Massimiliano Felli,
De Peccatis Nostris, dall’omega all’alfa: l’ultima indagine
del Commissario Cafasso, Napoli,
Stamperia del Valentino, “Giallo Valentino” V, 2017, pagg. 224, €
16,00
Il
romanzo chiude la tetralogia dedicata al Commissario Aniello
Cafasso. E ne tira le fila.
Una sorta di postfazione, dal titolo Il principe velato, un
congedo dell’Autore, ne
chiarisce il percorso. Quasi quattro secoli di storia napoletana –
e italiana – dall’uxoricidio del Principe di Venosa a un delitto
di camorra del 2021, ci strisciano sotto gli occhi, e con essi ci
assalgono confitti terribili,
efferati, c’inorridiscono
crimini impuniti, che sembrano destini a non finire, se il
fantascientifico
2021 di questa postfazione,
scritta
nel 2017, prende il senso,
più che di un giudizio, di una constatazione. O
piuttosto, di una coazione a
ripetersi delle più ignobili, ma costanti, nefandezze della storia
patria. Il nucleo centrale del racconto ruota, infatti,
intorno alla cosiddetta Rivoluzione Napoletana del 1799 e
al suo fallimento, alla sua ignobile, sanguinosissima
repressione: e poi c’è
ancora chi tuona per l’attività della ghigliottina durante la
Rivoluzione Francese, si istituivano almeno regolari processi, prima.
Perfino un conservatore come Benedetto Croce, infatti,
chiamato in soccorso negli esergo iniziali
del romanzo, dichiara
che “mai come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla
morte /.../ tutto il fiore intellettuale e morale del paese”. Non
diversamente da oggi, sembra sottintendere il
narratore. Forse con minore
esibizione pubblica del crimine cruento, ma con identica ferocia e
determinatezza. Tutti e quattro i “gialli” si rivelano, a lettura
completata
dell’ultimo, una interpretazione
al nero della nostra storia, e
i romanzi, più che galli si rivelano “noir” assai foschi.
I nomi, i fatti, di crimini, stragi e misfatti di oggi o di poco
addietro non sono né detti né narrati, ma il lettore non fa fatica
a leggere negli orrori della repressione della Rivoluzione Napoletana
altri orrori della storia più recente, e mica è detto che
oggi ciò avvenga senza la
responsabilità di qualche “monarca”. La struttura narrativa è
più complessa, spezzata, articolata, che nei romanzi precedenti. C’è
il manoscritto di un diario, che si suppone scritto da Cafasso, che
appare e dispare e poi ricompare, costituisce
una sorta di filo rosso della narrazione.
C’è la scansione quasi teatrale, anzi tragica, da teatro greco,
del racconto: un Prologo,
che si svolge nel 1590, l’anno in cui Carlo Gesualdo, Principe
di
Venosa uccise sua moglie Maria D’Avalos e l’amante Fabrizio
Carafa, una cappella
sorge a memoria degli uccisi. C’è
una Parodo, nel 1751,
quando Raimondo
di Sangro, Principe di San Severo fa completare, dall’antica,
la sua Cappella. A Santa
Maria della Pietà, che i napoletani chiamano
Pietatella, poco lontano da
San Domenico Maggiore, dove accanto c’era il palazzo di Gesualdo.
Sono luoghi della Napoli
rinascimentale e barocca bellissimi. Proprio
a Spaccanapoli, il cuore della città, dove poi ci abitava anche
Bendedetto Croce e da lui prende il nome la via. Poi
abbiamo
un Primo Episodio,
anni 1798-1799, il Primo Stasimo,
primavera del 1799, il Secondo Episodio, sempre nel 1799, seguito dal
Secondo Stasimo, un
Terzo Episodio, al
quale segue, di rito, un Terzo Stasimo,
e l’Esodo nel 2021,
e infine a conclusione, Il Principe Velato,
di cui si diceva, il congedo dell’Autore.
La lingua appare meno mescolata tra
i livelli alti e bassi della lingua letteraria, quella parlata e
quella popolare, che negli
altri tre, la sfera della parlata napoletana appare
più nettamente separata
dall’italiano toscaneggiante della narrazione, che per lo più si
finge autografa del Commissario, e come stesa da un immaginario
esercizio di stile da parte
di qualche allievo della
scuola di Basilio Puoti. Il maestro di Francesco De Sanctis. Alcune
pagine restano profondamente
impresse nella memoria, come quella dell’impiccagione di Mario
Pagano, nel Terzo
Episodio. Anzi,
quell’esecuzione sembra la chiave interpretativa non solo della
storia napoletana, come fu, ma della storia d’Italia tutta intera.
