ascolti l’ossimoro di un silenzio che si sente. E questa presenza
uditiva si fa sensibile con la successione di sibilanti. Ma è il
poeta stesso a dire che quel silenzio non gli appartiene. Lo esclude
pertanto al lavoro poetico delle rime. Ecco un esempio efficacissimo
di una struttura metrica che comunica senso. E in questo senso di una
inappartenenza sembra farsi luce un motivo ossessivo di tutt’e
dieci le poesie, anzi, forse, di tutta la poesia di Deidier: il senso
dell’estraneità del mondo, dell’impossibilità d’impadronirsene,
il contatto con le cose vissuto perciò come casuale, privo di senso,
e la poesia intesa dunque come uno sforzo di dare senso a questa
mancanza di senso. Quasi mai riuscendoci. Non perché la poesia non
sappia dirlo un senso, ma perché il suo resta sempre il senso della
poesia e non delle cose. Se poi si riflette che in fondo è una cosa
esterna, estranea, anche ogni attimo della propria vita, una volta
trascorso, allora quest’esperienza dell’inafferrabilità del
reale, sia questo reale anche la propria vita, diventa il senso
stesso di fare poesia, dare voce a ciò che non si può, non si sa
dire. Illudersi, anzi, che quella propria voce sia anche la voce
delle cose. Perché, comunque, è la voce del linguaggio, l’unico
strumento che abbiamo non tanto per rapportarci con il mondo, ma per
dire il nostro rapportarci con il mondo. Non a caso le poesie non
s’intitolano Dieci poesie a Palermo, ma Dieci poesie
VISSUTE a Palermo. La Kalsa è uno dei luoghi magici di Palermo.
Vi si trovano il quattrocentesco palazzo Abatellis e la chiesa di
Santa Maria dell’Ammiraglio, con i suoi splendidi mosaici bizantini
del XII secolo. Poco lontano c’è il porto. Ci sono le palme. Il
senso di estraneità, di sospensione dell’esistente si fa quasi
intuizione metafisica dell’assenza dal mondo, dell’estraneità di
ciascuno alla vita, come una monade leibniziana che non intacca le
altre vite: “mie non sono le strade della Kalsa, / Gli improvvisi
vuoti urbani”. Questo sospeso senso di estraneità è di tutt’e
dieci le poesie. E ad accrescerlo è anche la scelta, anomala nella
poesia italiana contemporanea, dell’endecasillabo, il suo procedere
regolare, anche se libero, ma che avanza come su binari prefissati.
L’endecasillabo, del resto, s’infiltra per tutta la raccolta,
talora perfettamente scandito, ma spesso alluso, adombrato,
frammentato. E anche questa scelta avrà un senso. Che sarebbe errato
interpretare come intento di restaurazione, come se l’avanguardia
la si fosse messa da canto, scartata come zavorra inattuale. Questa
sarebbe una poetica del postmoderno, che assimila tutte le forme,
possibilmente le meno sperimentali possibile. Invece, in queste Dieci
poesie, e in tutta la raccolta, come in tutta la poesia di
Deidier, la forma nasce proprio dal corpo della dissezione che
l’avanguardia ha compiuto del verso italiano, ne viene fuori una
sorta non di ricostruzione, ma di reinvenzione di una tradizione mai
dismessa, mai trascurata nemmeno dall’avanguardia, si pensi, che
so, agli sperimentalismi di un Sanguineti, che sono però così fitti
di fossili poetici della tradizione, o alle terzine danteggianti
delle Ceneri di Gramsci di Pasolini. Mondi comunque lontani
dalla scrittura di Deidier. Si vada piuttosto a certe sprezzature
montaliane, al canto accarezzato di Penna, che resta comunque un caso
singolo, dolorosamente e felicemente singolo. Ma ciascuno, leggendo,
potrà ricostruire un suo proprio archivio di poesia contemporanea
italiana, dove riesca difficile distinguere l’avanguardia dalla
tradizione. Perché no, anche Ferruccio Benzoni, Vittorio Sereni (ma
molto, molto alla lontana)?
La prima poesia, “Per quanti
volti invano abbia cercato”, è l’unica delle dieci che osservi
una combinazione di sole rime. Questo lo schema: ABABCCA // DEFDEFD.
