Mario Quattrucci,
Ogni giorno è quel giorno, Torino, Robin Edizioni, 2015,
pagg. 184
Un
delitto del ‘43 e altri racconti, Torino, Robin Edizionim 2016,
pagg. 288
me lo portavo dentro il fare e l’essere
tutto ciò che fummo
ma adesso m’accorgo che ho perduto
anche ciò che non è e non ci attende:
ciò che avremmo dovuto e che non siamo
(Ogni giorno, pag. 33)
Più che una poesia, potrebbe anche essere un’epigrafe, un
manifesto, un esergo. O un bellissimo epigramma alessandrino, se non
addirittura bizantino, che so, Paolo Silenziario. Ma il termine
greco, italianizzato, esergo, affascina di più: ἐξ ἔργον,
fuori opera. E’ fuori della pagina, infatti, spesso, il suo senso.
O, come vuole una poetica indiana del settimo secolo, lo dhvanya, ciò
che nel testo non è detto, ma è l’assunto fondamentale. Vengono a
mente i versi di Montale:
codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Era appena cominciato il ventennio fascista. Oggi, quel ventennio è,
sembra alle spalle. Altri ventenni sono venuti. E altri ne sono
minacciati. Perciò in Quattrucci quell’impotenza si fa doloroso
rimpianto. Come dagli torto?
E tutto è: come non sia mai stato
e invece fu
e non è stato invano
Queste righe non sono una recensione, ma una riflessione in divenire,
tutta ancora per frammenti, principiante, su un poeta e un narratore
di cui si dovrebbe conoscere di più, saperlo nelle vetrine di tutte
le librerie d’Italia. Ma questa è, appunto, oggi, la situazione
italiana, anche, o soprattutto, della letteratura: diffuso e
dibattuto il banale, il superfluo, l’inutile, la bazzecola di
propaganda, il calembour pubblicitario, il cincischiamento del
selfie. Mai l’occhio che fissa un oggetto, una realtà. Il verso
che canti l’oggi (ma lo canti, perdinci! e non sia prosa
sminuzzata). Il racconto che denudi la maschera sociale e faccia
gridare che il re è nudo. Ecco, Quattrucci fa questo. Per
cominciare, lo fa con la lingua. Un italiano scarno, scolpito nel
lessico colto e parlato, dal poeta; e dal narratore, un intruglio o,
piuttosto, un filtro alchemico, di prosa letteraria e di parlato
romano, laziale, umbro, ma che non scade mai nel vezzeggiamento del
particolare pittoresco, nel compiacimento del caratteristico, del
dialettale. Ma il parlato narrativo non distingue tra lingua
letteraria e lingua parlata, le mescola, e fa una lingua letteraria
di questo mescolamento. Alle spalle c’è una lunga tradizione. Il
primo nome che viene alla mente è certo Gadda, tra l’altro citato
attraverso alcuni suoi neologismi, qualcuno famoso, già diventato
tradizione. Ma si può andare indietro a Verga, al suo italiano
intriso di sintassi siciliana. O perfino a Fogazzaro, scrittore oggi
ingiustamente trascurato. E poi ci sono i triestini, Svevo, Slataper.
Ma non si tratta di imitazione, quanto piuttosto di rinsaldare una
tradizione parallela, antiretorica, della narrativa italiana, si
potrebbe perfino fare il nome di Fenoglio. Ma c’è, naturalmente,
anche il grande Belli. Soprattutto come inventore di vocaboli che
nascono dalla storpiatura di vocaboli colti malcompresi dal parlante.
Ma poi c’è anche l’altro livello, quello colto, anzi coltissimo,
di cui si compiace l’ispettore Marè. Sarebbe difficile districare
la matassa. La raccolta di questi racconti è, più che mirabile
(anche!), una continua scoperta di nuovi piani psicologici del
personaggio narrato, di nuove derive e invenzioni linguistiche. Ma
c’è un racconto che, più di ogni altro, resta impresso nella
memoria del lettore. E’ Nico er madonnaro. Il suo senso
profondo si chiarisce con la lettura del racconto seguente: Hanno
ammazzato Montalbano. Qui i personaggi dei racconti polizieschi
si fanno persone, agiscono nella vita reale, si mescolano a persone
reali. Viene in mente un film, bellissimo, di anni fa, in cui
personaggi dell’animazione si mescolano a personaggi interpretati
da attori in carne ed ossa: Chi ha incastrato Roger Rabbit?
