lunedì 4 settembre 2017

Mario Quattrucci, due libri

Mario Quattrucci, Ogni giorno è quel giorno, Torino, Robin Edizioni, 2015, pagg. 184
Un delitto del ‘43 e altri racconti, Torino, Robin Edizionim 2016, pagg. 288

me lo portavo dentro il fare e l’essere
tutto ciò che fummo
ma adesso m’accorgo che ho perduto
anche ciò che non è e non ci attende:
ciò che avremmo dovuto e che non siamo

(Ogni giorno, pag. 33)

Più che una poesia, potrebbe anche essere un’epigrafe, un manifesto, un esergo. O un bellissimo epigramma alessandrino, se non addirittura bizantino, che so, Paolo Silenziario. Ma il termine greco, italianizzato, esergo, affascina di più: ἐξ ἔργον, fuori opera. E’ fuori della pagina, infatti, spesso, il suo senso. O, come vuole una poetica indiana del settimo secolo, lo dhvanya, ciò che nel testo non è detto, ma è l’assunto fondamentale. Vengono a mente i versi di Montale:

codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Era appena cominciato il ventennio fascista. Oggi, quel ventennio è, sembra alle spalle. Altri ventenni sono venuti. E altri ne sono minacciati. Perciò in Quattrucci quell’impotenza si fa doloroso rimpianto. Come dagli torto?

