domenica 5 dicembre 2021

Chi, o Saffo, ti fa torto?

 

DINO VILLATICO


CHI, O SAFFO, TI FA TORTO?



Placida notte, e verecondo raggio

della cadente luna; e tu che spunti

fra la tacita selva in su la rupe,

nunzio del giorno…


Giacomo Leopardi













I.


Una panca. O un letto. In una stanza nuda. Vi sta sopra, distesa, una donna. Senza cuscino, supina. Indossa una specie di lungo chitone. E’ l’alba.


LA DONNA Pensare. O ricordare. Ma potessi

chiudere gli occhi e non vedere nulla,

nemmeno dentro la mia testa. Quanto

tempo fa? Quanti giorni? Quanti mesi?

Fuggono, senza ch’io possa fermarle,

le parole. O che cosa? Ma non sono,

no, non furono mai parole, quelle

che non dico, ma vedo, e dunque scrivo.

Quando? oh, quando? Se fu solo dire.

Come ancora, guardando, penso, e dico.

Mai più! mai più! Fuggito via per sempre.

Annegare! annegare! oh sì, annegare!

Nessuna cosa è la cosa più bella,

tranne questo morire che non muore

della mia vita, un vento che squassa

tutte le ossa e frantuma una per una

le mie parole. Torno a dire? Torno

altro di me a non essere che il dire?

Tu, tu che mi ascoltasti allora, dove

sei fuggito, mio canto, mio sublime,

unico canto? E se toccare, oh! appena

una carezza, appena uno sfiorarti

leggera con le dita la peluria,

laggiù, dove tu bruci e fai bruciare,

se mi lasciassi là depositare

un breve bacio, un mio lungo sospiro

appena con la punta della lingua,

laggiù, dove l’amore nasce e affonda,

perché già vecchia mi disprezzeresti?

Ma tu ti copri. Tu ti chiudi. E scappi.

T’avrei donato tutte le parole

del canto con cui canti la tua scialba

giovinezza. Che cosa può ferirti,

sciocca, se la mia mano ti carezza?

Ho solo quindici anni, se mi vuoi.

E sono madre. Posso tutta darti,

ancora, dal mio seno, una dolcezza

che tu ignori. Perché ti parlo ancora?

Le mie parole sono baci, lunghi

baci che non t’ho dato. Ricordare!

E smarrirmi. Ma in quell’annegamento

della memoria, mi ridesto al canto,

quasi mi rassereno, mi conosco,

e mi salvo. - Tu ridi? Se ne muoio!

Si può, certo, morire di memoria,

del desiderio di dolcezza, forse

perfino di bellezza, che s’appaga

nella sola visione del ricordo.

Illanguidita voce del pensiero,

umida bocca del mio desiderio,

per te così si bagna la memoria,

così germoglia il canto tra le labbra

che vieti alle mie labbra. - Devo alzarmi.

Devo guardare. Più nulla, quando m’alzo,

di ciò che penso, è vero. Tutto, adesso,

invece, mi distrugge, mi divora. -

Vivo soltanto delle mie parole,

ma non di te. Ma non di te! perduta,

unica voce innominata. Tutte

quante le altre, ora, fuggitiva voce,

ah no! no! non mi giovano, se questa,

sola, non mi risponde, mi respinge. -

Lui, però, mi deride. Sorrideva,

al tuo fianco, e parlava, ti diceva

non so che cosa, forse t’additava

me che tremavo, che rabbrividivo

guardandolo, guardandoti, e morivo,

di soffocata tenerezza. Basta!


Si drizza. Sta seduta sulla panca.


Odio la luce, il giorno che vi coglie

ancora avvinti. Intera, tutta quanta

è passata la notte, senza sogni,

guardandovi. Sto qua, che guardo, sola,

ciò che non vedo, e non vorrei vedere.


Batte i pugni chiusi, ritmicamente, tra loro.


I miei capelli un tempo erano viola

e li cantò un poeta. Io sono pura -

oh, tu non sai, no, tu non puoi sapere,

tu sei fuggita, ti sei chiusa gli occhi,

prima, non tanto di scoprirlo, prima,

piuttosto, di lasciartelo scoprire -

che sono pura, veramente pura,

e che ogni volta tocco come fosse

la prima volta. Sciocca! Di noi due,

non io te - che follia! - ma tu me, come

un calice di vino ancora colmo,

e non toccato, me tu hai perduto.

Sì! m’hai perduta! Per tutti questi anni

che mi pesano addosso, che tu conti

in ogni filo grigio dei capelli!


Si butta bocconi sulla panca.


E non posso tornare indietro. Fosse

solo d’un giorno. Avanti, come freccia

scoccata, scorre la mia mente, vola

il respiro e s’estingue la parola.