C’è una certa simmetria nella disposizione. E qualcuno riconoscerà
nella seconda strofa uno degli schemi tradizionali delle rime delle
due terzine del sonetto. L’attacco delle due strofe presenta la
ripetizione di una stessa sequenza: ABAB // DEFDEF. Ma le conclusioni
divergono: CCA // D. In questo modo, anzi, la seconda strofa presenta
una sequenza chiusa, che apre e chiude con la stessa rima: DEFDEFD.
Sembra quasi un proposito programmatico. Che corrisponde al senso di
estraneità della visione: “Al chiarore di una luce straniera”.
In questa estraneità perfino della luce inutile cercare volti. Le
vie, le piazze “ruotano vuote”. Ma leggiamola, e poi
addentriamoci in qualche osservazione.
Per quanti volti invano abbia
cercato
Al chiarore d’una luce
straniera,
Le vie, le piazze dove ho
camminato
E atteso che giungesse infine
sera
Ruotano vuote spazzate dal
vento:
Ma dei tuoi occhi devi farne
cento
O il sole anche quest’oggi
t’ha abbagliato.
Non loro guardano, ma te che
arrivi,
Ladro d’ogni figura, sia che
dica
Vicinanza o da un attracco
remoto
Gomena liberata dia gli
abbrivi:
Felice del tuo niente, la
fatica
Lascia le spalle, cede al
ritmo noto
Dell’incessante passeggio
dei vivi.
Alle vie, alle piazze vuote
della prima strofa corrispondono l’indifferenza di vicinanza e
lontananza, “sia che dica / Vicinanza o da un attracco remoto”,
in quel vuoto si può esperire quasi una sorta di felicità, ma è la
felicità dell’assenza, del niente,”Felice del tuo niente”, ciò
che si riconosce, e che ritorna, è il ripetersi quasi inerte della
vita, come cosa estranea, che non ci riguarda, “cede al ritmo noto
/ Dell’incessante passeggio dei vivi”. Nella loro ripetizione di
gesti sempre uguali, i vivi assomigliano ai morti, non riescono a
riempire le vie e le piazze spazzate dal vento. Il programma delle
dieci poesie è impostato: il “vissuto” di ciascuna non sarà che
una variazione di questo incessante passeggio, una ripetizione
d’inappartenenza. Variazioni anche gli schemi metrici, delle rime,
delle assonanze, a raffigurare la filigrana del vissuto, un sipario
che comunque si alzi o cali mostra lo stesso deserto. “Le botteghe
del mercato sono grotte” (IV), “L’arabesco confonde il bene e
il male” (VI), “Qui stai oltre te stesso, oltre il gioco” (IX),
“… qui dove muore / Il mio sospetto di vivere altrove” (X), e
si noti l’assonanza muore/altrove, o-e/o-e.
L’altrove può essere anche questo qui, questo adesso. Ed è
sempre, in ogni caso, un’esperienza di morte. L’esperienza di
un’alterità, di un’inappartenenza, appunto.
Tutta particolare è però la
VII Poesia, dedica all’Annunziata di Antonello (un caso che sia la
settima? Le sette spade, i sette dolori).
Spiegato il velo, preso da un
cassetto
(La seduzione dei giorni di
festa):
Una mano respinge, l’altra
sfoglia,
Ti fingi una lettura, esci dal
buio
Dov’eri confinata oltre la
storia.
Del tuo stupore è tutto quel
che resta,
Questo freddo silenzio appena
detto.
Così l’annuncio sembra già
avvenuto.
Dalle bifore spunta il pieno
giorno:
Ma chi ti osserva, angelo in
ritardo,
Quel buio fermo sa che non è
muto
E se ci entra sente la tua
voce
Di terra e d’acqua, un mondo
tutt’intorno,
Non è sorgente, ma più vasta
foce.
