TEATRO DELL’OPERA DI ROMA. SERATA INAUGURALE DELLA STAGIONE 2017 –
2018: LA DAMNATION DE FAUST (la dannazione di Faust), légende
dramatique en quatre parties (leggenda drammatica in quattro parti),
testo di Hector Berlioz, Almire Gandonnière, Gérard de Nerval, dal
Faust di Johann Wolfgang Goethe, musica di Hector Berlioz
Direttore Daniele Gatti
Regia Damiano Michieletto
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Rocafilm
Movimenti mimici Chiara Vecchi
Faust Pavel Černoch
Méphistophélès Alex
Esposito
Marguerite Veronica Simeoni
Brander Goran Jurić
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, con la
partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera
di Roma
Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro
Regio di Torino e il Palau de Les Arts Reina Sofía
di Valencia
Prima rappresentazione, 12 dicembre 2017
Repliche: 14, 17, 19, 21, 23 dicembre 2017.
Hé bien! Règnez, cruel; contentez votre gloire:
Je ne dispute plus. J’attendais, pour vous croire,
Que cette même bouche , après mille
serments
D’un amour qui devait unir tous nos moments ,
Cette bouche , à
mes yeux s’avouant infidèle ,
M’ordonnât elle-même une absence éternelle.
Moi-même j’ai voulu vous entendre en ce lieu.
Je n’écoute plus rien ; et pour jamais, adieu.
Pour jamais ! Ah ! Seigneur ,
songez-vous en vous-même
Combien ce mot cruel est affreux quand on aime ?
Dans un mois , dans un an, comment souffrirons-nous,
Seigneur ; que tant de mers me séparent de vous ?
Que le jour recommence et que le jour finisse,
Sans que jamais Titus puisse voir Bérénice ,
Sans que de tout le jour je puisse voir Titus !
Mais quelle est mon erreur, et que de soins perdus !
(E sia! Regnate, crudele; accontentate la vostra gloria:
Non ne discuto più. Aspettavo, per credervi,
Che questa stessa bocca, dopo mille giuramenti
D’un amore che avrebbe dovuto unire tutti i nostri momenti,
Questa bocca, confessandosi ai miei occhi infedele,
M’ordinasse essa stessa un’assenza perenne.
Io in persona ho voluto ascoltarvi in questo luogo.
Non ascolto più niente; e per sempre, addio.
Per sempre? Ah! Signore, ci pensate dentro di voi
Come questa parola crudele è orribile se si ama?
Tra un mese, tra un anno, come sopporteremo,
Signore, che così tanti mari mi separino da voi?
Che il giorno ricominci e che il giorno finisca,
Senza che mai Tito possa vedere Berenice,
Senza che per tutto il giorno io possa vedere Tito!
Ma che sbaglio è il mio, e quanti pensieri perduti!)
E’ la lunga tirata di Berenice a Tito, nella
stupenda tragedia di Racine che dal nome della regina di Bitinia
prende il suo titolo,
Bérénice.
Ma veramente la regina di Bitinia, accomiatandosi da colui che
sarebbe diventato l’Imperatore dei Romani, gli avrebbe parlato
così? Gli avrebbe dato del voi? l’avrebbe chiamato Signore? I
Romani, quando si rivolgevano a qualcuno, conoscevano un solo pronome
di seconda persona: il tu. Il voi comparirà più tardi, a Bisanzio,
e in Occidente
alla corte di Carlo Magno. Ma la Berenice raciniana non
è che per finzione teatrale la regina di
Bitinia, in realtà è una gran dama della
Corte di
Versailles. Il teatro è sempre stato teatro contemporaneo, e ha
sempre alluso, dietro maschere antiche, all’oggi. Quando, sei
anni dopo, nel 1676, Lully compone l’Atys,
su uno splendido
testo di Quinault, tutta la corte vi
riconosce le vicende del Re Sole e della Montespan. Non diversamente,
Handel, nella Semele,
allude agli adulteri della corte londinese. In una bella messa in
scena del Festival d’Aix-en-Provence, Robert Carsen disegna il
personaggio di Giunone sul modello di Elisabetta II d’Inghilterra,
facendole portare perfino
le grandi borse criticate dagli snob. Giunone appare
la prima volta che legge un giornale dove,
in caratteri cubitali,
si vede scritto:
“E’ ormai
ufficiale! Semele è l’amante di Giove”. Ricostruisce
in chiave moderna le allusioni del testo,
altrimenti incomprensibili al pubblico di oggi, dopo tre secoli dalle
vicende e dai pettegolezzi a cui allude l’oratorio. Teseo,
nell’Edipo
a Colono
di Sofocle, afferma che, prima di prendere una decisione così
gravida di conseguenze per la città, come quella di accogliere
Edipo, deve consultare l’Assemblea. Ora l’Assemblea era
un’istituzione dell’Atene democratica, non certo dell’Atene
arcaica, e tanto meno dell’Atene del mito. Questa forse troppo
lunga premessa per dire che anacronismi, allusioni all’oggi
appartengono al teatro di ogni tempo. Per la ragione semplicissima
che il teatro è sempre teatro contemporaneo. Goethe, quando allestì
a Weimar la prima messa in scena moderna dell’Amleto in Germania,
impersonando lui
stesso il ruolo del principe danese, non solo disegnò scene moderne
e fece vestire ai personaggi gli abiti del tempo, ma addirittura
tagliò alcune scene e ne introdusse altre nuove scritte di suo
pugno. Non si comporterà molto diversamente,due
secoli dopo, Laurence Olivier quando
traspose in un film la tragedia di Shakespeare. E anzi, la lettura
psicanalitica del personaggio fu evidenziata dalla visione di un
cervello in primo piano sullo schermo, proprio durante la dizione del
celebre monologo “to be or not to be”. La colonna sonora in quel
momento simulava un battito cardiaco. Ma veniamo, allora, a questa
Dannazione di Faust che
ha inaugurato la stagione 2017-2018 del Teatro dell’Opera di Roma.
