SCHUMANN
Kreisleriana, Davidsbündlertänze.
Kinderszenen
Maurizio Baglini
Decca 481 6873
1 cd
Lo psichiatra tedesco Uwe Henrik
Peters (ironia vuole che sia anche il nome di una casa editrice
musicale) ha dedicato un intenso libro ai “tredici giorni prima del
manicomio” in cui fu rinchiuso Robert Schumann1.
Al quale ha fatto
seguito un secondo libro,
che però non è stato tradotto in italiano2:
Rinchiuso in manicomio: Robert Schumann. Peters
dimostra, rileggendo i documenti rimastici, che Schumann non era
pazzo. Ebbe un attacco di delirium tremens, perché era un alcolista.
Ma poi diventò pazzo in manicomio. Le cure, a metà Ottocento, erano
terribili. La psichiatria crudele. Del resto se si pensa che fino a
non troppi anni fa si praticava l’elettroshock, e qualcuno vorrebbe
pure reintrodurlo, la cosa non può meravigliarci. A bagni ghiacciati
seguivano immediati bagni bollenti. Schumann morì di dissenteria e
di polmonite. Il manicomio si trovava in un borgo chiamato Endenich:
nomina sunto consequentia rerum! Potremmo tradurlo con “terminale”.
Un segno, un fato – oppure solo una coincidenza.
Ma è vero che la personalità di Schumann era comunque
contraddittoria, multiforme, complessa. Oggi lo si definirebbe un
temperamento schizoide. La medicina antica e poi rinascimentale parla
di umori (quattro, come gli elementi: secco, umido, caldo, freddo), e
la loro mescolanza, un giusto equilibrio tra di essi forma il
carattere regolato. Se prevale invece la cosiddetta bile nera
(μελαίνη χόλη), e cioè l’umore
nero, la melanconia, presto pronunciata anche malinconia,
il carattere si dimostra allora instabile, eccitabile, e spesso
capace di sdoppiarsi in più temperamenti, o se cadere totalmente in
uno solo dei quattro umori, sfocia nella pazzia. Ma se la mente
riesce a controllare questa fluidità, questa disponibilità della
mente ad assumerli tutti, allora abbiamo il genio, l’individuo
eccezionale che può sperimentare in sé stesso tutti i caratteri
umani. Aristotele, proprio perciò, definisce la melanconia il
temperamento tipico di artisti e filosofi3.
E Platone chiama pazzia la poesia.
La neurobiologia moderna sembra confermare quest’intuizione di
Aristotele. Schumann è un modello perfetto di malinconia, nel senso
della medicina antica e rinascimentale. Ma anche di temperamento
schizoide, in senso moderno. I salti di umore nella sua musica sono
frequenti, spesso rappresentati da contrasti agogici estremi.
Ossessiva, però, anche si mostra una mania calcolatrice,
ordinatrice, da matematico o da solutore di enigmi. Non a caso
Schumann era, oltre che musicista, anche un abile giocatore di
scacchi (come il poeta e drammaturgo Schiller) e la sua musica, per
dirla con Baudelaire, è una foresta di simboli, di messaggi cifrati.
Ciò è bene illustrato dai libri di Eric Sams4
.
Schumann svolse attività anche di critico musicale, scoprì subito
il genio di Chopin e di Brahms e fu il primo a collocare Schubert tra
i più grandi compositori del primo Ottocento, allo stesso livello di
Beethoven. Come critico Schumann usa diversi eteronimi (come fanno
anche il filosofo Kirkegaard, suo contemporaneo e, nel Novecento, lo
scrittore Pessoa): i personaggi che firmano gli articoli si chiamano
Eusebio, Florestano, Maestro Raro. Rappresentano ciascuno nell’ordine
il lato fantastico, appassionato, razionalistico del musicista e del
critico. Il Carnaval (l’accento va sull’ultima a) è
una sfilata di maschere, tra le quali si riconoscono anche i ritratti
di musicisti, Chopin, Paganini, di maschere vere e proprie,
Colombina, Pierrot, e di donne amate, presentate sotto facili
eteronimi, Chiarina, Estrella. O, più segreta, s’intravede, può
darsi, anche l’ombra del compositore compagno di stanza a Lipsia, e
morto giovanissimo, a 23 anni, di tisi, Ludwig Schunke. Il luogo in
cui s’immagina la sfilata si chiama Asch, cenere. Fantasmagorie
della morte, del nulla. Le lettere del villaggio Schumann le chiama
“lettere danzanti”, A S C H la bemolle do si, ma che si può
leggere anche A ES C H (in tedesco la S si dice Es), la mi bemolle do
si e il suo retrogrado S C H A mi bemolle do si la , le scrive in
partitura, tra Replique e Papillons, come note: quattro
brevi, le chiama Sphinxes, 1. mi bemolle do si la 2. la
bemolle do si 3. la mi bemolle do si, ma non vanno suonate, le legge
solo il pianista, e poi come lettere, Lettres dansantes,
appunto, A.S.C.H.-S.C.H.A. dopo Papillons,
fanno da titolo a un valzer indicato Presto. Come una musica
inudibile da cui si generano le danze della suite. L’enigma qui si
fa manifesto. Altrove, come nelle musiche del cd, sta nascosto.