Si ripresenta, anche qui, il
silenzio che parla, che suona, che ritroveremo nella poesia seguente,
la VIII, di cui si è scritto all’inizio di queste riflessioni:
“Questo freddo silenzio appena detto”. Non è un silenzio
qualunque, ma il silenzio che succede a un annuncio. E quell’annuncio
ha diviso in due parti la vita della donna, la fa uscire “dal buio
dov’era confinata”, e “oltre la storia”. La storia è
l’annuncio, l’irruzione dell’angelo che folgora il buio di chi
non appartiene alla storia, della massa dei vivi, che altrove abbiamo
visto simili ai morti, a passeggiare per strade deserte. Ma l’angelo
dell’annuncio non c’è, non lo vediamo, è già volato via. E non
lo si sarebbe comunque visto, nemmeno nel momento dell’annuncio,
perché la scena inquadra la donna, la chiude in uno spazio ristretto
eppure profondo, s’immagina che sia rimasta ferma là, una mano
protesa in avanti, l’altra che stringe il velo azzurro, il libro
aperto sul leggio, lo sguardo perso in un dove senza spazio. L’angelo
sta fuori del campo, nel punto da dove ora guarda il quadro
l’osservatore (se ne ricorderà Velázquez
nel meraviglioso dipinto delle Meninas).
La volontà, per la donna osservata, si è esaurita nella risposta di
accettazione. L’altro, l’angelo, l’alterità dell’essere,
l’impronunciabile dell’esistenza, è stato detto, è già anzi il
suo destino, intendo il destino della donna, e con il suo il destino
di noi tutti. Ma ritornata nel buio dell’oggi, ciò che ne resta,
di quell’annuncio, è solo lo stupore dell’accaduto una volta per
tutte. Noi che ora la guardiamo succediamo al già avvenuto,
presenziamo al richiudersi dell’istante in un tempo che si ripete,
siamo angeli “in ritardo”: non abbiamo nessun annuncio da
proferire, sappiamo però che il buio in cui è entrato l’altro
angelo non è muto. Entrandovi, dentro quel buio, anche l’angelo in
ritardo sente perciò la voce della donna che esce dal buio ed entra
nella storia. Non c’è più spazio per un principio, né tempo per
un avvenimento, l’istante si diluisce in un fiume di attimi che
sfociano nell’eterno naufragio dell’essere nel mare del nulla,
dove può darsi è ancora dolce naufragare, e dove chi sa si cuce, è
ancora possibile rattoppare la distanza tra l’io e il mondo
tutt’intorno.
Una forma poetica, reinventata
da cima a fondo, ne racchiude dunque il segreto: in quel suo stare
sospesa tra la chiusura regolare del metro, quattordici versi, e
l’imprevedibilità delle rime, la libertà delle assonanze. Il nome
taciuto, Jacopo da Lentini, ma sottinteso in quello della città,
Palermo, a decidere la nascita di una forma poetica, e il destino di
una letteratura, in cui precipita e si confonde anche il destino del
poeta contemporaneo, dal nome tra d’oc e d’oil, Deidier, e
insieme a lui, di tutti noi. Dietro a questo mascheramento del
sonetto chi sa che non si celi, però, un altro mascheramento, di
un’altra forma poetica, l’invenzione crittografica di una poesia
che, forse, ha generato tutta la nostra poesia, anche Jacopo da
Lentini, anche Petrarca, anche Baudelaire. Anche Shakespeare. Anche
Donne. Dietro la griglia del sonetto, in trasparenza, potremmo
intravedere, infatti, un’altra, e più fitta, griglia: quella della
sestina, e del suo artefice – artifex – Arnaut Daniel, il
“miglior fabbro del parlar materno”. Chi sa che non alluda
proprio a questo la divisione di questa rifondazione del sonetto in
due strofe di sette versi ciascuna. E – guarda caso – Antonello
si presenta alla Settima poesia. Dal trobar clus dei trovatori al
pensiero teologico di un pittore siculofiammingo, all’ars poetica
di un poeta contemporaneo. E non ci si venga a dire, adesso, che la
poesia d’oggi non è più ars, non è più il laboratorio dove si
sperimenti la ricerca di un senso nello sterminato non senso della
vita. E se qualche senso, alla fine, ci sembrerà invece di
individuarvi, e di riscontrarlo, proprio nella poesia, sarà
probabilmente quello che ci si mostra sotto la maschera geometrica di
una forma poetica.
