DINO VILLATICO
CHI, O SAFFO, TI FA TORTO?
Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno…
Giacomo Leopardi
I.
Una panca. O un letto. In una stanza nuda. Vi sta sopra, distesa, una donna. Senza cuscino, supina. Indossa una specie di lungo chitone. E’ l’alba.
LA DONNA Pensare. O ricordare. Ma potessi
chiudere gli occhi e non vedere nulla,
nemmeno dentro la mia testa. Quanto
tempo fa? Quanti giorni? Quanti mesi?
Fuggono, senza ch’io possa fermarle,
le parole. O che cosa? Ma non sono,
no, non furono mai parole, quelle
che non dico, ma vedo, e dunque scrivo.
Quando? oh, quando? Se fu solo dire.
Come ancora, guardando, penso, e dico.
Mai più! mai più! Fuggito via per sempre.
Annegare! annegare! oh sì, annegare!
Nessuna cosa è la cosa più bella,
tranne questo morire che non muore
della mia vita, un vento che squassa
tutte le ossa e frantuma una per una
le mie parole. Torno a dire? Torno
altro di me a non essere che il dire?
Tu, tu che mi ascoltasti allora, dove
sei fuggito, mio canto, mio sublime,
unico canto? E se toccare, oh! appena
una carezza, appena uno sfiorarti
leggera con le dita la peluria,
laggiù, dove tu bruci e fai bruciare,
se mi lasciassi là depositare
un breve bacio, un mio lungo sospiro
appena con la punta della lingua,
laggiù, dove l’amore nasce e affonda,
perché già vecchia mi disprezzeresti?
Ma tu ti copri. Tu ti chiudi. E scappi.
T’avrei donato tutte le parole
del canto con cui canti la tua scialba
giovinezza. Che cosa può ferirti,
sciocca, se la mia mano ti carezza?
Ho solo quindici anni, se mi vuoi.
E sono madre. Posso tutta darti,
ancora, dal mio seno, una dolcezza
che tu ignori. Perché ti parlo ancora?
Le mie parole sono baci, lunghi
baci che non t’ho dato. Ricordare!
E smarrirmi. Ma in quell’annegamento
della memoria, mi ridesto al canto,
quasi mi rassereno, mi conosco,
e mi salvo. - Tu ridi? Se ne muoio!
Si può, certo, morire di memoria,
del desiderio di dolcezza, forse
perfino di bellezza, che s’appaga
nella sola visione del ricordo.
Illanguidita voce del pensiero,
umida bocca del mio desiderio,
per te così si bagna la memoria,
così germoglia il canto tra le labbra
che vieti alle mie labbra. - Devo alzarmi.
Devo guardare. Più nulla, quando m’alzo,
di ciò che penso, è vero. Tutto, adesso,
invece, mi distrugge, mi divora. -
Vivo soltanto delle mie parole,
ma non di te. Ma non di te! perduta,
unica voce innominata. Tutte
quante le altre, ora, fuggitiva voce,
ah no! no! non mi giovano, se questa,
sola, non mi risponde, mi respinge. -
Lui, però, mi deride. Sorrideva,
al tuo fianco, e parlava, ti diceva
non so che cosa, forse t’additava
me che tremavo, che rabbrividivo
guardandolo, guardandoti, e morivo,
di soffocata tenerezza. Basta!
Si drizza. Sta seduta sulla panca.
Odio la luce, il giorno che vi coglie
ancora avvinti. Intera, tutta quanta
è passata la notte, senza sogni,
guardandovi. Sto qua, che guardo, sola,
ciò che non vedo, e non vorrei vedere.
Batte i pugni chiusi, ritmicamente, tra loro.
I miei capelli un tempo erano viola
e li cantò un poeta. Io sono pura -
oh, tu non sai, no, tu non puoi sapere,
tu sei fuggita, ti sei chiusa gli occhi,
prima, non tanto di scoprirlo, prima,
piuttosto, di lasciartelo scoprire -
che sono pura, veramente pura,
e che ogni volta tocco come fosse
la prima volta. Sciocca! Di noi due,
non io te - che follia! - ma tu me, come
un calice di vino ancora colmo,
e non toccato, me tu hai perduto.
Sì! m’hai perduta! Per tutti questi anni
che mi pesano addosso, che tu conti
in ogni filo grigio dei capelli!
Si butta bocconi sulla panca.
E non posso tornare indietro. Fosse
solo d’un giorno. Avanti, come freccia
scoccata, scorre la mia mente, vola
il respiro e s’estingue la parola.
La musica è sospesa. E il giorno passa,
passa la notte, senza sonno, senza
sogni. Ma scorre, e vedo, tutto il giorno,
tutta la notte, questo inappagato
desiderio di te che mi concede
al tuo rifiuto. - Sì, odio la luce
che ritorna. Vorrei che fosse sempre
notte. - Ma no! la notte è ancora peggio!
