martedì 14 febbraio 2017

Parmenide



               PARMENIDE


ΦΕΡΣΕΦΟΝΗΣ ΑΙΔΟΥ
DI PERSEFONE E ADE
Iscrizione ritrovata tra i resti di un tempio della Magna Grecia presso l’antica Elea, oggi Casal Velino

“Solo podemos ver aquello que hemos perdido. El resto, lo que creemos tener, es invisible. Incomprensible”.
Miquel Ángel Hernández, El instante de peligro, pag. 135

“Possiamo vedere solo quello che abbiamo perduto. Il resto, ciò che crediamo di possedere, è invisibile. Incomprensibile”.
Miquel Ángel Hernández, L’stante di pericolo, pag. 135 dell’ed. spagnola


1.

Dalla porta di casa mai nessuna
strada mi condurrà fino alla soglia
che socchiude la vista sulle cose,
nessuna la natura delle cose,
nessuna che m’inoltri oltre le cose.
Ciò che non è non è, non devo dire
che è. Ma ciò che è, quale parola
potrà dirlo? L’olivo c’è, qua fuori,
da potare; la siepe che alta e verde
fino alla strada stende le sue foglie;
fanno festa gli uccelli tra le canne
che s’alzano dal pozzo; i ringospermi
s’intrecciano  sinuosi, tra le grate
che cingono il giardino; verso sera
volteggiano sul tetto i pipistrelli.
Guardo, presso il Soratte, tramontare
sull’orizzonte il sole. Mi riposo
dall’inerzia di un lungo divagare
tra libri, carte, e desktop di computer.
Niente di ciò che guardo e scruto, resta
negli occhi uguale, niente dei ricordi
che sbiadiscono, niente delle cose
che ho già guardato e delle loro forme.
Tutto si trascolora, tutto sembra
muoversi e trasmigrare da un momento
all’altro dello sguardo, farsi spazio,
e infiltrarsi da un punto a un altro punto
del cervello, come aspide rabbioso,
e trasformarsi, pungermi, addentarmi,
finché ne sprizzi il sangue dei pensieri,
si spolpi la carcassa dei ricordi;
avverto, non so come, non so dove,
di cambiare, ma guardo il mio giardino,
e non ricordo i miei pensieri, quando
mi cadde il primo sguardo sugli olivi;
d’altro mi venne, più antico giardino,
rimorso: ma sentirmelo sfumato,
o, più selvaggiamente, senza scampo
scomparso, mi scurisce la memoria.
Mi soffermo ai profili del ricordo.
E guardo le mie mani, se seduto,
sul banco di birraio, sotto il tetto,
davanti alla mia porta, bevo lento
un bicchiere di vino:  più non sono
le stesse, che anni prima, sul mio Bechstein,
suonavano Chopin. Nemmeno sono
più quelle che staccavano le noci
dall’albero, tiravano dal sorbo
i frutti bruni che mangiavo senza
lavarli, o dal susino, nel pollaio,
le dolci prugne nere. Tutto questo
non ce l’ho più, non c’è, qualche parola
può risarcirne la presente assenza,
ma il groppo di materia che non vedo,
e che m’ingombra denso la memoria,
l’ammasso informe che l’inesistenza
mi scaglia contro il tempo nel cervello,
con quale affermazione riscattarlo,
quale copula me ne definisce
la sostanza, una se mai ne sopravvive,
in questo evaporato cataclisma
degli affetti, se ho un corpo esacerbato
dal mio caparbio ispezionarne il vuoto
che resta, dopo che ho  scavato il tempo?
Di quale spazio, inoltre, e quale tempo,
è la piccola aiuola che mi contiene?
Quale mondo, di quale sterminato
universo, la sfera che trascorre
da un punto all’altro, in mezzo a questo
spreco di spazio ? e gli esseri di un giorno
che noi siamo, lo abiteremmo soli?
Dal punto in cui la prima volta esplose
la polvere del cosmo, o prima solo
di un’altra serie innumere di volte,
quale misura il tempo da quel punto?
o senza inizio e senza fine, d’ogni
cosa l’inizio e la sua fine? e senza moto,
e senza tempo, l’essere che vive
solo del suo presente, tolto al ciclo
dei viventi che nascono soltanto
per morire? la vita non sarebbe
che un’eccezione all’increato, muto,
illacrimato stare del silenzio?
E tutto sta, tranne la mia paura,
tranne questo perenne interminato
vortice dentro cui scagliato resta