Pagano, sul fallimento di
quella rivoluzione, sembra intessere le riflessioni che saranno di
Vincenzo Cuoco: “Con
i nostri proclami, le nostre leggi, e in ogni articolo, ogni rigo,
ogni parola della Costituzione che abbiamo promulgato, noi
intendevamo parlare al popolo. Ma quale? Il popolo! Quale popolo? Non
certo quello napoletano, non la plebe stracciona e fannullona che
ogni giorno intravedevamo da sotto al mantice delle nostre carrozze.
Le nostre concioni, degne dell’eloquenza di un Demostene, d’un
Cicerone, si rivolgevano a una folla puramente ideale; ci pareva,
come in sogno, di arringare la Boulè
di Atene, di essere novelli Gracchi, la cui voce tuona principi
d’equità e giustizia sociale dal palco tribunizio … Quanto
m’ingannavo, quanto noi tutti c’ingannavamo! Me ne rendo conto
solo adesso. Tardi, tardi! … Un sognatore invecchiato è più
ridicolo di un eroe sopravvissuto alle proprie gesta”. A
queste parole fanno eco, nel Terzo Stasimo,
gli insulti della folla che lo vede salire al patibolo: “Tè,
Napuliò, sient’a ‘sta pummarola, è ‘na pret’ ‘e
zucchero!” dice un “guaglione” che gli scaglia addosso un
pomodoro marcio. La diffidenza per la storia circola in ogni rigo, se
lo stesso Cafasso, nel suo diario, può annotare: “Ohibò, risponde
l’anonimo compilatore delle presenti pagine, se ormai qui a Napoli
nulla sembra avere più senso, perché pretenderlo da un povero
quadernetto?” E allora, sembra dirci il narratore, quale senso
anche nella “mia” storia? Lo si intuiva anche nei romanzi
precedenti. Il delitto nasce spesso senza ragioni, e la sua punizione
non impedisce altri delitti. C’è poi un delitto più grande,
un’ingiustizia secolare, forse millenaria, che affligge tutti gl
uomini, da parte di tutti gli uomini su tutti gli altri uomini,
un’ingiustizia impunita, della quale anzi si stenterebbe a trovare
il vero colpevole. Perché poi sta qui il busillis della storia, di
ogni vicenda, che il vero colpevole è sempre un altro, che la
Verità, una volta che si è creduto di afferrarla, la si scopre poi
altrove, e così via. E allora, chi sa, come diceva Lessing, o lo
Schopenhauer, citato verso la fine del racconto, non è la Verità
che conta, il trovarla, bensì il cercarla, e scrivere potrebbe
essere la via di questa ricerca. L’episodio di Leopardi che si
gusta un sorbetto in una famosa gelateria di Napoli, nella
Carrozza di Priapo, il
terzo romanzo della tetralogia, e
che lui stesso svela agli avventori i numeri della smorfia per la
propria gobba, numeri che poi non escono, può essere una chiave di
lettura per tutti e quattro i romanzi. La scrittura svela molti
segreti, ma non l’ultimo, non quello che spiega
quanto accade. Quando Cafasso
incontra nel carcere
Pagano, prima
dell’esecuzione, osserva
che “… i suoi occhi salivano all’immensità di quel Cielo che
neppure il peggior miscredente, in punto di morte, ha tanta forza da
insistere nel considerarlo disabitato”. Ma nemmeno potranno
dubitare dell’indifferenza, della dura e assoluta indifferenza, con
cui la
storia guarda ogni sua vittima, o più semplicemente, ogni individuo,
che lui sì, la abita. Ma con
che stile si racconta la mancanza di senso della storia, anzi di
qualunque storia? E’ qui che la lettura del romanzo di Felli si fa
stimolante. Un lungo, quanto vacuo dibattito letterario discute da
qualche tempo in Italia se lo
stile del romanzo moderno debba
essere paratattico o
richieda. Invece,
una costruzione sintattica complessa, che preveda anche frasi
subordinate, periodi dalla costruzione intricata. E’ una questione
mal posta. Come se lo stile
“moderno” debba ubbidire a una prescrizione. La
lingua moderna è moderna
proprio per la sua libertà: prevede
sia la paratassi sia
una costruzione più articolata. Ed è esattamente quello che fa
Massimiliano Felli. La struttura portante è generalmente
paratattica, ma non sono evitate costruzioni d’intricata
complessità. La varietà lessicale degli altri tre romanzi è qui
sacrificata a una ricostruzione dell’italiano medio parlato
e scritto dall’italiano
medio, ma anche
aristocratico, del primo
Ottocento. In questa lingua è
scritto il diario di Cafasso,
una lingua molto
ipotetica e fantasiosa, per fortuna, proprio perché si
tratta di
un’invenzione di scrittura
e non della piatta
imitazione di una scrittura già
sperimentata nel passato . Il
dialetto è per lo più riservato ai dialoghi, quando intervengono
figure popolari. Ma, come
spesso gli aristocratici,
parla napoletano anche Re Ferdinando: “Comm ‘e vieste ‘e
vieste, fujeno sempe”. Ma non mancano termini dialettali anche nel
suo
volgare, per esempio quando
nomina i “caciocavalli” a
figurare gli impiccati. Insomma, si riconferma, anche
in questo quarto romanzo, la
varietà stilistica della prosa narrativa, l’uso del dialetto non
già come pennellata di colore locale, bensì come elemento
strutturale della lingua, come recipiente
comune della vulgata italiana, in
ciò non diversa a Napoli che a Roma, a Torino o a Milano, dovunque
una mescolanza di toscano e di parlata locale.