La musica è sospesa. E il giorno passa,

passa la notte, senza sonno, senza

sogni. Ma scorre, e vedo, tutto il giorno,

tutta la notte, questo inappagato

desiderio di te che mi concede

al tuo rifiuto. - Sì, odio la luce

che ritorna. Vorrei che fosse sempre

notte. - Ma no! la notte è ancora peggio!

Che il giorno m’abbandoni, e ricominci

la notte, amico il buio in questo letto

non scende. Né sorride, quando torna,

il sole. Asciutto il ciglio, e fermo l’occhio.

Ma, dentro, una tempesta mi sconvolge

di lacrime e di sangue che va via. -


Si drizza un’altra volta. Fissa, seduta sulla panca, un punto lontano.


Adesso si alza. Chiama la sua serva.

Si fa portare nardo e cinnamomo.

Si lava, si profuma: tutta quanta

dai capelli alle gambe, dalla fronte

alle dita dei piedi e, tra le cosce,

una goccia di muschio. Si cosparge

d’olio le membra, tinge le sue guance

di croco e di papavero. Tessuti

lievi di Licia stende sopra il letto.

Il suo corpo ora freme: lo nasconde

allo sguardo infiammato la sottile

ragnatela di un abile ricamo,

lino leggero d’Egitto che brune

fanciulle ricamarono cantando

sulle sponde del Nilo nelle calde

lunghe notti d’estate quando il cielo

è tutto quanto un delirio di stelle.

Corta la notte fu per le delizie

d’amore. Nuove nascono dal giorno

che arriva le delizie della luce.

E guardarsi è già quasi penetrarsi.

Dai suoi occhi ora tu l’apprendi, e senti

cedere a quello sguardo le ginocchia.

Senti bruciare d’una sconosciuta

febbre i tuoi occhi. E tutta t’abbandoni

di nuovo a lui, ricominciando il gioco

che ti sfibra, ma non ti sazia. - Sempre

ti dura il desiderio quando credi

già finito il piacere. Ricominci

a guardarlo e ti lasci da lui tutta

guardare. Scorge un tremito incresparti

le labbra: ride, gli occhi ancora fissi

nei tuoi occhi, si piega sulle labbra,

e con un bacio il tremito t’arresta. -

Ma come t’attraversi l’occhio d’una

donna, questo l’ignori. Che languore

dentro svuoti le viscere, tra sguardo

e sguardo se giocare lasci gli occhi.

Più dolci gli occhi sono delle dita.

Più dolci della verga che tu chiedi

all’uomo che ti coglie e ti feconda

col suo seme, ma non può la tua bocca

colmare con la stessa tenerezza

della mia bocca di donna. Nessuna,

più dolce, ormai perduta ricordando,

dell’unica che incauta rifiutasti,

ma che sola dei giorni senz’attesa

fingere ti saprebbe una memoria. -

Ricordo il giorno che da me venisti:

ti svolazzava intorno per il vento

la bianca veste, e io ti pregai,

su quel vento, d’improvvisare un canto,

lasciando sulla pettide volare

le tue dita: guardandoti godevo,

intorno a te volavano gli sguardi

che muove come il vento il desiderio,

e tutte salutammo in te l’ingresso

della bellezza. Offrimmo quella sera

ad Afrodite tutte quante un dono.


Si palpa i seni. Si strofina l’inguine.


Mai! mai! mai! mai! Terribile parola.

Già. Tu non la conosci. Tu conosci,

adesso, solo la parola sempre

e la parola ancora. Per me solo

si dice mai, o, peggio, mi s’insulta

con un non più. - Perché non dirmi invece

non ancora? Volevi forse intatta

serbarti a lui, lasciargli il primo fiore

della tua giovinezza? e, di piaceri

ormai esperta, finalmente darti

a me? questo volevi? E inutilmente

mi dispero? M’illudo, se ti aspetto?












II.


La stessa scena. Mezzogiorno. Luce accecante. La donna siede sulla panca. Con le gambe incrociate e le palme delle mani sulle ginocchia. Fissa il vuoto.


LA DONNA Guardare. Anche così si aspetta. Forma,

anche questa, chi sa, d’intesa. Forma

- ma di chi? ma per chi? - forma d’incontro.

E d’inganno. Chi aspetto? e fino a quando?

Il sole, alto nel cielo, che mi guarda,

guarderebbe comunque, anche l’amplesso,

come ora guarda, qui dentro, la mia

solitudine. Scendi, te ne prego,

scendi a parlarmi, misericordiosa

voce, fammi sentire il frullo d’ali

che fino a me ti porta, dolce voce

del canto che t’invoca, fammi udire

le mie parole un’altra volta dentro

il suo cuore. Ch’io possa, dentro il cuore,

dentro il suo cuore, i battiti avvertire

della mia voce. Ch’io mi riconosca,

dentro di lei. La mano che mi coglie

mi coglierà che bacio il suo venirmi

dentro, e dentro la stringeranno forte,

inumidite, le mie labbra. Oh lascia

ch’io t’ascolti le vene, ch’io ti senta

fremere sotto la mia lingua, lascia

che con questa mia guancia dello stesso

mio fuoco ardere io senta la tua guancia.