Reale e fantastico si mescolano, anzi si mescolano i generi,
animazione e poliziesco. Quattrucci mescola i piani dell’invenzione
narrativa di Camilleri e la propria. Anzi, tratta il personaggio di
Camilleri non come un personaggio, ma come una persona reale. Entra
ed esce dalla pagina, entra ed esce dal racconto, mescola invenzione
e realtà, quest’ultima alla fine più irreale della finzione. Il
grande nome è taciuto, ma subito evocato: Borges. Tra l’altro, non
so quanti sappiano che il titolo italiano di una sua raccolta famosa
di racconti è fuorviante: Finzioni. E’ la traduzione
corretta del titolo spagnolo, ma la parola spagnola ficción
ha un campo semantico più esteso di quella
della parola italiana finzione.
Significa soprattutto invenzione, e invenzione narrativa, solo in
subordine finzione. Lo traduce meglio la parola inglese fiction.
Quattrucci sembra assimilare il significato spagnolo, eludere quello
italiano, se non per il fatto che comunque l’invenzione è a sua
volta una finzione. E qui soccorre Pirandello. Ricordate come si
chiude Sei personaggi in cerca d’autore?
Verità? Finzione! No! Verità, Verità! Che finzione! Credo che una
delle cifre che individuino la scrittura di Quattrucci sia proprio la
densità di riferimenti culturali e letterari impliciti nella sua
prosa, ma quasi mai dichiarati. E veniamo al racconto in cui
Quattrucci sembra scoperchiare le sue carte. Nico,
“cioè Nicola”, è un madonnaro, un pittore di strada. Ma a un
certo punto si convince di non essere l’artista effimero di pitture
che scompaiono con una spazzatura o che a tutti sembrano copie di
immagini più elevate, pur essendo invece invenzioni originali. E
così comincia a dipingere vere tele, e trova il modo di venderle, di
camparci. Un mercante d’arte scopre la sua bravura e gli chiede di
dipingergli copie di quadri moderni di pittori illustri. Nico scopre
che il mercante lo frega. Gliele paga poche migliaia di euro quei
falsi, ma li vende a fior di milioni. Lo scopre per caso, alla
televisione, vedendo un compratore che si vanta dell’acquisto, lo
crede un originale e non sa che
invece è una copia. Nico allora monta su una tragica sceneggiata.
Ricopia il quadro di cui si è vantato alla televisione il
compratore. E ci scrive sopra: questo l’ho fatto io. E si spara.
Proprio nell’indagare i modi di quel suicidio, Marè scopre come
sono andate le cose. Il messaggio è terribile: la vera arte non è
riconosciuta più da nessuno, ci si deve eliminare, si deve inscenare
un delitto, perché finalmente gli occhi ipnotizzati del compratore,
e del lettore, di
oggi, distingua il vero dal falso, la verità dalla finzione. O
piuttosto: la finzione vulgata, quella
della pubblicità, del commercio,
dell’inebetimento sociale di oggi, del
declino delle competenze, della
truffa dei nomi bombardati dal consumo, e
dalla macchina pubblicitaria, tutto questo, questa finzione ch’è
falsa, che non inventa, distinguerla, invece, dalla
finzione che inventa un mondo, dall’immaginazione che inventa
l’arte. E non è un caso che un
messaggio così dolente sulla barbarie dell’incultura dominante sia
espresso da un narratore di genere, dallo scrittore di racconti
polizieschi. Perché
il genere, cacciato dalla porta dell’estetica crociana, rientra, e
di prepotenza, nell’immaginario della scrittura, dalla finestra
dello sguardo sulla realtà. Il selfie, l’ombelico avidamente
contemplato di tanti scribacchini di oggi, è qui sostituito dall’io
consapevole di uno scrittore che sa benissimo come in ogni rigo della
sua scrittura si materializzi l’orrore dell’oggi, anzi
l’interminata fuga con cui l’oggi pensa di eludere sé stesso, e
non sa invece, che alla fine di quella fuga non potrà incontrare che
il proprio irrilevante non senso, la propria effimera insignificanza.
Lo scrittore, chi è veramente scrittore,
gli mette perciò
lo specchio della propria scrittura
davanti alla faccia: guardati, è questo che non vuoi vedere. Ma solo
guardando ciò che non vuoi vedere, riuscirai, forse, a vedere te
stesso.
Fiano Romano, 4 settembre 2017
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