l’interrogarmi sempre inascoltato.
Leggo versi, ne scrivo ancora, versi
che vorrebbero dire un mio distacco,
qualche distanza dalla vita. Sento
invece più furiosi perseguirmi,
aggrapparsi a quel poco che mi resta
di giudizio, un bisogno ed una voglia
di spremere contatti, con me stesso,
con gli altri, con le cose, e tuttavia
gl’inutili, scarabocchiati gesti
che segno sulla pagina, più volte
li leggo, li ripeto, a voce bassa,
e, tra di me, me ne vergogno, versi
che questo mio registrano distacco,
ma me lo diluiscono tra voci
di frivola mestizia. Me ne sento
cambiato, da quel tempo. E che parola
il cambiamento mi pronuncerebbe
se sillabare la separazione
non può nessuna voce? Sono un altro.
Niente resta quel sé di ciò che era,
niente persiste, o sta nel tempo,  come
mi piacerebbe ricordarlo. Niente,
nemmeno nel ricordo. Niente resta
sé stesso:  svaporarne percepisco
l’essenza prima ancora di toccare
l’aria in cui mi credevo di poterla
racchiudere: invisibile frammento
di tutti gl’incompiuti desideri,
se ne disperde opaca, se ne svuota
l’immagine. Ne avesse un’illusione
chi sa promesso una riscossa, male
ne sentirò, più che il concetto, sempre
sfuggirmene la presa, il desiderio
di riagguantarla. Si è perduta. E perdo
anche di me l’immagine scampata
alla ruspa che appiana le illusioni.
In un bivio separano il cammino,
le strade del ricordo e del presente,
da una parte l’origine, dall’altra
la fine, l’Oriente e l’Occidente,
il sole che dal Tevere s’innalza,
e che tramonta accanto all’ingobbito
profilo del Soratte: il punto, sembra,
della nascita e quello, non ancora
da me vissuto, della fine. In mezzo,
il passo che non sa, non può tornare
indietro, ma dissoda per un’orma
stabile il suo terreno. E sempre invano!
Permane ciò che avanza, si esaurisce
ciò che non cambia, il tempo che s’arresta,
la memoria che fissa il proprio blocco,
l’immagine fermata che non scorre,
il film che s’interrompe. Il buio, forse,
ma che nessuno vede o può vedere.
Quali cavalle, qui, mi condurranno,
mia vecchia, inascoltata, estinta voce,
fino alle porte del mio desiderio,
se il desiderio mi sarà sottratto?
Scesa la notte sul giardino, stretti
i pipistrelli nelle loro tane,
spente le stelle dalle troppe luci
della terra, che maschera, mio canto,
indosserà lo sguardo, se più vivo
mi sembrerà di un satiro il sorriso,
più attuale la voce che ho zittito?
O deridermi Pan tra questi boschi
potrebbe ancora? Vecchie forme, vecchie
divinità mi appaiono tra i campi.
O sono i miei pensieri che tra frasche,
fruscio di rami, liquidi riflessi,
volteggiano nell’aria della sera?
Ma non più forti della mia paura.
Permanenza, dove non c’è che l’onda
di un fiume? Per due volte non mi è dato
nella stessa acqua immergermi che scorre.
Ma se m’aggrappo al buio che m’inghiotte,
luce delle passate ore del giorno
potrebbe risarcirmene un ricordo?
Mi corrode l’ormai trascorsa gioia,
né mi morde il furore dei perdenti,
che m’insultano, i ripetuti assalti.
Resto inerte. Mi attacca e mi ferisce
l’inesistenza del domani. Guardo
nell’attimo presente il punto in cui
sono e non sono. Passo dal momento
che s’accende al momento che scompare.
Ma la storia di quel che fui e la storia
che mi resta, se resta, non esiste.
La strada si divarica tra quella
che guarda oltre gli olivi al nuovo sole
e quella che lo vede tramontare.
Posso entrambe percorrerle, pensarle,
e pensandole, dirle, raccontarle.
Ma le ricostruisco, e le percorro,
solo nel mio pensiero che le pensa.
E crederò che dico, che racconto,
ciò che prima di dirlo, qui non c’era,
e non c’era sul foglio la parola
che gli dà forma? o sappia ricordarlo?
C’è differenza? Navigo tra il niente
del ricordo e quell’altro immenso niente
in cui per sempre naufraga il ricordo.