Il grande successo dello spettacolo e degli interpreti richiede
alcune precisazioni. Siccome è stato detto, alla radio, che a “gran
parte” del pubblico la regia di Michieletto non è piaciuta, è il
caso di rettificare che solo una parte, e modesta, del pubblico, ha
dissentito con sonori buu.
Ma questa piccola “gran parte” è stata subito subissata e
zittita dalla vera “gran parte” del pubblico al quale invece lo
spettacolo è piaciuto. Segno che ormai il teatro moderno è capito e
gradito anche da “gran parte” del pubblico italiano. C’è
infatti chi, sempre alla radio, ha obiettato che lo spettacolo era di
difficile comprensione, aveva perciò bisogno di essere interpretato,
bisognava fare uno sforzo per capirlo (sic!). La musica e la scena,
infatti, s’è detto,
sembrerebbero parlare di cose diverse. Il solito discorso. Ma perché,
regia a parte, l’Amleto
di Shakespeare si capisce subito? E il Tristano
è un dramma d’immediata comprensione? La Kovanščina
di Musorgskij è subito capita anche da chi
non sa niente della storia della Russia e della politica di Pietro il
Grande? Sembrerà strano, ma fin dalla sua nascita, il teatro ha
richiesto dal pubblico la cultura giusta per essere capito, sia che
questa cultura fosse frutto di studio sia che fosse, più
spesso, invece, la cultura della società
in cui la rappresentazione si realizzava. Avete mai letto il primo
coro dell’Agamennone
di Eschilo? Vi sembra un testo d’immediata comprensione, se non si
è greci dell’Atene classica e non si sappia chi sia Zeus, anzi che
cosa sia per Eschilo Zeus, che cosa sia la Dike, che cosa la
speculazione teologica e filosofica di allora sul diritto del singolo
e della comunità? O La vida es sueño
di Calderón de la Barca si capisce subito
senza conoscere la discussione teologica
sulla predestinazione nella Spagna del ‘600? Gli esempi potrebbero
continuare. Un po’ di umiltà,
per favore, non usurpate il posto e il
ruolo dell’autore. Che ne sapete di lui? Viene a proposito un
aforisma schumanniano già da me citato altre volte: “Il filisteo
vorrebbe capire in un attimo ciò che all’artista è costato
giorni, mesi, forse anni di faticoso lavoro”. E, piaccia o no a
tutti, anche un regista è un artista, ogni teatrante lo è, e anche
lui pensa, lavora, con durezza, con fatica. Dunque, prima di
esternare il vostro dissenso dal suo lavoro, non domandatevi se vi è
piaciuto o no, bensì cercate di capire (eh sì!) che cosa abbia
voluto dirvi. Mi soccorre un altro aforisma, da me citatissimo, di
Schumann: “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se al mondo
non ci fosse niente altro di più importante da fare che piacere alla
gente”. Cambiamo arte. Guardiamo un quadro. Per esempio,
L’Annunciazione di Leonardo. La Madonna vi sembra una signora ebrea
del primo secolo a. C.? E l’angelo, un essere sovrannaturale? Sono
una gran dama fiorentina del Rinascimento e un bel giovane zazzeruto,
di quelli che probabilmente piacevano a Leonardo. Già: perché nel
quadro c’è anche questo. Insomma, il realismo e la congruità
della rappresentazione con l’evento rappresentato è un’esigenza
che non spunta fuori prima del Naturalismo ottocentesco. Ma anche lì,
a teatro si sono prese tutte le libertà che servivano. Se guardiamo
le foto di spettacoli tra Otto e Novecento, pettinature, trucco del
viso, denunciano l’epoca in cui si realizzano e non eventuali
cavalieri della Tavola Rotonda. Anzi, ci appaiono addirittura
ridicoli, proprio perché si sforzano di sembrare ciò che non
riescono a raffigurare. Quanto alla Damnation
de Faust di
Berlioz, è una partitura che già
allora parve d’avanguardia. E come far capire al pubblico di oggi,
magari digiuno di cognizioni storiche ed estetiche, l’avanguardia
di ieri, se non travestendola da avanguardia di oggi? I ballabili
della Traviata
non sono danze svenevoli e romantiche, come
farebbero pensare troppe vaporose rappresentazioni, ma