Ma quali, adesso, snerveranno amori

le tue fibre? da quale bocca accolta

la tua bocca si lascerà donare

giovinezza? e da chi, poi, penetrata,

riversandogli umori nella stretta,

berrai da lui la vita che dà vita?

Anch’io conobbi quei piaceri. Avevo

la tua età. M’aveva già un’amica

- cara! - prima di quella notte, aperta,

perché poi non soffrissi nella nuova

per me tanto diversa congiunzione.

Piangevo. Io piangevo, e non volevo

abbandonarla. “No, mai, mai”, dicevo:

“voglio lasciarti. Morirò se passo

quella soglia”. Ma invece la passai.

E mi strinse, oltre l’uscio, un’altra mano.

Grande. Nessuna mano così grande

m’aveva preso ancora per la mano.

E la sentivo calda. Tutta quanta

bagnata di sudore. Cominciavo

a sentirmi protetta. E anch’io sudavo.

Sarei caduta, inerte, se il suo braccio

sorretta non mi avesse. Mi mancava

la forza nelle gambe. Mi sentivo

tutta dentro bagnarmi e ne provavo

vergogna. Non osavo alzare gli occhi.

Non osavo guardarlo. Ma sentivo

che mi guardava. Forse, sorrideva.

Appoggiata al suo braccio, mi condusse

nella stanza del talamo. Mi tolse

la veste, senza dire nulla. Solo

in quel punto m’accorsi che d’un tratto

avevo smesso di tremare. Allora

alzai anch’io su di lui lo sguardo.

Io avevo paura. Quasi ancora

nulla sapevo del suo corpo, e tutto

nudo me lo vedevo avanti. Eppure,

già vederlo, e noi due la prima volta

là, così soli, l’uno contro l’altra

- contro! com’ero sciocca! da lui seppi

come si possa due corpi stare

l’uno per l’altro! - sì, da lui! - sentivo

il suo respiro intorno a me volare

per la stanza, colmarla, profumarla,

addensarla di desideri, quasi

chiuderla dentro un bozzolo di venti

leggeri, delicati, e domandarmi

con quell’alito il dono atteso e dolce

d’un bacio, il dono infine di me stessa.

Avvertivo i suoi occhi scivolare

sulla mia pelle, come ora anche i miei

li sentivo bruciare al desiderio

d’abbracciargli le gambe, il ventre, il petto,

secca la lingua nella bocca, e come

prosciugate le labbra dalla sete.

Mi sentivo cadere. Inumidirsi

la mia pelle. Disciogliersi le membra.

Appannarsi la vista. Risucchiata

da me stessa. Mi venne addosso un grande

caldo, venni squassata da un furore

finora sconosciuto, era una febbre

che mi bruciava gli occhi, ma d’un tratto

invece tutta quanta fui sconvolta,

scardinata da tremiti di freddo. -

Chi sa se così dolce anche te l’uomo

che ora ti stringe ha colto il tuo donarti

a lui, come mi colse, spaventata

prima, onda poi d’estrema tenerezza,

l’uomo che quella prima volta, al colmo

del mio donarmi a lui mi rese madre.

Aveva anch’egli, come me, tremendi

gli amori, e molti,ognuno il primo, ognuno

il più grande. Perciò tra noi più bella

fu la vita, più tenera la notte,

e più tranquillo il giorno. A me veniva,

se amore nuove angosce gli portava.

A lui parlavo, se me l’alba desta

mi trovava nel letto. E noi parole,

l’uno per l’altra, si cercava, nuovi

canti, nuovi discorsi, per scacciare

l’umore nero delle nostre notti

senza compagni. Entrambi cercavamo

la luce, il sole, il ridestarsi amico

dei colori allo sguardo, il puro incanto

d’una forma, la geometria sonora

d’una voce, che agli occhi dà l’ebbrezza

della vita. Coglieva entrambi un dolce

pianto all’aprirsi, dopo lunga via,

del mare all’orizzonte. La bellezza

d’un fiore, d’una tazza, ci rapiva.

Ma solo poi la grazia luminosa

d’un corpo, la divina limpidezza

d’uno sguardo eccitava nel contatto

la febbre del divino. Conoscenza,

senza paura non si tocca. Solo

si schiudono le cose a chi le accoglie.

Amo per questo il lusso, l’eleganza,

e voglio intorno a me soltanto cose

raffinate. Uno sgarbo involontario,

una mancanza di delicatezza,

più, forse, mi feriscono che il nudo

morso della malvagità. Ci univa

una stessa paura: lo sgomento

della bruttezza. - Adesso posso dirlo:

forse nessuna donna, come lui,

mi conobbe, perché nessuna, come

lui, me, soltanto me, dopo l’amore,

cercava. Dopo! Qui sta la miseria.