Una maestria sovrana della variazione permette, comunque, a Schumann
di tenere sempre il capo del filo da cui si dipanano tutte le pagine
della partitura. Ma in questo cd, il terzo della serie che Maurizio
Baglini dedica all’interpretazione integrale delle opere
pianistiche di Schumann, sono comprese, nell’ordine di esecuzione
(ma non nell’ordine della copertina, e non si capisce perché mai
l’ordine non sia lo stesso sulla copertina e su cd): Kinderszenen
(scene infantili), Davidsbündlertänze
(danze dei federati
di David) e infine i
sublimi Kreisleriana
(i pezzi di Kreisler5,
da Hoffmann).
Ogni registrazione di
quest’integrale schumanniana è una sorpresa, un balzo al cuore,
una folgore che ferisce la mente. Intanto, felicissima l’idea di
non registrare l’esecuzione in una sala d’incisione, ma dal vivo
di un concerto. In questo caso, una chiesa dell’anno Mille ai
piedi dei Pirenei, Santa Maria nel villaggio occitanico di Madiran,
469 abitanti. Fin dalle prime volte che ho sentito suonare Maurizio
Baglini, mi colpì la sua profonda sintonia, quasi
un’immedesimazione, con la musica di Schumann.
Schumann è forse il compositore
più difficile del romanticismo tedesco. Sia per interpretarlo,
suonarlo che per ascoltarlo. In qualche modo è anche il primo
compositore intellettuale, nel senso moderno del termine. Se non
addirittura un nostro contemporaneo. La sua musica è tremendamente
problematica, complessa, intrisa di dubbi formali, aggredisce
l’ascoltatore con sperimentalismi visionari, ma è anche tenuta
insieme da una tenace volontà di coerenza costruttiva, addirittura
da un’ossessione dell’unità formale, da uno sforzo di sintesi
dei linguaggi più diversi, vi si sente la nostalgia di musiche
inimitabili, popolari, antiche (nostalgia che Schumann comunica a
Brahms quasi per via diretta), c’è quasi uno spasimo di riduzione
al minimo della cellula di partenza, che a volte consiste solo in un
intervallo o un ritmo. Ma soprattutto, anche al semplice ascolto,
colpisce un’onestà del porsi davanti all’atto del comporre che
non ha uguali: la difficoltà, l’ostacolo, il muro non sono
aggirati, ma affrontati di petto, saltati, scavalcati, con una sorta
di salto mortale, una sfida all’irrealizzabile, c’è il rischio
di fallire, ma perfino il fallimento, che qualche volta disturba, e
genera angoscia (non nelle pagine del cd) risulta per via misteriose
una diversa conquista formale; l’incompiutezza, l’abbozzo, si
fanno progetto di una musica che, invece di dire, suggerisce, allude,
oppure provoca, pone enigmi. In tal senso le Davidbündlertänze
sono un capolavoro che fa venire le vertigini: si potrebbe pensare
perfino già alle Notations di Boulez. E non sto delirando. Lo
stile, certo, il mondo sonoro, è un altro, ma il pensiero che lo
sperimenta, lo costruisce, è lo stesso.
