sabato 31 ottobre 2020

Le due sonate per violocello e pianoforte di Brahms interpretate da Antonio Pappano e Luigi Piovano


 

 

Brahms | Martucci

Two Sonatas and Two Romances for cello and piano

Luigi Piovano, cello

Antonio Pappano, piano


ARCANA A479

1 cd


Forse Martucci poteva essere lasciato nel cassetto. Forse. Ma, d’altra parte, perché trascurare un tassello della storia musicale italia? Martucci mostra assai bene la distanza che alla fine dell’Ottocento si è venuta a scavare tra la musica tedesca e quella italiana. Distanza che comunque proprio Martucci si preoccupa di diminuire. E, in ogni caso non si tratta di distanza di qualità musicale, ma d’impostazione dei generi musicali e della loro predominanza in una cultura. Il romanzo, per esempio, in ambito letterario, non ha in Italia l’importanza che ha in Francia, in Inghilterra, in Spagna e in Germania. L’acquisterà proprio negli ultimi decenni dell’Ottocento. Per quanto riguarda la musica, l’ultimo Verdi e il primo Puccini sono perfettamente inseriti nel clima musicale europeo del tempo, e ciascuno fin dall’inizio. Ma si tratta di teatro. L’orchestra di entrambi, così pure come la vocalità, si confronta consapevolmente con l’orchestra e la vocalità del tempo. Dalla fine del Settecento, invece, si esaurisce nella società italiana l’interesse per la musica da camera: Boccherini è forse l’ultimo compositore italiano di musica esclusivamente strumentale che acquisti una fama e un’autorità europee. Paganini è un caso a sé, e riguarda più il mostro di virtuosismo che il compositore (in realtà Liszt e Schumann non la penavano così, tanto da prenderlo a modello, almeno agli inizi). Non, comunque, che in Italia non si eseguisse musica da camera nei concerti, nei salotti, e a casa, e non si pubblicasse. Ma non era l’interesse principale degli italiani, tutti presi invece dal melodramma. I compositori, pertanto, se volevano vedersi pubblicati ed eseguiti dovevano scrivere per il teatro. Per il consumo da camera si ricorreva perciò, per lo più, alla produzione straniera, tedesca, soprattutto, e in misura minore francese. Martucci, come il suo contemporaneo Sgambati, nella seconda metà dell’Ottocento, segna una svolta. Fu, tra l’altro, il primo che fece rappresentare anche in Italia il Tristano di Wagner, nel 1888, a Bologna, dovere anche era stata data la prima rappresentazione di un’opera di Wagner, il Lohengrin, nel 1871. Allievo a Napoli di Beniamino Cesi, a cui dobbiamo la prima edizione italiana, commentata, del Clavicembalo ben temperato di Bach, Martucci è profondamente attratto dalla musica tedesca. E i suoi modelli sono, appunto, Schumann, Brahms, Wagner. Dunque l’accostamento, in questi cd dedicato alle sonate per violoncello e pianoforte di Bach, ha un senso, soprattutto per l’ascoltatore italiano. Che cos’è che distingue, subito, la scrittura dell’italiano da quella del tedesco? Ciò che tradizionalmente distingue la tradizione italiana dalle tradizioni europee: la prevalenza della melodia sull’elaborazione armonica e contrappuntistica. Si badi: non è un giudizio di valore. La melodia belliniana, per esempio, così nuda, sostenuta da armonie molto semplici e poco elaborate) la melodia belliniana, ripeto, è inimitabile, per la sua straordinaria imprevedibilità. Anzi, proprio la sua nudità, la povertà dei sostegni armonici la rende così particolare. Questo la distingue, per esempio, dalla melodia di Chopin, al quale è spesso confrontato, ma a torto, perché la complessità armonica e contrappuntistica della melodia chopiniana è del tutto estranea a Bellini. Invece, proprio per questa sua nuda preponderante solitudine, come sospesa sul vuoto, la melodia belliniana aveva non a caso colpito Wagner, che voleva rifondare un’armonia basata sulla melodia. La melodia di Bellini è costruita con sovrana opera di dosaggio delle simmetrie, anzi in genere preferisce lo sbilanciamento verso l’asimmetria, che è proprio ciò che la rende imprevedibile, è dunque una melodia che non nasce d’istinto, ma è costruita con controllatissima consapevolezza. Martucci dà rilievo alla cantabilità degli strumenti, come Bellini alla voce. Ma Brahms non vi s’infiltra per caso come suggeritore nascosto. L’armonia si complica, il ritmo è meno fluido. Pappano e Piovano vi si abbandonano, allora, con un piacere sottile che sanno comunicare all’ascoltatore. Una sorta di cantabilità italiana immersa in un clima armonico tedesco.