2.

Ma se questa è la soglia oltre la quale
non si avventura il piede, perché Notte
lo ingoierebbe, e ritrovata vampa
m’ illumina quaggiù del Giorno, vado
per i noti sentieri delle cose,
ragguaglio l’alternarsi delle stelle
nel cielo, il separarsi  della luce
dal buio, lo strisciare dei ramarri
tra i cespugli di bosso, lo squittire
dei ratti tra gli steli dell’alloro,
il volo degli storni tra gli ulivi,
tutto questo lo vedo, lo racconto;
ma  se mi guardo indietro, una per una
risillabare le stagioni estinte
come potrò, restituirle all’oggi,
toccarne come l’erba la freschezza,
annusarne l’odore che persiste?
Sembra un istante immobile l’ammasso
dei giorni depennati: se ne fisso
lo svanire, l’immagine mi resta
impressa sulla retina. Non sono
davvero dileguate le figure
che assediano ossessive il mio presente.
Niente devasta la mia vista, quanto
quel niente che si ammucchia nel cervello.
Ma poi: che resta dei trascorsi giorni
di bambino? di quando negli stagni
inseguivo le rane fuggitive?
che resta delle spiagge sterminate
dell’Atlantico, quando  l’una dietro
l’altra guardavo le lunghe onde bianche
gonfiarsi, accavallarsi e poi disfarsi?
Che resta dei cavalli sulle strade
sterrate di montagna, e giù lontano,
la deserta distesa della Pampa?
che resta di quel me, che si turbava
a guardare nel lago i corpi nudi
dei ragazzi, e sfidava il salto ardito
dei tuffi con lo sguardo, si arrendeva
deluso alla distanza del mio cupo
concupirli? Che resta, nel presente,
di quel me che non sono, ma che forma
non ebbe mai se non di fantasia?
Che resta dei bei corpi accarezzati,
che ora intorno non vedo più? che resta
del grido trattenuto, quando l’aria
sentivo tolta in volo sotto i piedi?
che mi resta dell’acqua di quei giochi,
se la voce dei tanti giocatori
mi scompare perfino nel ricordo?
Il tempo stesso che trascorre, tempo
m’è forse solo nella mia memoria.
Accade e passa, e quando passa è niente.
Fuori di me la consistenza inerte
degli oggetti,  degli alberi, del fiume,
che nostalgia bandiscono e rimorso.
Un bandolo, chi sa, potrebbe ancora
di qualche fuga, qualche scappatoia,
l’invocato silenzio ritornarmi,
che me ne spenga i suoni. Forse allora
mi si spalancherebbe la parola
in cui è naufragata la voglia
di ciò che sono. Ma non altro, niente
che oltrepassi la voglia, mi rassodi
l’evanescente idea di ciò che sono.
E solo un’apparenza apparirebbe
fuori di me ciò che mi sembra cosa.
Ma tuttavia, se a dirla scomparisse
l’evanescenza, e mi restituisse
un punto, un passo in cui sostare il piede,
fermare l’occhio, e confortarmi, quale
nella parola il nodo che la dice?
una sostanza mi restituirebbe
a quel niente che resta tra le dita?
Cercherei di me stesso, se non il groppo,
almeno l’ombra di un’’immaginaria
permanenza? o m’illude, senza scampo,
la fantasia che inventa una materia
oltre la morte. Di che cosa vita,
se no, sarebbe la sopravvivenza?
Ma non di me, anche se solo voglio
da me guardarlo, ha voglia di occuparsi
il mondo. Ruoterebbe intorno al Sole,
lo stesso, anche senza di me. Risposte
chiedermi alle domande non riguarda
che me. Se è un niente che m’assedia, un niente
anche sarà la mia sostanza, un niente
che non è stato, che mi parve cosa,
solo perché ne parlo, ma la cosa
insieme a me scomparirà, né danno
parrà il congedo,  se il mio fiato solo
potrò senza più lacrime arrestarlo:
il démone che m’indica la via
saprà segnarmi il punto della sosta.


Fiano Romano, 30 gennaio – 12 febbraio 2017

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