Che il giorno m’abbandoni, e ricominci
la notte, amico il buio in questo letto
non scende. Né sorride, quando torna,
il sole. Asciutto il ciglio, e fermo l’occhio.
Ma, dentro, una tempesta mi sconvolge
di lacrime e di sangue che va via. -
Si drizza un’altra volta. Fissa, seduta sulla panca, un punto lontano.
Adesso si alza. Chiama la sua serva.
Si fa portare nardo e cinnamomo.
Si lava, si profuma: tutta quanta
dai capelli alle gambe, dalla fronte
alle dita dei piedi e, tra le cosce,
una goccia di muschio. Si cosparge
d’olio le membra, tinge le sue guance
di croco e di papavero. Tessuti
lievi di Licia stende sopra il letto.
Il suo corpo ora freme: lo nasconde
allo sguardo infiammato la sottile
ragnatela di un abile ricamo,
lino leggero d’Egitto che brune
fanciulle ricamarono cantando
sulle sponde del Nilo nelle calde
lunghe notti d’estate quando il cielo
è tutto quanto un delirio di stelle.
Corta la notte fu per le delizie
d’amore. Nuove nascono dal giorno
che arriva le delizie della luce.
E guardarsi è già quasi penetrarsi.
Dai suoi occhi ora tu l’apprendi, e senti
cedere a quello sguardo le ginocchia.
Senti bruciare d’una sconosciuta
febbre i tuoi occhi. E tutta t’abbandoni
di nuovo a lui, ricominciando il gioco
che ti sfibra, ma non ti sazia. - Sempre
ti dura il desiderio quando credi
già finito il piacere. Ricominci
a guardarlo e ti lasci da lui tutta
guardare. Scorge un tremito incresparti
le labbra: ride, gli occhi ancora fissi
nei tuoi occhi, si piega sulle labbra,
e con un bacio il tremito t’arresta. -
Ma come t’attraversi l’occhio d’una
donna, questo l’ignori. Che languore
dentro svuoti le viscere, tra sguardo
e sguardo se giocare lasci gli occhi.
Più dolci gli occhi sono delle dita.
Più dolci della verga che tu chiedi
all’uomo che ti coglie e ti feconda
col suo seme, ma non può la tua bocca
colmare con la stessa tenerezza
della mia bocca di donna. Nessuna,
più dolce, ormai perduta ricordando,
dell’unica che incauta rifiutasti,
ma che sola dei giorni senz’attesa
fingere ti saprebbe una memoria. -
Ricordo il giorno che da me venisti:
ti svolazzava intorno per il vento
la bianca veste, e io ti pregai,
su quel vento, d’improvvisare un canto,
lasciando sulla pettide volare
le tue dita: guardandoti godevo,
intorno a te volavano gli sguardi
che muove come il vento il desiderio,
e tutte salutammo in te l’ingresso
della bellezza. Offrimmo quella sera
ad Afrodite tutte quante un dono.
Si palpa i seni. Si strofina l’inguine.
Mai! mai! mai! mai! Terribile parola.
Già. Tu non la conosci. Tu conosci,
adesso, solo la parola sempre
e la parola ancora. Per me solo
si dice mai, o, peggio, mi s’insulta
con un non più. - Perché non dirmi invece
non ancora? Volevi forse intatta
serbarti a lui, lasciargli il primo fiore
della tua giovinezza? e, di piaceri
ormai esperta, finalmente darti
a me? questo volevi? E inutilmente
mi dispero? M’illudo, se ti aspetto?
II.
La stessa scena. Mezzogiorno. Luce accecante. La donna siede sulla panca. Con le gambe incrociate e le palme delle mani sulle ginocchia. Fissa il vuoto.
LA DONNA Guardare. Anche così si aspetta. Forma,
anche questa, chi sa, d’intesa. Forma
- ma di chi? ma per chi? - forma d’incontro.
E d’inganno. Chi aspetto? e fino a quando?
Il sole, alto nel cielo, che mi guarda,
guarderebbe comunque, anche l’amplesso,
come ora guarda, qui dentro, la mia
solitudine. Scendi, te ne prego,
scendi a parlarmi, misericordiosa
voce, fammi sentire il frullo d’ali
che fino a me ti porta, dolce voce
del canto che t’invoca, fammi udire
le mie parole un’altra volta dentro
il suo cuore. Ch’io possa, dentro il cuore,
dentro il suo cuore, i battiti avvertire
della mia voce. Ch’io mi riconosca,
dentro di lei. La mano che mi coglie
mi coglierà che bacio il suo venirmi
dentro, e dentro la stringeranno forte,
inumidite, le mie labbra. Oh lascia
ch’io t’ascolti le vene, ch’io ti senta
fremere sotto la mia lingua, lascia
che con questa mia guancia dello stesso
mio fuoco ardere io senta la tua guancia.