Tutta piena del dono di piacere,

che un corpo di fanciulla mi donava,

cercavo poi negli occhi qualche intesa,

ma gli occhi si chiudevano spietati,

la bocca non s’apriva alle parole.

Lui mi parlava. E con che tenerezza

mi raccontava, sempre, le sue pene

d’amore. Con che pena confessavo

i miei tormenti. E’ lui la dea che viene

a confortarmi, è lui la dolce bocca

che canta la mia pena e il mio dolore.

Non bruciassi così, come anche brucio

per te, non altro amore, nella vita,

felicità più grande, bramerei,

e meno pianti, che il dolce tormento

di carezzarlo e farmi carezzare.

Ma tu, tu che ne sai? Soffrire, quando

si ama, è anche la lunga oscura notte

che ci lascia nel letto soli, senza

parole, senza mano che accarezzi.

Noi ci donammo. E tu mi sfuggi. Questo,

tutta mi fa per te rabbrividire.

Adesso, che la notte è passata,

e alto in mezzo al cielo tutto brucia

il sole, e brucia, dentro, il desiderio,

una carezza invano sospirata

misura il tempo che t’aspetto invano. -


Si sdraia sulla panca. Incrocia le mani dietro la nuca.


Venne da me, più tardi, un grande amico:

era un grande poeta, forse grande

più di tutti tra i Greci. Cara mi ebbe

tra le donne. Cantò la mia bellezza.

Ma gli piacque, di me, più di ogni cosa,

quella ch’egli chiamava mia purezza.

Si drizza. Resta seduta.


E questo, cara, è vero, è vero, proprio

come per me lo canta. Sono piene

le mie orecchie ancora di quel canto.

Non credere che vita senz’amore

sia vita, ma nemmeno che sia tutta

la vita il desiderio che chiamiamo

amore. Egli sentiva questa forza

di dire che mi muove, ma sentiva

anche, che mossa è dalla vita stessa

la mia bocca, non già perché parole

m’offra la vita, ma perché la forza

che muove tutte quante le parole

ch’io dico e canto, è quella forza stessa

della vita che muove la natura

delle cose. Per questo pura il canto

mi dice. Squame ai pesci variopinte

e dato il verde ai boschi, azzurro il cielo,

alla luna l’argento e alle stelle,

e l’oro al sole, scuro come il vino

il mare, più colori ebbero i fiori,

ebbe ogni cosa un dono: a me fu data

la parola, fu dato alla mia bocca

il canto. Ma chi diede ciò che diede?

vita ebbero da chi le cose, quella

che quaggiù vedi? Un dio, se dio lo chiama

la lingua che parliamo, se altro nome,

a ciò che non sappiamo nominare,

la mente, dentro il fuoco che la brucia,

non pensa. Ma divino è tutto, dio

anche cercare un dio. E non importa

il nome. Sono per questo mio canto

quello che sono, così come cielo

è l’azzurro, ed è luna, sono stelle

l’argento, è sole l’oro, è mare il vino.

Rubò per noi, dal cielo, sull’Olimpo,

Prométeo non solo il fuoco, estrasse

col fuoco anche la vita. Ed è per questo

che vivere c’infiamma. E quando muore

una vita si dice che si spegne.

Io canto questo fuoco, io dico questa

vita. Ti fa paura, che la fuggi? -

Si alza. Scruta l’orizzonte.


Nelle notti serene, quando tace

d’estate all’improvviso la cicala,

egli veniva e parlavamo insieme

del canto che finisce, di quest’altro

nuovo che allora ci nasceva dentro.

Il dolce sguardo e la soave mano

anche lui travagliava della stessa

inflessibile dea. Ma un altro dio,

più tremendo, più forte, più selvaggio,

lo dominava. E lo scagliava fuori

nelle lotte, lo dava tutto in pasto

ai furori dell’odio. Una crudele

febbre squassava la sua vita, come

vento d’estate sui monti le cime

degli alberi. Ma c’era il vino. Colmo

d’un’altra ebbrezza il cuore allora un altro

vento la mente gli sferzava, e altri

canti, con più gioiosa e aperta voce,

ad altro dio la bocca gli cantava. -


Si siede, in atto di accingersi a conversare.


Mio dolcissimo amico, tu, il più puro

dei miei più dolci canti.come sono

quelle notti d’estate ora lontane!

Dove vegli, esiliato? quale terra,

in quale mare, sotto quale cielo,

tutta tremando ascolta ora il tuo canto?

E’ di discordia anche quello che in terre

ora canti lontane? Ma tu credi

che altrove meno ingiusta sia la gente

di quella che lasciasti disgustato

in quest’isola, dove insieme, pazzi,

noi due sognammo un mondo dove il cuore

fosse libero, e mai venisse a colpa

poi additata la delicatezza

di questa libertà? Ma fa paura,

essere come siamo, a quella massa

che vuole dominarci per fondare

un mondo di soprusi e di appetiti.