E tutto è: come non sia mai stato
e invece fu
e non è stato invano

Queste righe non sono una recensione, ma una riflessione in divenire, tutta ancora per frammenti, principiante, su un poeta e un narratore di cui si dovrebbe conoscere di più, saperlo nelle vetrine di tutte le librerie d’Italia. Ma questa è, appunto, oggi, la situazione italiana, anche, o soprattutto, della letteratura: diffuso e dibattuto il banale, il superfluo, l’inutile, la bazzecola di propaganda, il calembour pubblicitario, il cincischiamento del selfie. Mai l’occhio che fissa un oggetto, una realtà. Il verso che canti l’oggi (ma lo canti, perdinci! e non sia prosa sminuzzata). Il racconto che denudi la maschera sociale e faccia gridare che il re è nudo. Ecco, Quattrucci fa questo. Per cominciare, lo fa con la lingua. Un italiano scarno, scolpito nel lessico colto e parlato, dal poeta; e dal narratore, un intruglio o, piuttosto, un filtro alchemico, di prosa letteraria e di parlato romano, laziale, umbro, ma che non scade mai nel vezzeggiamento del particolare pittoresco, nel compiacimento del caratteristico, del dialettale. Ma il parlato narrativo non distingue tra lingua letteraria e lingua parlata, le mescola, e fa una lingua letteraria di questo mescolamento. Alle spalle c’è una lunga tradizione. Il primo nome che viene alla mente è certo Gadda, tra l’altro citato attraverso alcuni suoi neologismi, qualcuno famoso, già diventato tradizione. Ma si può andare indietro a Verga, al suo italiano intriso di sintassi siciliana. O perfino a Fogazzaro, scrittore oggi ingiustamente trascurato. E poi ci sono i triestini, Svevo, Slataper. Ma non si tratta di imitazione, quanto piuttosto di rinsaldare una tradizione parallela, antiretorica, della narrativa italiana, si potrebbe perfino fare il nome di Fenoglio. Ma c’è, naturalmente, anche il grande Belli. Soprattutto come inventore di vocaboli che nascono dalla storpiatura di vocaboli colti malcompresi dal parlante. Ma poi c’è anche l’altro livello, quello colto, anzi coltissimo, di cui si compiace l’ispettore Marè. Sarebbe difficile districare la matassa. La raccolta di questi racconti è, più che mirabile (anche!), una continua scoperta di nuovi piani psicologici del personaggio narrato, di nuove derive e invenzioni linguistiche. Ma c’è un racconto che, più di ogni altro, resta impresso nella memoria del lettore. E’ Nico er madonnaro. Il suo senso profondo si chiarisce con la lettura del racconto seguente: Hanno ammazzato Montalbano. Qui i personaggi dei racconti polizieschi si fanno persone, agiscono nella vita reale, si mescolano a persone reali. Viene in mente un film, bellissimo, di anni fa, in cui personaggi dell’animazione si mescolano a personaggi interpretati da attori in carne ed ossa: Chi ha incastrato Roger Rabbit? Reale e fantastico si mescolano, anzi si mescolano i generi, animazione e poliziesco. Quattrucci mescola i piani dell’invenzione narrativa di Camilleri e la propria. Anzi, tratta il personaggio di Camilleri non come un personaggio, ma come una persona reale. Entra ed esce dalla pagina, entra ed esce dal racconto, mescola invenzione e realtà, quest’ultima alla fine più irreale della finzione. Il grande nome è taciuto, ma subito evocato: Borges. Tra l’altro, non so quanti sappiano che il titolo italiano di una sua raccolta famosa di racconti è fuorviante: Finzioni. E’ la traduzione corretta del titolo spagnolo, ma la parola spagnola ficción ha un campo semantico più esteso di quella della parola italiana finzione. Significa soprattutto invenzione, e invenzione narrativa, solo in subordine finzione. Lo traduce meglio la parola inglese fiction. Quattrucci sembra assimilare il significato spagnolo, eludere quello italiano, se non per il fatto che comunque l’invenzione è a sua volta una finzione. E qui soccorre Pirandello. Ricordate come si chiude Sei personaggi in cerca d’autore? Verità? Finzione! No! Verità, Verità! Che finzione! Credo che una delle cifre che individuino la scrittura di Quattrucci sia proprio la densità di riferimenti culturali e letterari impliciti nella sua prosa, ma quasi mai dichiarati. E veniamo al racconto in cui Quattrucci sembra scoperchiare le sue carte. Nico, “cioè Nicola”, è un madonnaro, un pittore di strada. Ma a un certo punto si convince di non essere l’artista effimero di pitture che scompaiono con una spazzatura o che a tutti sembrano copie di immagini più elevate, pur essendo invece invenzioni originali. E così comincia a dipingere vere tele, e trova il modo di venderle, di camparci. Un mercante d’arte scopre la sua bravura e gli chiede di dipingergli copie di quadri moderni di pittori illustri. Nico scopre che il mercante lo frega. Gliele paga poche migliaia di euro quei falsi, ma li vende a fior di milioni. Lo scopre per caso, alla televisione, vedendo un compratore che si vanta dell’acquisto, lo crede un originale e non sa che invece è una copia. Nico allora monta su una tragica sceneggiata. Ricopia il quadro di cui si è vantato alla televisione il compratore. E ci scrive sopra: questo l’ho fatto io. E si spara. Proprio nell’indagare i modi di quel suicidio, Marè scopre come sono andate le cose. Il messaggio è terribile: la vera arte non è riconosciuta più da nessuno, ci si deve eliminare, si deve inscenare un delitto, perché finalmente gli occhi ipnotizzati del compratore, e del lettore, di oggi, distingua il vero dal falso, la verità dalla finzione. O piuttosto: la finzione vulgata, quella della pubblicità, del commercio, dell’inebetimento sociale di oggi, del declino delle competenze, della truffa dei nomi bombardati dal consumo, e dalla macchina pubblicitaria, tutto questo, questa finzione ch’è falsa, che non inventa, distinguerla, invece, dalla finzione che inventa un mondo, dall’immaginazione che inventa l’arte. E non è un caso che un messaggio così dolente sulla barbarie dell’incultura dominante sia espresso da un narratore di genere, dallo scrittore di racconti polizieschi. Perché il genere, cacciato dalla porta dell’estetica crociana, rientra, e di prepotenza, nell’immaginario della scrittura, dalla finestra dello sguardo sulla realtà. Il selfie, l’ombelico avidamente contemplato di tanti scribacchini di oggi, è qui sostituito dall’io consapevole di uno scrittore che sa benissimo come in ogni rigo della sua scrittura si materializzi l’orrore dell’oggi, anzi l’interminata fuga con cui l’oggi pensa di eludere sé stesso, e non sa invece, che alla fine di quella fuga non potrà incontrare che il proprio irrilevante non senso, la propria effimera insignificanza. Lo scrittore, chi è veramente scrittore, gli mette perciò lo specchio della propria scrittura davanti alla faccia: guardati, è questo che non vuoi vedere. Ma solo guardando ciò che non vuoi vedere, riuscirai, forse, a vedere te stesso.

Fiano Romano, 4 settembre 2017

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