Ma quali, adesso, snerveranno amori
le tue fibre? da quale bocca accolta
la tua bocca si lascerà donare
giovinezza? e da chi, poi, penetrata,
riversandogli umori nella stretta,
berrai da lui la vita che dà vita?
Anch’io conobbi quei piaceri. Avevo
la tua età. M’aveva già un’amica
- cara! - prima di quella notte, aperta,
perché poi non soffrissi nella nuova
per me tanto diversa congiunzione.
Piangevo. Io piangevo, e non volevo
abbandonarla. “No, mai, mai”, dicevo:
“voglio lasciarti. Morirò se passo
quella soglia”. Ma invece la passai.
E mi strinse, oltre l’uscio, un’altra mano.
Grande. Nessuna mano così grande
m’aveva preso ancora per la mano.
E la sentivo calda. Tutta quanta
bagnata di sudore. Cominciavo
a sentirmi protetta. E anch’io sudavo.
Sarei caduta, inerte, se il suo braccio
sorretta non mi avesse. Mi mancava
la forza nelle gambe. Mi sentivo
tutta dentro bagnarmi e ne provavo
vergogna. Non osavo alzare gli occhi.
Non osavo guardarlo. Ma sentivo
che mi guardava. Forse, sorrideva.
Appoggiata al suo braccio, mi condusse
nella stanza del talamo. Mi tolse
la veste, senza dire nulla. Solo
in quel punto m’accorsi che d’un tratto
avevo smesso di tremare. Allora
alzai anch’io su di lui lo sguardo.
Io avevo paura. Quasi ancora
nulla sapevo del suo corpo, e tutto
nudo me lo vedevo avanti. Eppure,
già vederlo, e noi due la prima volta
là, così soli, l’uno contro l’altra
- contro! com’ero sciocca! da lui seppi
come si possa due corpi stare
l’uno per l’altro! - sì, da lui! - sentivo
il suo respiro intorno a me volare
per la stanza, colmarla, profumarla,
addensarla di desideri, quasi
chiuderla dentro un bozzolo di venti
leggeri, delicati, e domandarmi
con quell’alito il dono atteso e dolce
d’un bacio, il dono infine di me stessa.
Avvertivo i suoi occhi scivolare
sulla mia pelle, come ora anche i miei
li sentivo bruciare al desiderio
d’abbracciargli le gambe, il ventre, il petto,
secca la lingua nella bocca, e come
prosciugate le labbra dalla sete.
Mi sentivo cadere. Inumidirsi
la mia pelle. Disciogliersi le membra.
Appannarsi la vista. Risucchiata
da me stessa. Mi venne addosso un grande
caldo, venni squassata da un furore
finora sconosciuto, era una febbre
che mi bruciava gli occhi, ma d’un tratto
invece tutta quanta fui sconvolta,
scardinata da tremiti di freddo. -
Chi sa se così dolce anche te l’uomo
che ora ti stringe ha colto il tuo donarti
a lui, come mi colse, spaventata
prima, onda poi d’estrema tenerezza,
l’uomo che quella prima volta, al colmo
del mio donarmi a lui mi rese madre.
Aveva anch’egli, come me, tremendi
gli amori, e molti,ognuno il primo, ognuno
il più grande. Perciò tra noi più bella
fu la vita, più tenera la notte,
e più tranquillo il giorno. A me veniva,
se amore nuove angosce gli portava.
A lui parlavo, se me l’alba desta
mi trovava nel letto. E noi parole,
l’uno per l’altra, si cercava, nuovi
canti, nuovi discorsi, per scacciare
l’umore nero delle nostre notti
senza compagni. Entrambi cercavamo
la luce, il sole, il ridestarsi amico
dei colori allo sguardo, il puro incanto
d’una forma, la geometria sonora
d’una voce, che agli occhi dà l’ebbrezza
della vita. Coglieva entrambi un dolce
pianto all’aprirsi, dopo lunga via,
del mare all’orizzonte. La bellezza
d’un fiore, d’una tazza, ci rapiva.
Ma solo poi la grazia luminosa
d’un corpo, la divina limpidezza
d’uno sguardo eccitava nel contatto
la febbre del divino. Conoscenza,
senza paura non si tocca. Solo
si schiudono le cose a chi le accoglie.
Amo per questo il lusso, l’eleganza,
e voglio intorno a me soltanto cose
raffinate. Uno sgarbo involontario,
una mancanza di delicatezza,
più, forse, mi feriscono che il nudo
morso della malvagità. Ci univa
una stessa paura: lo sgomento
della bruttezza. - Adesso posso dirlo:
forse nessuna donna, come lui,
mi conobbe, perché nessuna, come
lui, me, soltanto me, dopo l’amore,
cercava. Dopo! Qui sta la miseria.