Gente corrotta intorno a sé non ama

l’onestà, e non puoi a chi s’ingozza

chiedere di mangiare più discreto.

Nasce libero chi la propria vita

costruisce: chi libero non nasce,

la vita la sparpaglia, se ne spalma

addosso quanta più ne può, la ingoia

in una volta tutta quanta, e resta

ancora con la fame. Questi sono

gli uomini che sprezzi, ma che, come

vedi, stanno sul trono e hanno potere

di scacciarti, perché non assomiglia

a nessuno di loro la tua vita.

E tu, potevi credere di avere

la forza di cambiarli, o quanto meno

sottometterli, questi, che tu odiavi

per la loro bassezza, ma che sono

molti, e tu uno sei, anche tra i pochi

delle stesso tuo rango, da te tutti

diversi? Qui nessuno, adesso, sente

la tua mancanza: non la sente, certo,

chi t’è nemico, ma nemmeno quelli

che credi amici vogliono davvero

il tuo ritorno. Fingono amicizia,

perché il tuo nome a loro porta onore,

ma che da qui tu stia lontano, è cosa

che li rende beati. Uno di meno,

intorno al piatto, il più intelligente,

il più puro, e perciò pericoloso,

perché troppo diverso da quei pochi

che sono uguali a tutti i molti uguali. -

Ma tu resta così. Sei sempre, amico,

degli ottimi il migliore, e sei te stesso,

solo te stesso. E’ questo che fa rabbia

agli altri. Tu, però, potresti, o caro,

qui venire per me, per me soltanto.

La tua amica, sappi che non cambia.

Come potrebbe? E dunque, come sempre,

sta qui, sola, che aspetta accanto un corpo

che la inviti a dormire. Senza sonno

passa la notte, sorge senza pace

il giorno e senza speranza si chiude.














III.


La stessa scena. E’ il tramonto. La stanza è tutta invasa da una luce rossa. Si ode lo sciabordio del mare. LA DONNA sta sdraiata bocconi per terra, con le braccia allargate. Parla, sillaba, piano, l’inizio di un canto.


LA DONNA Come zaffiri o come luminose

perle da mano in cielo conficcate

amoroso ricamo tutte quante

stanno le stelle.


Ma quando poi compare il grande disco

della luna, la luce invade il cielo,

scompaiono le stelle, ed è d’argento

tutta la notte.


Alza la testa. Sta china, con le braccia tese, poggiando tutto il peso del corpo sulle dita delle mani. Sillaba un altro canto.


Sei venuta! Ti vedo, finalmente!

Hai fatto bene. Il cuore si struggeva

di desiderio e mi sentivo morta.

Nasce la vita.


Si alza in piedi, nervosa, agitata.


No! Non è vero! Non è più, da questo

momento, vero, e io non posso, adesso,

più cantarlo, perché non è più vero

per me! Non viene più. Non verrà mai.

Non sarà vero mai più per nessuno.

Le parole si perdono, si sfanno,

hanno solo la nuda consistenza

dell’aria che nell’attimo le accoglie. -

Ma come! così povera la voce

s'è fatta del mio canto, che cantare

non so, non posso, il canto che non vivo?

E non è invece canto ciò ch’io vivo?

o fino a questo punto mi dispero,

che lontana da me non mi conosco?

fuggita, e dove, negli affanni calma,

nei tormenti serena, la mia voce? -

Mai! mai! mai! Tutti:dolci, amari, duri,

molli, soavi, acerbi, sono canti

della mia voce. Tutti: di speranza,

quando il mio cuore annega; di allegria,

quando ride. M’è sollievo il pianto,

mi ridesta il dolore. Sono tutte

le voci della vita, tutte muove

la stessa forza che muove la vita. -

Non mi passano invano accanto, le ore,

se so questo. - Ma passano. E non dentro,

passano scivolando accanto, come

l’acqua che scorre, come, tra le mani,

grandi, bianche farfalle. Tutto torna

al suo punto, anche il vano e ripetuto

attenderti. Per un respiro, l’aria

che dalla tua trapassa nella mia

bocca, e udire altre, non più mie, parole,

da te che aspetto, e che aspettando amare

mi fai l’attesa, che te solo aspetta. -

Ma che follia! Ho così tante volte

cantato quest’attesa, questa mia

solitudine, che mi pare il suo

sapore ormai restarmi sulle labbra,

attaccato. E più, quasi, non sentirlo.

Ma sto qua, io sto qua: e aspetto, aspetto!

Una donna è più sola, tutta quanta

la sua vita. Non bastano le poche

ore di gioia dell’amato, e meno

ancora dell’amata, per riempire

il grande vuoto dei contatti e scopo

riscoprire nei giorni sempre uguali.