Ma fa venire le vertigini anche
l’interpretazione di Maurizio Baglini. Le Scene infantili e
i Kreisleriana non sono da meno. Un’infanzia che per la
prima volta è guardata nella sua inafferrabile segretezza,
lontananza. Schunmann non scrive musica per bambini, ma di bambini,
sui bambini. Come poi fa nell’Album per la gioventù, e lì
sarà l’adolescente, l’imperscrutabile, malata, tenerezza
dell’adolescente. Soprattutto malata, indifesa, pronta ad essere
ferita. Ma torniamo alle pagine di questo cd. Sono tre quadri che
sondano l’insondabile, sembrano cogliere la musica sul punto in cui
il suono prende consistenza materiale. Baglini penetra questo mondo
con intelligenza acutissima, con sensibilità capillare. I salti di
umore, gl’improvvisi e inattesi mutamenti di agogica sono mostrati
per quel che sono: un affondare impietoso nei lati più oscuri di sé
stesso, al punto da poter sembrare pazzia. Ma non è pazzia. E
Baglini vi si tuffa dentro, a capofitto, a rischio di rompersi l’osso
del collo. E’ irruente, violento, scatenato, dici: ora perde il
controllo. Invece ogni nota, ogni pausa è calcolata, vibrata con un
senso preciso. Gli strumenti con cui Baglini mette in risalto questa
perpetua mutevolezza espressiva sono il tocco e il fraseggio, usati
non per la ricerca di bellurie timbriche ma per far risaltare la
complessa costruzione contrappuntistica da una parte, e dall’altra
l’imprevedibilità armonica, il toccante, lancinante, ininterrotto
canto che sembra spingersi fino a un punto di perdita, dal quale si
ripiega su sé stesso e svanisce.
E quando il canto affiora – ma
talora esplode -, quando dalle nebbie di mondi sommersi si alza il
ricordo di melodie che non sospettavamo, ma che appena udite ci
sembrano familiari, la realtà sembra aprirsi un varco verso
dimensioni aliene, verso mondi ignoti, a guardare il terribile che
impietra. Si è invece colti da una tenerezza infinita, si trema per
una dolcezza che non sembra di questo mondo. Schumann ha scontato
sulla propria pelle, nel proprio corpo, nel proprio cervello,
l’arditezza di guardarla, di raccontarla, di farcene partecipi.
Forse una volta, guardandola, è rimasto là, non è più tornato
indietro. Ma con che coraggio Baglini si spinge fino a quella soglia,
a guardare anche lui l’insondato, l’indicibile, e a farcelo
sentire – dirlo non è possibile – con il tocco delle sue dita.
E’ uno strano ascolto quello a cui ci sottopone Baglini, quando
finisce di suonare e arrivano gli applausi non si è più gli stessi
di quando si è cominciato ad ascoltare. Aristotele dice che così
succede allo spettatore che assiste alla rappresentazione di una
tragedia. Baglini ci conduce per mano: a questo Schumann che può
parlare solo a iniziati, ad ascoltatori disposti a rischiare, come la
sua musica, di perdersi, di perdere sé stessi e ritrovarsi cambiati,
con una conoscenza che prima non si aveva di sé stessi, con la
certezza che perfino la nostra fugacità, il nostro destino di
creature di un giorno – questo vuol dire “effimeri” - può
toccare il sublime, essere sublime. Perché la fugacità della vita
si perpetua nel canto, si trasforma in canto, e il canto la
trasferisce nella sfera degli universali, come Aristotele dice della
tragedia, se la vita finisce, il canto che canta la sua fine, no. Si
attribuisce a Wagner l’invenzione di una melodia ininterrotta, che
viene detta appunto “infinita”: no, è già qui tutta, nella
musica di Schumann, pronta a trasmigrare, presto, in Brahms e, più
tardi, in Mahler, in Berg. Oltre ancora, in Ligeti, Boulez, Kurtág.
E dopo … siamo ancora qui, e aspettiamo. In tanto, il quarto cd di
questo meraviglioso progetto.
Fiano Romano, 8 febbraio 2018
1Uwe
H. Peters, Roberto Schumann e i tredici giorni prima del
manicomio, Milano, Spirali,
2007. Traduzione di Francesco Saba Sardi. Titolo
originale: 13 Tage bis Endenich.
2Gefangen
in Irrenhaus: Robert Schumann, Ana Publishers, 2010.
3Problema
XXX.
5In
Italia è invalso l’uso di chiamare quest’opera “la”
Kreisleriana. Ma è un neutro plurale latino e dunque si deve dire
“i” Kreisleriana, i pezzi, le musiche di Kreisler. Personaggio
inventato da Hoffmann, che insieme a Jean Paul, è lo scrittore
preferito di Schumann. Cfr. Antonio Rostagno, Kreisleriana di
Robert Schumann, L’Epos, 2007.
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