Le dieci poesie hanno un
proemio o un esergo autografo di quattro versi, stampati in corsivo:
Quando a una certa ora il
pomeriggio
Filtra dalle serrande e con
la luce
grida allegre, scalpiccio
di rincorse,
allora puoi pensare: questa
è una città.
I
primi tre versi
sono endecasillabi, il primo
ha uno
iato tra certa
e ora,
le due vocali non si assimilano perché la o
di ora
è accentata e l’accento cade su una
posizione importante del verso, la sesta sillaba. Il
terzo verso, se scalpiccio
avesse l’accento sulla seconda i, scalpiccìo,
avrebbe un’accentazione anomala: 1,3, 7,10. Regola vorrebbe,
infatti, che l’accento sulla 7a
sillaba fosse preceduto da un accento sulla 4a.
Ma, volendo,
si potrebbe considerare un accento secondario sulla 5a,
enfatizzando la prima sillaba di scalpiccìo,
scàlpiccìo.
E nelle Dieci
poesie
(ma anche nel resto della raccolta) l’accento sulla 5a
sillaba
di un endecasillabo non
è raro. Tuttavia tutto ritorna invece
regolare se si accenta la prima i di scalpiccio,
scalpìccio.
E
credo che questa sia la dicitura del poeta. Confortata anche da
esempi letterari illustri. Cfr. la voce del Vocabolario Treccani:
“scalpìccio
s. m. [der. di scalpicciare].
– Lo stesso, ma più raro, che scalpiccìo;
può indicare un movimento di piedi (e il relativo rumore) più
leggero e di più breve durata: E
risonava tutta la pianura D’uno scalpiccio verso la capanna
(Pascoli)”. La metrica, in questo caso, addita perciò
l’accentazione della parola. Ed è la lettura più semplice, e
pertanto la più corretta. Il quarto verso è un doppio settenario,
se si fa iato tra questa
e è.
Sempre per il fatto che la sillaba accentata fa cadere l’accento su
una posizione importante del verso. Non
ci sono né rime né assonanze né consonanze. Ma c’è un gioco
fluido, continuo, raffinato, di allitterazioni che ruotano intorno
alla consonante r:
“certa ora del pomeriggio”, “filtra dalle serrande”, “grida
allegre … rincorse”, “allora puoi pensare”. Ma poi, che
dicono questi quattro versi? Intanto, bloccano un attimo: “Quando a
una certa ora del pomeriggio”. L’ossessione del tempo che
percorre non solo le Dieci
poesie,
ma tutta la raccolta di Solstizio.
E nell’attimo sospeso si producono suoni, che misurano lo scorrere
del tempo, anche se proprio per quella sospensione iniziale tutta la
scena sembra assomigliare a un quadro metafisico di De Chirico o a
un’istantanea di Hopper. La città è percepita perché il silenzio
è interrotto dal suono, perché nell’immobilità della visione fa
irruzione il rumore. E tuttavia le voci, anzi le grida, e allegre, e
i rumori, lo scalpiccio dei piedi, “il
buio fermo non è muto” della poesia dell’Annunciata. Il
“silenzio si sente”. Eccoci dunque introdotti nel mondo della
distanza, della fissità, dell’inappartenenza. Come se proprio i
suoni, le voci, i rumori, le vibrazioni della vita ci comunicassero
la nostra estraneità alla vita, lo starne fuori, via, spettatori
inascoltati e inerti di qualcosa in cui non possiamo intervenire.
In margine: trobar in
provenzale significa poetare. Ed è probabile che il termine provenga
dalla pratica del tropo, rielaborazione poetica e musicale di un
testo liturgico e della sua melodia. In latino: tropare. La
somiglianza con trovare non è forse casuale. Piace comunque pensare
che all’origine della poesia europea ci siano già, fin
dall’inizio, la ricerca, l’artificio, e la musica.
Roberto Deidier, Solstizio,
Poesia, Milano, Mondadori, “Lo Specchio”, 2014
Le Dieci poesie vissute a
Palermo coprono le pagg. 53-65. Erano state pubblicate a Milano
nel 2006, in una plaquette dal titolo Questa folla viva.