Tutta piena del dono di piacere,
che un corpo di fanciulla mi donava,
cercavo poi negli occhi qualche intesa,
ma gli occhi si chiudevano spietati,
la bocca non s’apriva alle parole.
Lui mi parlava. E con che tenerezza
mi raccontava, sempre, le sue pene
d’amore. Con che pena confessavo
i miei tormenti. E’ lui la dea che viene
a confortarmi, è lui la dolce bocca
che canta la mia pena e il mio dolore.
Non bruciassi così, come anche brucio
per te, non altro amore, nella vita,
felicità più grande, bramerei,
e meno pianti, che il dolce tormento
di carezzarlo e farmi carezzare.
Ma tu, tu che ne sai? Soffrire, quando
si ama, è anche la lunga oscura notte
che ci lascia nel letto soli, senza
parole, senza mano che accarezzi.
Noi ci donammo. E tu mi sfuggi. Questo,
tutta mi fa per te rabbrividire.
Adesso, che la notte è passata,
e alto in mezzo al cielo tutto brucia
il sole, e brucia, dentro, il desiderio,
una carezza invano sospirata
misura il tempo che t’aspetto invano. -
Si sdraia sulla panca. Incrocia le mani dietro la nuca.
Venne da me, più tardi, un grande amico:
era un grande poeta, forse grande
più di tutti tra i Greci. Cara mi ebbe
tra le donne. Cantò la mia bellezza.
Ma gli piacque, di me, più di ogni cosa,
quella ch’egli chiamava mia purezza.
Si drizza. Resta seduta.
E questo, cara, è vero, è vero, proprio
come per me lo canta. Sono piene
le mie orecchie ancora di quel canto.
Non credere che vita senz’amore
sia vita, ma nemmeno che sia tutta
la vita il desiderio che chiamiamo
amore. Egli sentiva questa forza
di dire che mi muove, ma sentiva
anche, che mossa è dalla vita stessa
la mia bocca, non già perché parole
m’offra la vita, ma perché la forza
che muove tutte quante le parole
ch’io dico e canto, è quella forza stessa
della vita che muove la natura
delle cose. Per questo pura il canto
mi dice. Squame ai pesci variopinte
e dato il verde ai boschi, azzurro il cielo,
alla luna l’argento e alle stelle,
e l’oro al sole, scuro come il vino
il mare, più colori ebbero i fiori,
ebbe ogni cosa un dono: a me fu data
la parola, fu dato alla mia bocca
il canto. Ma chi diede ciò che diede?
vita ebbero da chi le cose, quella
che quaggiù vedi? Un dio, se dio lo chiama
la lingua che parliamo, se altro nome,
a ciò che non sappiamo nominare,
la mente, dentro il fuoco che la brucia,
non pensa. Ma divino è tutto, dio
anche cercare un dio. E non importa
il nome. Sono per questo mio canto
quello che sono, così come cielo
è l’azzurro, ed è luna, sono stelle
l’argento, è sole l’oro, è mare il vino.
Rubò per noi, dal cielo, sull’Olimpo,
Prométeo non solo il fuoco, estrasse
col fuoco anche la vita. Ed è per questo
che vivere c’infiamma. E quando muore
una vita si dice che si spegne.
Io canto questo fuoco, io dico questa
vita. Ti fa paura, che la fuggi? -
Si alza. Scruta l’orizzonte.
Nelle notti serene, quando tace
d’estate all’improvviso la cicala,
egli veniva e parlavamo insieme
del canto che finisce, di quest’altro
nuovo che allora ci nasceva dentro.
Il dolce sguardo e la soave mano
anche lui travagliava della stessa
inflessibile dea. Ma un altro dio,
più tremendo, più forte, più selvaggio,
lo dominava. E lo scagliava fuori
nelle lotte, lo dava tutto in pasto
ai furori dell’odio. Una crudele
febbre squassava la sua vita, come
vento d’estate sui monti le cime
degli alberi. Ma c’era il vino. Colmo
d’un’altra ebbrezza il cuore allora un altro
vento la mente gli sferzava, e altri
canti, con più gioiosa e aperta voce,
ad altro dio la bocca gli cantava. -
Si siede, in atto di accingersi a conversare.
Mio dolcissimo amico, tu, il più puro
dei miei più dolci canti.come sono
quelle notti d’estate ora lontane!
Dove vegli, esiliato? quale terra,
in quale mare, sotto quale cielo,
tutta tremando ascolta ora il tuo canto?
E’ di discordia anche quello che in terre
ora canti lontane? Ma tu credi
che altrove meno ingiusta sia la gente
di quella che lasciasti disgustato
in quest’isola, dove insieme, pazzi,
noi due sognammo un mondo dove il cuore
fosse libero, e mai venisse a colpa
poi additata la delicatezza
di questa libertà? Ma fa paura,
essere come siamo, a quella massa
che vuole dominarci per fondare
un mondo di soprusi e di appetiti.