Veniamo però, adesso, alle due sonate brahmsiane. La prima, op. 38, è composta in un periodo cupo della vita di Brahms. La morte dell’amico Schumann, nel 1856, gli ispirano i primi abbozzi, e la morte della madre nove anni dopo, gli suggerisce di portare a termine il lavoro, Brahms è stravolto dalla scomparsa di chi ama, ma da tedesco del nord, ne racchiude in sé stesso il turbamento, la disperazione, deve trovare un filtro al sentimento, come farà sempre, la confessione non è il suo registro. Ma sì la meditazione, la rielaborazione emotiva e concettuale dell’esperienza. La sua musica allora, in questi anni, si fa profonda meditazione musicale sulla morte, che nel Requiem Tedesco è esplicita: il primo verso intonato dal coro, tratto da un salmo, recita: “Beati sono i morti”. Nulla di funebre, però, né nel Requiem op. 45, né nella Sonata op. 38, né nel Trio op. 40 o nei due Quartetti op. 51 o nei Lieder di quegli anni. Sì, però, un clima introspettivo, quasi artificioso, tendente all’elaborazione astratta delle cellule musicali, come nell’ultimo Beethoven, ma con molta minore espansione, molta minore effusività melodica: il canto c’è, e bellissimo, accarezzante, ma come incerto, trattenuto, rarefatto, e la scrittura diventa una riflessione sul fare musica, sembra costituire insieme un punto d’interrogazione e una voglia di rinnovamento, una sintesi della tradizione e una rielaborazione non degli stili, bensì del pensiero musicale, del modo di scrivere musica. E’ come se la cupezza, la tristezza, forse la disperazione personale, fossero distanziate, superate attraverso una capillare esercitazione dell’atto di comporre: armonia, melodia, ritmo sono ripensati, riconsiderati attraverso un lavoro minimale del contrappunto. Il che non gli impedisce di abbandonarsi talora a scatti d’improvvisa, lancinante effusione cantabile. Ma a dominare è il controllo della scrittura, il riserbo dell’effusione. La mente va, naturalmente, a Bach. Ma anche all’ultimo Beethoven, all’ultimo Schumann, del quale, tra l’altro, ha usato il tema cosiddetto degli Spiriti – un tema che Schumann dice suggeritogli in sogno dal fantasmo di Schubert – per una breve, intensissima serie di variazioni. Brahms è attratto enormemente dal canto popolare, dal canto a gola spiegata. Ma vi si abbandona raramente, e mai completamente. Quando però esplode, il canto risulta di una intensità inimitabile. Questo lavoro di controllo non frena l’intensità dell’espressione, ma anzi la rende se possibile più esplosiva, proprio perchP trattenuta. Come ottiene Brahms tutto questo? Attraverso un lavoro assai sottile di analisi della caratteristiche ddi una melodia, che tenta di ridurla ai suoi elementi fondamentali, alla cellula ritmica e melodica che la genera. Su quesro elemento che diremmo originario, subtematico, Brahms elabora tutto il tessuto tematico di un tempo, spesso dell’intero componimento. La lezione gli viene naturalmente da Beethoven, da tutto Beethoven, soprattutto però dall’ultimo. Ma, come si è detto, anche da Schumann, e, soprattutto per quanto riguarda l’effusività cantabile, da Schubert. Ma a prevalere è sempre la consapevolezza dell’elaborazione, il controllo pudico dell’espressione. Brahms non conosce mai un momento di vero abbandono, di cedimento al piacere di divagare, piacere che per esempio pervade tutta l’opera di Schubert. Vediamo, però, nel concreto come ciò si possa cogliere nell’elaborazione della Sonata op. 38. Intanto colpisce il fatto che nella sonata manca un tempo lento. Brahms non è il primo, ci sono già in Beethoven sonate prive del tempo lento. E prima, in Haydn – amatissimo da Brahms – e in Mozart. Il tempo lento, un adagio, immaginato al principio come secondo tempo della sonata, è espunto e riutilizzato anni dopo per l’altra sonata dedicata al violoncello e al pianoforte, l’op. 99. Pertanto l’op. 38 è in tre tempi e manca di un tempo lento. Il tempo centrale è un Allegretto, quasi minuetto. La cellula tematica è tolta da una frase del violoncello nella terza battuta del primo tempo. Il trio del minuetto usa la stessa cellula, ma sviluppata in un continuum che non conosce sosta. Il minuetto ha in Brahms lo stesso senso che ha la memoria del tempo perduto nei minuetti di Beethoven. E’ la contemplazione di un’armonia perduta. Ma è proprio in questa contemplazione che la sonata tocca il suo centro, il suo nodo espressivo. La premonizione inquieta del primo tempo, così frammentaria, tortuosa, contraddittoria, si distende in questa distaccata contemplazione del dolore, come se a guarirne fosse necessario un distanziamento, o per così dire un raggelamento. Che la dolcezza accattivante del canto – perfino nell’attacco della sonata - non riesce però del tutto a nascondere: il dolore è ammorbidito, ma non soffocato. Brahms elude, ma non cancella mai, un conflitto, una sconfitta. E si noti che la sonata comincia con tema cantabile. Bisognerà decidersi di buttare alle ortiche i manuali di storia della musica e di composizione che ancora insistono sui temi contrastanti di una sonata, il primo ritmico, energico, il secondo melodico, cantabile. Molte sonate di Mozart, Haydn, Beethoven cominciano con tema dolcemente cantabile, e perfino le sinfonie – per esempio la Pastorale di Beethoven. Il finale dell’op. 38 è un tour de force: la cellula subtematica è variata e adattata a un vorticoso soggetto di fuga. Che non ci sarà. Tutto il tempo è un concitato dividersi e ricostruirsi della cellula, una corsa verso la tempestosa conclusione. L’op. 99 offrì il destro a Schoenberg per mostrare in Brahms quanto fosse stato dominante e fecondo il principio beethoveniano della continua variazione: il tema non è dato subito una volta per tutte, ma si forma via via, via via mostra nuovi aspetti di sé stesso. Qui la cellula generatrice è ancora più scarna che nell’op. 38. Un giambo. Una croma seguita da una minima (due semiminime legate divise dalla stanghetta della battuta). Su questo ritmo è costruita l’intera sonata. Le cellule che si espandono a modulare una melodia nascono da questo impulso, che percorre tutti e quattro i tempi. Incredibile la varietà di atteggiamenti espressivi che Brahms sa trarre da così poco, compreso l’amabile, accattivante finale, un’oasi di benessere dopo tre tempestosi movimenti. E anche qui l’esempio di Beethoven non è dimenticato.