A me le Muse il canto, un grande dono

diedero, che mi colma tutte le ore

del giorno, che m’affonda dentro il sacro

segreto delle cose e per me sola

l’oscurità dell’essere rischiara,

come nel cielo d’un’oscura notte

l’improvviso apparire della luna.

Anche la luna è sola, in mezzo al cielo,

troppo piccole intorno a lei le stelle,

troppo lontane. Come luna, dono

anch’io senza ritorno la mia luce.

Ma le stelle che attorno a me da lungo

ordine d’anni bevono la luce

del mio canto, col canto del ricordo,

anche lontane, restano nel cuore.

Vive di chi ritorna la memoria:

e chi, lasciata questa casa, torna

col pensiero all’amore in cui conobbe,

per me, se stessa, sillaba il mio canto,

e lo sillaba insieme a me, per sempre. -

L’uomo mi chiede tutta la mia vita,

e di sé solo lascia ch’io mi goda

una piccola parte: anche se grande

quella fu che dal padre di mia figlia

non l’obbligo concesse, ma l’amore.

Ma chi con me, per me stava nel punto

che da me venne fuori, a respirare

e a guardare la luce, una bambina,

il tesoro più grande di una donna?

Ero sola, dovevo essere sola.

Certo, l’amore dell’amato io dentro

lo sentivo nel frutto che m’usciva

dalla vagina: ma quel corpicino,

quella bocca già pronta per il grido,

quegli occhi ancora chiusi, ma che presto

avrebbero veduto il chiaro giorno,

e il mare azzurro, e il cielo luminoso,

quella piccola cosa era una vita,

e quella vita usciva dal mio corpo

come una vita che da me si stacca,

era mia, tutta mia la nuova vita

che nasceva. Non ebbi con mia figlia

più stretta unione mai né più completa

solitudine. Tutta mia, ma tutta

già staccata da me. Via via cogli anni

compresi che nasceva in quel momento

il dolcissimo e tuttavia struggente

amore d’una madre per la figlia,

quasi l’estremo denudato amore

di se stessa. Guardavo quel mio fiore

sbocciare, rassodarsi, la bambina

farsi una donna, inturgidirsi il senso,

impiumarsi le labbra della vita.

Ami nel figlio la vita che doni,

ma nella figlia la tua vita stessa

che si ripete. Un figlio si possiede,

e lo si stringe come in sé si stringe

un amante. Perciò quando si stacca,

il tuo cuore si spezza, come quando

t’abbandona un amante. Nulla chiedi

a una figlia. Ti basta riscoprire

in lei te stessa. Mai da me non ebbe

di mia figlia nessuna donna dolci

più le carezze, né con più tremante

pensiero la bellezza contemplata,

quasi con la paura di sfiorarla,

come potesse sotto le mie dita

squamarsi, lacerarsi la sua pelle,

e, ancora peggio, paura di vederla

senza delicatezza profanare

da troppi sguardi, e mani grossolane,

indegni, e mani e sguardi, di pensare

un’occhiata, un contatto. Inaridirsi

le foglie d’una rosa, e raggrinzirsi

come al contatto di una fiamma ho visto

i petali del fiore, impuro sguardo

o indegna mano se la respirante

e profumata vita ne ghermisse

anche lontano col pensiero e appena

li sfiorasse col tocco delle dita.

Eppure, anche mia figlia, una mattina,

gonfi gli occhi di lacrime, da questa

casa, cantando, è uscita per un’altra

casa, dove altre mani l’hanno accolta,

e carezzata, e sorridendo un’altra

bocca per altri baci l’aspettava.

Credo che dal mio cuore uscito tutto

fosse il mio sangue, pallida nel volto

come l’erba, le gambe senza forza,

e la mente svuotata. Ma seguivo

ogni suo passo, amavo ogni suo passo,

io stessa quei suoi passi, uno per uno,

avevo contrattato, avevo io stessa

deciso l’abbandono e l’affidavo

a quelle mani, la donavo, triste

per l’abbandono e lieta di donare,

alla giovane bocca che l’amava

non più di me, ma d’altro e più fecondo

amore. Ma da me soltanto appresa,

l’arte di darle le carezze, l’arte

d’amore che non chiede, gli svelava.

Mi figuro il sorriso, mi figuro

i dolci e grati baci che la bocca

del bel giovane andava uno per uno

sulle guance, sugli occhi, sulla fronte,

sul collo e sulle labbra dolcemente

depositando. Mi figuro il nero

e luminoso sguardo che la svela,

l’impeto che la coglie, l’improvviso

fiotto che le sue viscere ricolma.

Ora è madre anche lei. E mi regala

ore divine, quando viene, il nero

ciuffo del suo bambino. - Tutto questo

è accaduto aspettandoti. Parole

dietro parole, ti confesso tutta

la mia vita. Che tu già conosci.