Il dettato che ne risulta è una lingua variegatissima e
musicalissima. Del resto, anche nelle pagine che apparentemente
appaiono scritte nel più puro italiano letterario, a volerle leggere
con inflessione partenopea se ne coglierebbe lo spirito. Lo denuncia
la costruzione sintattica, per esempio gli anacoluti, l’anticipazione
dell’oggetto, e altre figure della parlata napoletana, senza però
che con questo la lingua narrativa cessi di essere lingua italiana.
L’esempio che mi viene in mente per
un confronto, di
un’operazione simile, è l’Adalgisa
di Gadda, in cui la parlata milanese è assorbita nel dettato
italiano del racconto. Proprio quest’abile costruzione della lingua
del racconto, anzi, fa superare al romanzo i limite del genere, pur
rispettandone le regole. E’ insomma la scrittura a rendere il
romanzo giallo un romanzo e basta,
senza però che per questo cessi di essere un racconto poliziesco. Il
confronto che mi viene più naturale sono i film di Hitchcock:
certamente film polizieschi, ma la cui struttura narrativa e la
cui cura dell’immagine, dei
dialoghi, della recitazione, il cui uso sbalorditivo della macchina
da presa, li rendi esteticamente film di altissimo livello, non
contro le regole del genere, ma innalzando il genere a elaborazione
alta, consapevole, tipica di ogni opera che voglia porsi come esempio
individuale di elaborazione narrativa, drammatica, poetica.
Non ultima gratificazione regalata dalla lettura di questo romanzo è
la restituzione, vivissima, indimenticabile,
di un momento decisivo della
nostra storia nazionale. Il fallimento della Rivoluzione Napoletana
del 1799 ci si rivela come un sottotesto, o
piuttosto una struttura
permanente di tutta la nostra storia, ne spiega i tentativi sempre
abortiti di rinnovamento del paese. Vengono
in mente le pagine finali del Barone rampante
di Calvino, anche lì si parla di una rivoluzione fallita. Forse,
ancora oggi, noi italiani, restiamo bloccati a quel fallimento di una
rivoluzione che avrebbe dovuto cambiarci, al
fallimento di qualunque rivoluzione si tenti di scatenare nel nostro
paese. Sarebbe successo,
infatti,
di nuovo a Roma nel 1849. E senza
volere offendere la memoria
di nessuno, anche perché personalmente me ne sento troppo
coinvolto, ma forse dovremmo
interpretare come fallita anche la Resistenza, e ancora
inattuata la scrittura della
nostra Costituzione repubblicana, anch’esse volontà di una
minoranza e non di tutto un popolo. Spero proprio di no, ma i momenti
che viviamo sono tremendamente bui. E mi spaventa, mi spaventa da
morire, che, se ci si
riflette, l’unica
rivoluzione riuscita della nostra storia sia stata,
probabilmente, quella
fascista del 1922. Questo
romanzo vorrei interpretarlo come uno scongiuro, come un atto di
scaramanzia. In fondo, Cafasso se lo augura: la morte di Mario
Pagano, il suo sacrificio, devono condurre a una società migliore. O
saremo condannati a restare per sempre, sconfitti, dannati, ai
margini delle bocche dell’Averno. Dalle quali nessun Virgilio –
leggi: nessun poeta – potrà salvarci.
Fiano
Romano, 19 novembre 2017
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