Antonio Pappano è conosciuto dal pubblico più come versatile direttore d’orchestra che come pianista. E’ invece un formidabile interprete di musica da camera. Anzi, può darsi che la sua sapienza orchestrale nasca proprio da una usuale, familiare consuetudine di musica da camera. La sintonia dei due interpreti appare, anche al solo ascolto (ma seguirli sulla partitura rivela tutte le finezze di lettura) straordinaria. Il che significa che i due strumenti sono davvero complementari. Anche in Martucci, dove indubbiamente la cantabilità del violoncello prevale, il ruolo del pianoforte non è confinato a sostegno armonico, ma avvolge la melodia con mutanti atmosfere armoniche che ne qualificano l’espressione, il senso, anche melodico. In Brahms tutto ciò diventa rappresentazione di un mondo musicale di stupefacente complessità. Perché, forse, il lato più interessante di quest’interpretazione brahmsiana che Pappano e Piovano ci offrono sta proprio nella molteplicità dei piani sonori che mutano di momento in momento, a restituirci la voce di uno dei compositori più intricati, complessi che ci siano, spesso indecifrabile proprio per quanto complicata è la sua scrittura, e questa, di Pappano e Piovano, è dunque una bellissima lezione d’interpretazione. Si ascoltino le figure di tremoli del pianoforte sotto la melodia del violoncello, nel trio dello scherzo dell’op. 99, pianoforte e violoncello gareggiano in delicatezza. Per tutto il percorso delle due sonate il suono del violoncello (un Alessandro Gagliano del 1710, Napoli), sotto le dita e l’arco di Piovano è mutevolissimo, corposo, morbido. Il pianoforte di Pappano gli si oppone o lo affianca, talora anche con rudezza, ma sempre nel giusto dosaggio di rapporto sonoro tra i due strumenti. Davvero una lezione di come si legge Brahms, e, più in generale, di come debba essere complesso l’avvicinamento a partiture di tale complessità, come sono le partiture di quste due sonate brahmsiane. Ci si figura, adesso, un Beethoven. Perché no?