Gente corrotta intorno a sé non ama
l’onestà, e non puoi a chi s’ingozza
chiedere di mangiare più discreto.
Nasce libero chi la propria vita
costruisce: chi libero non nasce,
la vita la sparpaglia, se ne spalma
addosso quanta più ne può, la ingoia
in una volta tutta quanta, e resta
ancora con la fame. Questi sono
gli uomini che sprezzi, ma che, come
vedi, stanno sul trono e hanno potere
di scacciarti, perché non assomiglia
a nessuno di loro la tua vita.
E tu, potevi credere di avere
la forza di cambiarli, o quanto meno
sottometterli, questi, che tu odiavi
per la loro bassezza, ma che sono
molti, e tu uno sei, anche tra i pochi
delle stesso tuo rango, da te tutti
diversi? Qui nessuno, adesso, sente
la tua mancanza: non la sente, certo,
chi t’è nemico, ma nemmeno quelli
che credi amici vogliono davvero
il tuo ritorno. Fingono amicizia,
perché il tuo nome a loro porta onore,
ma che da qui tu stia lontano, è cosa
che li rende beati. Uno di meno,
intorno al piatto, il più intelligente,
il più puro, e perciò pericoloso,
perché troppo diverso da quei pochi
che sono uguali a tutti i molti uguali. -
Ma tu resta così. Sei sempre, amico,
degli ottimi il migliore, e sei te stesso,
solo te stesso. E’ questo che fa rabbia
agli altri. Tu, però, potresti, o caro,
qui venire per me, per me soltanto.
La tua amica, sappi che non cambia.
Come potrebbe? E dunque, come sempre,
sta qui, sola, che aspetta accanto un corpo
che la inviti a dormire. Senza sonno
passa la notte, sorge senza pace
il giorno e senza speranza si chiude.
III.
La stessa scena. E’ il tramonto. La stanza è tutta invasa da una luce rossa. Si ode lo sciabordio del mare. LA DONNA sta sdraiata bocconi per terra, con le braccia allargate. Parla, sillaba, piano, l’inizio di un canto.
LA DONNA Come zaffiri o come luminose
perle da mano in cielo conficcate
amoroso ricamo tutte quante
stanno le stelle.
Ma quando poi compare il grande disco
della luna, la luce invade il cielo,
scompaiono le stelle, ed è d’argento
tutta la notte.
Alza la testa. Sta china, con le braccia tese, poggiando tutto il peso del corpo sulle dita delle mani. Sillaba un altro canto.
Sei venuta! Ti vedo, finalmente!
Hai fatto bene. Il cuore si struggeva
di desiderio e mi sentivo morta.
Nasce la vita.
Si alza in piedi, nervosa, agitata.
No! Non è vero! Non è più, da questo
momento, vero, e io non posso, adesso,
più cantarlo, perché non è più vero
per me! Non viene più. Non verrà mai.
Non sarà vero mai più per nessuno.
Le parole si perdono, si sfanno,
hanno solo la nuda consistenza
dell’aria che nell’attimo le accoglie. -
Ma come! così povera la voce
s'è fatta del mio canto, che cantare
non so, non posso, il canto che non vivo?
E non è invece canto ciò ch’io vivo?
o fino a questo punto mi dispero,
che lontana da me non mi conosco?
fuggita, e dove, negli affanni calma,
nei tormenti serena, la mia voce? -
Mai! mai! mai! Tutti:dolci, amari, duri,
molli, soavi, acerbi, sono canti
della mia voce. Tutti: di speranza,
quando il mio cuore annega; di allegria,
quando ride. M’è sollievo il pianto,
mi ridesta il dolore. Sono tutte
le voci della vita, tutte muove
la stessa forza che muove la vita. -
Non mi passano invano accanto, le ore,
se so questo. - Ma passano. E non dentro,
passano scivolando accanto, come
l’acqua che scorre, come, tra le mani,
grandi, bianche farfalle. Tutto torna
al suo punto, anche il vano e ripetuto
attenderti. Per un respiro, l’aria
che dalla tua trapassa nella mia
bocca, e udire altre, non più mie, parole,
da te che aspetto, e che aspettando amare
mi fai l’attesa, che te solo aspetta. -
Ma che follia! Ho così tante volte
cantato quest’attesa, questa mia
solitudine, che mi pare il suo
sapore ormai restarmi sulle labbra,
attaccato. E più, quasi, non sentirlo.
Ma sto qua, io sto qua: e aspetto, aspetto!
Una donna è più sola, tutta quanta
la sua vita. Non bastano le poche
ore di gioia dell’amato, e meno
ancora dell’amata, per riempire
il grande vuoto dei contatti e scopo
riscoprire nei giorni sempre uguali.