Ti aspetto ancora. Oh vieni, te ne prego.

Se dico “vieni”, ecco, la mia parola

forse ha potere di chiamarti. Forse

tu non resisti, quando dico “vieni”.

Vieni! t’aspetto. Vieni. Tutto questo

è accaduto aspettandoti. Potrebbe

accadere di nuovo. E accade. Accade.

Il silenzio con cui nel mare il sole,

vedi, si tuffa, è uguale al tuo silenzio.

Il silenzio di sempre. Tutto questo

è accaduto aspettandoti: e io, pazza,

fingo che ancora accada, parlo come

tu stessi qua, per ascoltarmi. Parla,

io sono stanca di ascoltare solo

la mia voce. - Si svuota tutta l’aria

della stanza, inghiottita dal silenzio.

E soffoco. Non poso respirare.

Forse sarà così che lascio il mondo:

inghiottita dall’aria, dal silenzio

che mi soffoca. E sola, nel mio letto,

aspettando l’insonnia. Verrà invece

il sonno, questa volta. E la mia voce,

finalmente, farà silenzio. Tutte

le mie parole. Dimenticheranno

tutte le mie parole. Veramente

nel mondo si farà silenzio. Almeno

in questa stanza. Almeno, finalmente,

per me. - Dopo, se credi, puoi venire.

Io non t’aspetterò. E tu avrai pace.












IV.


La stessa scena. E’ notte fonda. LA DONNA sta distesa sulla panca, come nella prima scena.


LA DONNA Quello che resta. Oh sì! quello che resta.

E scendere più a fondo. Alle radici

del desiderio. Entrare nella notte,

dentro me stessa. Questa è l’ora giusta.

La luna è tramontata. Tramontate

sono tutte le stelle. Nel mio letto,

io sto sola. Sospendo il sogno e guardo

fuggire il sonno. E aspetto un’altra volta

l’alba. Non mi spaventa più la corsa

dei pensieri. Sferzatemi la mente,

bocche del desiderio. Il Cane morde

l’ultimo morso e il cielo si arroventa.

Adone, Adone. Pleiadi notturne

non rinfrescano d’una sola stilla

dal cielo il tuo giardino inaridito.

Evapora il profumo che ci avvinse,

l’ebbrezza che ci colse si dissolve:

infuoca il Sole, adesso, e Noto sperde,

nei deserti d’Arabia o tra le dune

di Cyrene, la rena che travolta

si fa ricordo della tua bellezza.

Non valse a nulla il tuo passare. Piange,

per te, senza speranza, perfino una

dea, ma dove vai non può seguirti.

Nemmeno a me più parla. Noi si passa,

e del nostro passare, come foglie

che cadono l’inverno, dopo breve

tempo, anche passa la memoria. Spazza

via le carezze, i baci, dalla pelle,

e cancella gli sguardi. Come foglie

la prima pioggia. Peggio per chi ancora

ne brucia e sopravvive al vento, all’acqua,

fuoco inestinto, fremito testardo.

Quello che resta, sì, quello che resta.


Si alza. Non trova riposo. Le mani s’intrecciano, le dita si agitano, afferrano oggetti nell’aria, accarezzano immaginarie figure, scivolano lievi sul lino che copre la panca.


Il fremito deluso e, inappagata,

l’ora che non s’estingue, che rinvia

sempre a quella che segue la sconfitta

dell’attenderti. Tante, mi si dice,

tante, quello che quest’una ti nega

vorrebbero donarti e il delicato

umido primo intatto fiore accolto

saprebbero da te di giovinezza.

Un inno canterebbero le loro

labbra per te di scatenata gioia,

susurrarlo lo udresti di serena

felicità sulle tue labbra. Dunque,

perché ti ostini? - Ma io non m’ostino.

Io muoio e muoio adesso per quest’una.

Forse un’altra, chi sa, domani, quella

che oggi trascuro e che me soffocare

vede per un rifiuto, mentre cieca

non vedo lei che soffre, lei che sente

sulla pelle l’ignara indifferenza

del mio sguardo, il rifiuto dei miei sensi,

e io che all’altra chiedo di guardarmi,

non so, guardando nei suoi occhi, il giorno,

leggere i desideri della notte,

ah sì! m’accenderei forse, bruciando

per quest’altra più forte di come ora

brucio per lei che mi rifiuta, e forse

inferiore costei mi sembrerebbe

alla mia sofferenza, mentre l’altra,

che sta nascosta, e che in silenzio soffre

l’umiliazione d’essere respinta,

l’altra, sì, l’altra, finalmente, intere

al desiderio m’offrirebbe le ore

della notte. - Ma è questa la mia notte!