Ma l’ascolto mi suggerisce ancora alcune riflessioni, sul formarsi di idee infondate riguardo alle forme musicali. Ho di sfuggita accennato al fatto che l’op.38 di Brahms attacca con un tema melodico. Basterebbe da sé a far rivedere la formulazione scolastica della forma sonata come viene esplicitata in storie della musica, manuali di composizione, dizionari. Invece non è una novità di Brahms. L’op. 101, ma anche l’op. 110, e altre sonate di Beethoven, attaccano con un tema melodico, per non parlare del tema cantabile con cui si apre il Trio dell’Arciduca. Anche Beethoven però, non fa niente di nuovo. Mozart attacca spesso una sua sonata, un suo concerto, una sua sinfonia, con un tema melodico. Tra le tante, le Sonate K. 332 e K. 333 per pianoforte. E lo stesso fa Haydn, per esempio nella sublime sonata per pianoforte in do minore Hob. XVI. 20, del 1771. Allora i casi sono due, o i compositori classici, e Brahms, che sviluppa l’eredità, non sanno scrivere sonate, o il modello di sonata che si propone non ha nessun fondamento reale. Altra sciocchezza che si sente dire è che Beethoven innoverebbe l’ordine dei tempi della sinfonia, nella Nona, perché colloca lo scherzo al secondo posto. Ma quando mai! La collocazione del tempo di danza all’interno della sinfonia era mobile. Ora era il secondo, ora il terzo tempo. Haydn, nella Sinfonia in mi minore, Hob. I. 44, detta “funebre”, colloca il minuetto, un allegretto, al secondo posto e l’adagio al terzo. Si potrebbe continuare. Come nascono simili fallaci idee? Semplicemente tramandandosi l’una con l’altra, senza controllare la veridicità dell’affermazione, senza verificare il dato affermato. Un altro esempio: Rossini, componendo la Semiramide per la Fenice di Venezia, nel 1823, tornerebbe a forme convenzionali di melodramma, dopo il periodo sperimentale di Napoli. Peccato che quelle forme chiamate “convenzionali” siano un’elaborazione, se non addirittura un’invenzione di Rossini. A noi paiono convenzionali proprio perché poi diventano, almeno fino a Verdi, la norma. In realtà nella Semiramide Rossini sperimenta come sviluppare tali forme all’interno di una forma più generale che le contenga tutte. L’aria si estende al punto da diventare già essa stessa una scena e si collega alle arie successive in un’architettura – soprattutto armonica – che le fa apparire tessere di un unico mosaico. Se c’è un aspetto che sorprende quando si assiste alla rappresentazione della Semiramide è l’estrema coerenza con cui è costruito il primo atto e poi il secondo e come entrambi siano concepiti come un’unica forma ch’è appunto la forma del melodramma che ha per titolo Semiramide. Nel suo bellissimo volume dedicato all’Ottocento, Karl Dahlhaus questo lo illustra e lo spiega benissimo. E anzi non a caso colloca Rossini e Beethoven all’inizio del secolo come modelli dello sviluppo successivo della musica teatrale e sinfonica. Ora, tutto ciò, questi chiarimenti, la liberazione da questi equivoci, si ottiene in un solo modo: confrontandosi di volta in volta con la pagina e dalla lettura della pagina ricavando eventuali criteri formali. L’operazione inversa di adattare la pagina a un modello precostituito non è ammessa da nessun metodo di analisi che voglia dirsi critico, ma è solo la semplificazione di una realtà complessa, il tentativo imbarazzante ed erroneo di credere più facile, per l’apprendimento e la divulgazione, uno schema, una regola semplici, invece del confronto con la molteplicità e complessità del reale panorama musicale. Ciò vale non solo per la musica, Ma in qualunque campo. Non parliamo poi in politica. La semplificazione è sempre un inganno, una falsa informazione, il mascheramento in forme banali di una realtà complessa. E poiché noi viviamo in una realtà complessa, la semplificazione disorienta, è svantaggiosa, perché non fa comprendere la realtà che dice di spiegare. C’è solo una categoria di persone che può trarne vantaggio: quella che diffondendo la semplificazione non vuole che la verità complessa sia compresa, perché la comprensione nuocerebbe ai suoi interessi, in altre parole scoprirebbe gli altarini. Che è proprio ciò che chi invece vuole ingannare teme come il pericolo maggiore. Tra l’altro, in musica, ma anche in altri campi, non è vero che la semplificazione fa capire meglio ciò che si ascolta (o si legge, si vede). Perché proprio quando se ne comprende la sua complessità, un’opera la si può godere in tutta la sua ricchezza.





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