A me le Muse il canto, un grande dono
diedero, che mi colma tutte le ore
del giorno, che m’affonda dentro il sacro
segreto delle cose e per me sola
l’oscurità dell’essere rischiara,
come nel cielo d’un’oscura notte
l’improvviso apparire della luna.
Anche la luna è sola, in mezzo al cielo,
troppo piccole intorno a lei le stelle,
troppo lontane. Come luna, dono
anch’io senza ritorno la mia luce.
Ma le stelle che attorno a me da lungo
ordine d’anni bevono la luce
del mio canto, col canto del ricordo,
anche lontane, restano nel cuore.
Vive di chi ritorna la memoria:
e chi, lasciata questa casa, torna
col pensiero all’amore in cui conobbe,
per me, se stessa, sillaba il mio canto,
e lo sillaba insieme a me, per sempre. -
L’uomo mi chiede tutta la mia vita,
e di sé solo lascia ch’io mi goda
una piccola parte: anche se grande
quella fu che dal padre di mia figlia
non l’obbligo concesse, ma l’amore.
Ma chi con me, per me stava nel punto
che da me venne fuori, a respirare
e a guardare la luce, una bambina,
il tesoro più grande di una donna?
Ero sola, dovevo essere sola.
Certo, l’amore dell’amato io dentro
lo sentivo nel frutto che m’usciva
dalla vagina: ma quel corpicino,
quella bocca già pronta per il grido,
quegli occhi ancora chiusi, ma che presto
avrebbero veduto il chiaro giorno,
e il mare azzurro, e il cielo luminoso,
quella piccola cosa era una vita,
e quella vita usciva dal mio corpo
come una vita che da me si stacca,
era mia, tutta mia la nuova vita
che nasceva. Non ebbi con mia figlia
più stretta unione mai né più completa
solitudine. Tutta mia, ma tutta
già staccata da me. Via via cogli anni
compresi che nasceva in quel momento
il dolcissimo e tuttavia struggente
amore d’una madre per la figlia,
quasi l’estremo denudato amore
di se stessa. Guardavo quel mio fiore
sbocciare, rassodarsi, la bambina
farsi una donna, inturgidirsi il senso,
impiumarsi le labbra della vita.
Ami nel figlio la vita che doni,
ma nella figlia la tua vita stessa
che si ripete. Un figlio si possiede,
e lo si stringe come in sé si stringe
un amante. Perciò quando si stacca,
il tuo cuore si spezza, come quando
t’abbandona un amante. Nulla chiedi
a una figlia. Ti basta riscoprire
in lei te stessa. Mai da me non ebbe
di mia figlia nessuna donna dolci
più le carezze, né con più tremante
pensiero la bellezza contemplata,
quasi con la paura di sfiorarla,
come potesse sotto le mie dita
squamarsi, lacerarsi la sua pelle,
e, ancora peggio, paura di vederla
senza delicatezza profanare
da troppi sguardi, e mani grossolane,
indegni, e mani e sguardi, di pensare
un’occhiata, un contatto. Inaridirsi
le foglie d’una rosa, e raggrinzirsi
come al contatto di una fiamma ho visto
i petali del fiore, impuro sguardo
o indegna mano se la respirante
e profumata vita ne ghermisse
anche lontano col pensiero e appena
li sfiorasse col tocco delle dita.
Eppure, anche mia figlia, una mattina,
gonfi gli occhi di lacrime, da questa
casa, cantando, è uscita per un’altra
casa, dove altre mani l’hanno accolta,
e carezzata, e sorridendo un’altra
bocca per altri baci l’aspettava.
Credo che dal mio cuore uscito tutto
fosse il mio sangue, pallida nel volto
come l’erba, le gambe senza forza,
e la mente svuotata. Ma seguivo
ogni suo passo, amavo ogni suo passo,
io stessa quei suoi passi, uno per uno,
avevo contrattato, avevo io stessa
deciso l’abbandono e l’affidavo
a quelle mani, la donavo, triste
per l’abbandono e lieta di donare,
alla giovane bocca che l’amava
non più di me, ma d’altro e più fecondo
amore. Ma da me soltanto appresa,
l’arte di darle le carezze, l’arte
d’amore che non chiede, gli svelava.
Mi figuro il sorriso, mi figuro
i dolci e grati baci che la bocca
del bel giovane andava uno per uno
sulle guance, sugli occhi, sulla fronte,
sul collo e sulle labbra dolcemente
depositando. Mi figuro il nero
e luminoso sguardo che la svela,
l’impeto che la coglie, l’improvviso
fiotto che le sue viscere ricolma.
Ora è madre anche lei. E mi regala
ore divine, quando viene, il nero
ciuffo del suo bambino. - Tutto questo
è accaduto aspettandoti. Parole
dietro parole, ti confesso tutta
la mia vita. Che tu già conosci.