veri ballabili, e i galop sono più numerosi dei valzer. Come a dire:
il rock di allora. L’operazione di Verdi, infatti, disorientò una
parte dei suoi contemporanei. Ma perché Berlioz, quasi un decennio
prima della Traviata,
affronta un personaggio così emblematico, e dalle molteplici facce,
già allora, come Faust? Faust, come Edipo,
Amleto, Don Chisciotte, Don Giovanni, è personaggio che ci appare
quasi autonomo dai poeti che l’hanno immaginato, Marlowe e Goethe,
quasi fosse una figura storica, un individuo in carne ed ossa. Ciò
avviene perché in lui, come negli altri personaggi, c’è una parte
di ciascuno di noi: la ricerca di un senso della vita. Il diavolo, in
questa ricerca, assume un ruolo determinante. Vittorio Mathieu ha
scritto un saggio imprescindibile, al riguardo: Goethe
e il suo diavolo custode (Adelphi,
2002). Nella tradizione medievale, e poi rinascimentale e barocca, il
diavolo è un personaggio comico. Seduttore delle donne, come incubo,
e degli uomini, come succubo. Michieletto prende questa tradizione
alla lettera. Coloro che hanno contestato lo spettacolo - pochi, a
dire il vero e, come si è detto,
subito zittiti dalla maggioranza del pubblico, che invece ha
decretato un trionfo a tutti gli interpreti - se ne facciano una
ragione, e si studino un po’ di storia del teatro. La “leggenda”
di Berlioz, che utilizza, liberissimamente, la già libera versione
francese che Gérard de Nerval trae dalla tragedia di Goethe (il
quale, a sua volta, aveva reinventato Marlowe), riscrive le peripezie
di Faust, e a differenza di Goethe, come aveva
fatto Marlowe, lo danna. Di questa
dannazione il diavolo è lo strumento insieme ironico e perversamente
consapevole. Ed è qui che Michieletto costruisce il suo spettacolo.
Il mondo che devasta e perde Faust è celato dentro Faust stesso, è
un mondo immaginario, una costruzione del diavolo. Margherita è un
sogno, a baciare Faust non è la sua bocca, ma quella del diavolo
“succubo”. Che poi, però, quando i due
si baciano davvero, inserisce, tra
la bocca di Faust e quella di Margherita,
una mela. L’atto d’amore ripete, ogni
volta, il peccato originale. Tutta la
vicenda assume una connotazione di sofferenza reale, la
visione, il sogno, possono essere immaginazione inesistente, ma la
sofferenza che infliggono è vera sofferenza:
è la
disperazione per il fallimento della propria vita, per le perdite
immedicabili, del padre, della madre, dell’infanzia felice,
dell’adolescenza infelice, sbeffeggiata e usurpata dai bulli, che
registrano con i cellulari le prevaricazioni inflitte a Faust
ragazzo. Ma poco importano la felicità e
l’infelicità di ciò che s’è perduto, importa invece
l’irrecuperabile perdita, lo stesso dolore si fa nuovo dolore nella
perdita. Le scene geometriche, luminose, di Paolo Fantin. i costumi
semplici, ma fantasiosi (la coda serpentina del diavolo!) di Carla
Teti, i video, le luci, i figuranti e mimi, sono perfetti. Alla
bellezza dello spettacolo corrisponde l’intelligenza e la
penetrazione musicale di Daniele Gatti, l’adesione sulfurea, ma
anche struggente, della musica alla scena: indimenticabile la
galoppata verso l’abisso. Colpisce poi e affascina l’immediatezza
della recitazione, l’adeguamento al personaggio di ciascuno degli
interpreti: il giovane, avvenente ma
spaesato Faust di Pavel Černoch,
bravissimo nel moltiplicare le facce del
suo personaggio; l'imprevedibile,
duttilissimo Mefistofele di Alex Esposito, un diavolo mercuriale,
onnipresente e onnipenetrante;
l'intensità mimica e musicale di Veronica Simeoni, Margherita,
fanciulla innamorata e donna disperata.
Un vero giullare, poi, divertentissimo,
il Brander di Goran Jurić.
L'orchestra, il coro di diavoli e di angeli (sono la stessa cosa),
onnipresente sugli spalti di un terrestrissimo inferno, completano
magnificamente uno spettacolo imperdibile.
Dino Villatico
Roma, 13 dicembre 2017
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