Perché, ditemi, chi può comandare

ai sensi? Io non soffro per chi m’ama,

soffro per chi non m’ama. E come posso

dunque pensare che inferiore scorga

alla mia sofferenza quella che ora

mi fa soffrire? - Ma che cosa voglio

io da lei? e, perché, da lei negato

ciò che voglio, ne soffro? Vero amore

farebbe amare ciò che ama l’amata,

e non amare ciò che lei non ama. -

Essere amati è bello, ma grandezza,

anche se non amati, amare. - Forse. -

Mi si spacca il cervello. Sento freddo.

La notte mi raggela ciò che il giorno

m’infuoca. Eppure, dentro il gelo, brucia

il fuoco d’una febbre che i pensieri

mi fa rabbrividire nella mente.

Una parte di me non vuole quello

che vuole l’altra parte. Devo andare

fino in fondo. Capire fino in fondo. -

Non è ancora la notte tutta intera

trascorsa. E non ancora si rischiara

sopra le onde del mare l’orizzonte.

Posso ancora aspettarti. Forse arrivi

quando tutte mi sembrano cadute,

per sempre, le speranze di vederti.

E anche se non vieni, questa notte,

verrai, forse, domani. O, chi sa, dopo,

una notte che non t’aspetto, e tutto,

fino a quel punto, sarà stato il tempo

dell’attenderti come il predisporsi

al canto della voce, come l’ora

vuota senza parole che prepara

il sillabarsi dei pensieri, o come,

prima di cominciare il canto, l’ansia

di mancarlo che soffoca il respiro.

Ma tutto questo tempo poi trascorso,

e tutto senza te trascorso, è nulla,

io non potrò mai più di te colmarlo,

sarà per me, per te, per noi perduto,

e perduto per sempre. Il desiderio,

che di te mi divora, non è, credo,

possederti: mi disprezzassi, giusto

sarebbe il tuo disprezzo. No, non voglio

il tuo possesso: è ancora troppo poco.

Voglio il tuo cuore. Non ti chiedo quello

che non vuoi darmi, ma ti chiedo quello

che solo posso chiederti: di darmi

tu stessa quello che ti chiedo. Troppo,

ti sembra? E’ poco. Tutta, o cara, quando

vieni, ti voglio: e tutt’avrai me stessa.

Tutta in quell’ora. Dimenticheremo

il tempo dell’attesa. Non avremo

altro tempo che l’ora dell’incontro.

Saremo entrambe il tempo di quell’ora,

l’una per l’altra l’essere indiviso,

immobile, del flusso che c’ingoia.

E fuori di quel punto, entrambe nulla.

Ogni prima soppresso, nessun dopo

oltre quel punto scorre nella mente,

se l’essere che annoda le parole

alle cose ci stringe nel silenzio. -

Ma tu non vieni! E tutto questo è stato

un sogno. - Lo sospendo. Per guardare,

una per una, le lunghe ore vuote

di quest’attesa ormai precipitarsi

al deserto dell’alba. Per guardare,

dentro me stessa, dentro il mio delirio,

la mia paura. Io non finisco all’alba

il sogno che sospendo. Lo ripeto

ogni notte, ogni notte lo ripeto

uguale. Una paura lo sospende:

ma, sospeso, si vendica, e ne resta

una scheggia incompleta, e questa scheggia

si ripete ogni notte, si ripete

incompleta ogni notte, come ruota

che gira sempre nello stesso solco. -

Invecchio. Il desiderio resta indietro

alla corsa degli anni. La mia mente

è ancora di bambina. Ma gli dei

non diedero al mio corpo questa stessa

eterna fanciullezza. Se mi guardo

allo specchio, capisco il tuo rifiuto.

Ma non capisco il cuore. Non capisco

il tuo, non capisco il mio. Cedo

alla condanna senz’appello. Cedo

alla fuga dei giorni, al declinare

dei sorrisi, allo spegnersi degli occhi,

quando guardo. Nessuna che m’inviti,

se prima non la invito. Chiusa in questa

stanza, su questo letto, invoco invano

un corpo, inascoltata chiedo un cuore.

Muore giovane, chi è caro agli dei.

Verrà quel giorno anche per me. Paura

non ho di abbandonare questo mondo,

di non vedere più la luce. Cara

mi fu, mentre la vissi, la mia vita.

Ora la guardo. Ora comincio a uscirne.

E voglio uscirne non come vi entrai,

senza coscienza. L’ultimo commiato,

voglio vederlo. E udire intorno solo

il mio rantolo. Senza pianti, senza

grida di donne. Uscirne sola, come

la vissi. Sola con me stessa: senza

altre parole che le mie. Morire

col canto sulla bocca. Il solo sogno

che non sospesi mai, che ancora dura. -


Entra, nella stanza, la luce dell’alba.





FINE





Venezia, 8 agosto 1993 - Salisburgo, 16 agosto 1993.

Revisioni:

Roma, 12 ottobre 1993.

Venezia, 12 marzo 2003.

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