Ti aspetto ancora. Oh vieni, te ne prego.
Se dico “vieni”, ecco, la mia parola
forse ha potere di chiamarti. Forse
tu non resisti, quando dico “vieni”.
Vieni! t’aspetto. Vieni. Tutto questo
è accaduto aspettandoti. Potrebbe
accadere di nuovo. E accade. Accade.
Il silenzio con cui nel mare il sole,
vedi, si tuffa, è uguale al tuo silenzio.
Il silenzio di sempre. Tutto questo
è accaduto aspettandoti: e io, pazza,
fingo che ancora accada, parlo come
tu stessi qua, per ascoltarmi. Parla,
io sono stanca di ascoltare solo
la mia voce. - Si svuota tutta l’aria
della stanza, inghiottita dal silenzio.
E soffoco. Non poso respirare.
Forse sarà così che lascio il mondo:
inghiottita dall’aria, dal silenzio
che mi soffoca. E sola, nel mio letto,
aspettando l’insonnia. Verrà invece
il sonno, questa volta. E la mia voce,
finalmente, farà silenzio. Tutte
le mie parole. Dimenticheranno
tutte le mie parole. Veramente
nel mondo si farà silenzio. Almeno
in questa stanza. Almeno, finalmente,
per me. - Dopo, se credi, puoi venire.
Io non t’aspetterò. E tu avrai pace.
IV.
La stessa scena. E’ notte fonda. LA DONNA sta distesa sulla panca, come nella prima scena.
LA DONNA Quello che resta. Oh sì! quello che resta.
E scendere più a fondo. Alle radici
del desiderio. Entrare nella notte,
dentro me stessa. Questa è l’ora giusta.
La luna è tramontata. Tramontate
sono tutte le stelle. Nel mio letto,
io sto sola. Sospendo il sogno e guardo
fuggire il sonno. E aspetto un’altra volta
l’alba. Non mi spaventa più la corsa
dei pensieri. Sferzatemi la mente,
bocche del desiderio. Il Cane morde
l’ultimo morso e il cielo si arroventa.
Adone, Adone. Pleiadi notturne
non rinfrescano d’una sola stilla
dal cielo il tuo giardino inaridito.
Evapora il profumo che ci avvinse,
l’ebbrezza che ci colse si dissolve:
infuoca il Sole, adesso, e Noto sperde,
nei deserti d’Arabia o tra le dune
di Cyrene, la rena che travolta
si fa ricordo della tua bellezza.
Non valse a nulla il tuo passare. Piange,
per te, senza speranza, perfino una
dea, ma dove vai non può seguirti.
Nemmeno a me più parla. Noi si passa,
e del nostro passare, come foglie
che cadono l’inverno, dopo breve
tempo, anche passa la memoria. Spazza
via le carezze, i baci, dalla pelle,
e cancella gli sguardi. Come foglie
la prima pioggia. Peggio per chi ancora
ne brucia e sopravvive al vento, all’acqua,
fuoco inestinto, fremito testardo.
Quello che resta, sì, quello che resta.
Si alza. Non trova riposo. Le mani s’intrecciano, le dita si agitano, afferrano oggetti nell’aria, accarezzano immaginarie figure, scivolano lievi sul lino che copre la panca.
Il fremito deluso e, inappagata,
l’ora che non s’estingue, che rinvia
sempre a quella che segue la sconfitta
dell’attenderti. Tante, mi si dice,
tante, quello che quest’una ti nega
vorrebbero donarti e il delicato
umido primo intatto fiore accolto
saprebbero da te di giovinezza.
Un inno canterebbero le loro
labbra per te di scatenata gioia,
susurrarlo lo udresti di serena
felicità sulle tue labbra. Dunque,
perché ti ostini? - Ma io non m’ostino.
Io muoio e muoio adesso per quest’una.
Forse un’altra, chi sa, domani, quella
che oggi trascuro e che me soffocare
vede per un rifiuto, mentre cieca
non vedo lei che soffre, lei che sente
sulla pelle l’ignara indifferenza
del mio sguardo, il rifiuto dei miei sensi,
e io che all’altra chiedo di guardarmi,
non so, guardando nei suoi occhi, il giorno,
leggere i desideri della notte,
ah sì! m’accenderei forse, bruciando
per quest’altra più forte di come ora
brucio per lei che mi rifiuta, e forse
inferiore costei mi sembrerebbe
alla mia sofferenza, mentre l’altra,
che sta nascosta, e che in silenzio soffre
l’umiliazione d’essere respinta,
l’altra, sì, l’altra, finalmente, intere
al desiderio m’offrirebbe le ore
della notte. - Ma è questa la mia notte!
Perché, ditemi, chi può comandare
ai sensi? Io non soffro per chi m’ama,
soffro per chi non m’ama. E come posso
dunque pensare che inferiore scorga
alla mia sofferenza quella che ora
mi fa soffrire? - Ma che cosa voglio
io da lei? e, perché, da lei negato
ciò che voglio, ne soffro? Vero amore
farebbe amare ciò che ama l’amata,
e non amare ciò che lei non ama. -
Essere amati è bello, ma grandezza,
anche se non amati, amare. - Forse. -
Mi si spacca il cervello. Sento freddo.
La notte mi raggela ciò che il giorno
m’infuoca. Eppure, dentro il gelo, brucia
il fuoco d’una febbre che i pensieri
mi fa rabbrividire nella mente.
Una parte di me non vuole quello
che vuole l’altra parte. Devo andare
fino in fondo. Capire fino in fondo. -
Non è ancora la notte tutta intera
trascorsa. E non ancora si rischiara
sopra le onde del mare l’orizzonte.
Posso ancora aspettarti. Forse arrivi
quando tutte mi sembrano cadute,
per sempre, le speranze di vederti.
E anche se non vieni, questa notte,
verrai, forse, domani. O, chi sa, dopo,
una notte che non t’aspetto, e tutto,
fino a quel punto, sarà stato il tempo
dell’attenderti come il predisporsi
al canto della voce, come l’ora
vuota senza parole che prepara
il sillabarsi dei pensieri, o come,
prima di cominciare il canto, l’ansia
di mancarlo che soffoca il respiro.
Ma tutto questo tempo poi trascorso,
e tutto senza te trascorso, è nulla,
io non potrò mai più di te colmarlo,
sarà per me, per te, per noi perduto,
e perduto per sempre. Il desiderio,
che di te mi divora, non è, credo,
possederti: mi disprezzassi, giusto
sarebbe il tuo disprezzo. No, non voglio
il tuo possesso: è ancora troppo poco.
Voglio il tuo cuore. Non ti chiedo quello
che non vuoi darmi, ma ti chiedo quello
che solo posso chiederti: di darmi
tu stessa quello che ti chiedo. Troppo,
ti sembra? E’ poco. Tutta, o cara, quando
vieni, ti voglio: e tutt’avrai me stessa.
Tutta in quell’ora. Dimenticheremo
il tempo dell’attesa. Non avremo
altro tempo che l’ora dell’incontro.
Saremo entrambe il tempo di quell’ora,
l’una per l’altra l’essere indiviso,
immobile, del flusso che c’ingoia.
E fuori di quel punto, entrambe nulla.
Ogni prima soppresso, nessun dopo
oltre quel punto scorre nella mente,
se l’essere che annoda le parole
alle cose ci stringe nel silenzio. -
Ma tu non vieni! E tutto questo è stato
un sogno. - Lo sospendo. Per guardare,
una per una, le lunghe ore vuote
di quest’attesa ormai precipitarsi
al deserto dell’alba. Per guardare,
dentro me stessa, dentro il mio delirio,
la mia paura. Io non finisco all’alba
il sogno che sospendo. Lo ripeto
ogni notte, ogni notte lo ripeto
uguale. Una paura lo sospende:
ma, sospeso, si vendica, e ne resta
una scheggia incompleta, e questa scheggia
si ripete ogni notte, si ripete
incompleta ogni notte, come ruota
che gira sempre nello stesso solco. -
Invecchio. Il desiderio resta indietro
alla corsa degli anni. La mia mente
è ancora di bambina. Ma gli dei
non diedero al mio corpo questa stessa
eterna fanciullezza. Se mi guardo
allo specchio, capisco il tuo rifiuto.
Ma non capisco il cuore. Non capisco
il tuo, non capisco il mio. Cedo
alla condanna senz’appello. Cedo
alla fuga dei giorni, al declinare
dei sorrisi, allo spegnersi degli occhi,
quando guardo. Nessuna che m’inviti,
se prima non la invito. Chiusa in questa
stanza, su questo letto, invoco invano
un corpo, inascoltata chiedo un cuore.
Muore giovane, chi è caro agli dei.
Verrà quel giorno anche per me. Paura
non ho di abbandonare questo mondo,
di non vedere più la luce. Cara
mi fu, mentre la vissi, la mia vita.
Ora la guardo. Ora comincio a uscirne.
E voglio uscirne non come vi entrai,
senza coscienza. L’ultimo commiato,
voglio vederlo. E udire intorno solo
il mio rantolo. Senza pianti, senza
grida di donne. Uscirne sola, come
la vissi. Sola con me stessa: senza
altre parole che le mie. Morire
col canto sulla bocca. Il solo sogno
che non sospesi mai, che ancora dura. -
Entra, nella stanza, la luce dell’alba.
FINE
Venezia, 8 agosto 1993 - Salisburgo, 16 agosto 1993.
Revisioni:
Roma, 12 ottobre 1993.
Venezia, 12 marzo 2003.
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