mercoledì 27 dicembre 2017

Roma, Museo Bilotti, concerto del pianista Axel Trolese




Roma
Martedì 26 dicembre ore 12.00.  Museo Carlo Bilotti
Roma Tre Orchestra

Concerto del pianista Axel Trolese
W. A. Mozart: Sonata n. 11 in la maggiore K 331
M. Clementi: Sonata in sol maggiore "Didone Abbandonata" op. 50 n. 3
W. A. Mozart: Sonata n. 12 in fa maggiore K 332
L. v. Beethoven: Sonata n. 28 in la maggiore op. 101

Axel Trolese, pianista appena ventenne, ha recentemente pubblicato un cd in cui, con straordinaria maturità, intelligenza e sensibilità, interpreta gli Studi di Debussy (The Late Debussy, Etudes & Epigraphes Antiques. Movimento Classical MVC 001/16). Ora si presenta al pubblico romano con un concerto interamente dedicato al pianoforte del periodo cosiddetto classico, quello cioè che va da Haydn a Beethoven. Il concerto è organizzato da Roma Tre Orchestra. La sala del Museo Carlo Bilotti, dove il pianista ha suonato, non è la più adatta per un concerto: l’acustica risente di un eccessivo riverbero del suono. E lo strumento, inoltre, non era il meglio che si potesse desiderare. Ma predisponevano bene i quadri metafisici ridipinti da Giorgio De Chirico negli anni ‘60. Proprio poco prima del pianoforte, sulla sinistra, l’intensa tela di Mistero e malinconia di una strada e ragazza col cerchio. La rappresentazione sembra bloccata, l’astratto prende forma di oggetti concreti. L’attenzione alla costruzione formale, così evidente, quasi programmatica, nei quadri di De Chirico predisponeva, dunque, bene alla percezione dell’analoga evidenza costruttiva della sonata classica. Per ironia la prima sonata affrontata da Trolese, la Sonata in la maggiore K. 331 di Mozart, non ha nessun tempo in forma sonata. Il primo tempo è, infatti, un Andante con sei variazioni. Il secondo un minuetto. Il terzo è la famosa, forse addirittura famigerata, Marcia alla Turca. E tuttavia Mozart la chiama Sonata. Perché è una sonata. Solo l’accademismo ottocentesco, quando la forma classica non è più capita, poteva restringere questa forma all’esposizione, contrasto ed elaborazione di due temi. Haydn scrive tempi di sonata, di quartetto, di sinfonia con un solo tema. Beethoven si sforza spesso di derivare i temi da un’unica idea. Talora con evidenza stupefacente, come nell’Ouverture Coriolano e nella Quinta Sinfonia. Altre volte variandone l’aspetto, come nell’Appassionata, op. 57, in cui il secondo tema è l’inversione del primo (ma il modello gli viene da una tarda sonata di Haydn, in do maggiore). Il punto nodale sta proprio nella variazione: già con Haydn procedimento cardine della sonata. Mozart ne segue l’esempio. Ma fa di più. Anche la costruzione del minuetto disegna una sorta di microsonata. Abbiamo un’esposizione che si ripete, una specie di sviluppo alla dominante e una riesposizione del tema, che anch’essi si ripetono. Tutto in poche battute. Poi arriva la Marcia, un rondò, nel quale il terzo episodio funziona quasi da trio e divide tutta la marcia in tre sezioni, A B A, che si concludono con una coda. A essere precisi, anche A è diviso in A B, la forma così assume un carattere circolare del tipo A B C A B, coda. Non è un vero e proprio rondò sonata, perché Mozart evita di ripetere il tema prima dell’episodio che funziona qui da trio, ma che altre volte p un’elaborazione vera e propria del tema iniziale. Lo fa proprio per evitare un’allusione esplicita alla forma sonata, che invece è allusa per vie traverse, per omissione, direi, di una forma esplicita di sonata. Mi sono dilungato nella descrizione della sonata perché Trolese è apparso attentissimo alla scansione dei diversi momenti della complessa e abile costruzione formale. Attento anche ai contrasti tra le sezioni, e all’interno di ciascuna di esse. Splendido per delicatezza e fluidità, il minuetto. Soprattutto il trio, misterioso, sussurrante. Siamo nel 1783, la sonata, insieme ad altre due, K. 330 e K. 332, fu pubblicata nel 1784 come op. 6. Con la Sonata in sol minore op. 50 n. 3 di Muzio Clementi saltiamo al 1821. In quarant’anni il mondo musicale è cambiato. Si sentivano già i primi rumori del romanticismo e Beethoven stava lavorando alle sue ultime avveniristiche composizioni, proprio in opposizione alle nuove idee formali emergenti e che avrebbero dominato un intero secolo. Per contrasto o ironia, saranno proprio le intuizioni del tardo Beethoven a incrinare il tardo romanticismo e a preparare le avanguardie del Novvecento. Non a caso sia Schoenberg sia Bartók scriveranno i loro primi quartetti sul modello di due tra gli ultimi quartetti di Beethoven, Bartók l’op. 130, Schoenberg l’op. 131. Ma Beethoven comincia assai prima di Clementi: la Sonata op. 101, che concluderà il concerto di Trolese, fu composta tra il 1815 e il 1816. Clementi, tuttavia, non è Beethoven, e nemmeno Mozart. Ha in qualche modo inventato il pianoforte moderno, buttandosi anche nella costruzione di pianoforti, in Inghilterra, quelli preferiti da Beethoven, a differenza di Mozart che preferiva i pianoforti viennesi. Ma non ha inventato la costruzione moderna della musica strumentale. Sia Haydn, sia Mozart, sono assai più moderni di lui. La musica di Clementi è scritta molto bene, è sempre chiara, intelligente, godibilissima. Arriva ad intuire abissi, nei quali però non si butta. Resta sempre un centimetro prima del ciglio oltre il quale c’è lo strapiombo, guarda giù, ma si tira indietro. Anche in questa sonata tarda. C’era stato il Beethoven della Waldstein e quello irruente dell’Appassionata, c’erano state le sonate di Weber, Schubert non lo conosceva ancora nessuno, o quasi, e quindi non poteva conoscerlo nemmeno Clementi. Ma c’era abbastanza per capire in che direzione si muovesse ormai la musica. C’era, inoltre, il teatro. E c’era Cherubini, al quale tra l’altro la Sonata op. 50 n. 3 è dedicata. Ma Clementi è un prudente amministratore di sé stesso, sia come musicista che come imprenditore. La Sonata in sol minore, che Clementi chiama “Didone abbandonata”, omaggio o citazione che sia, senz’altro allusione, alla Didone abbandonata di Metastasio, di cui sembra volere rispettare l’equilibrio neoclassico, sembra tenere il piede in due staffe: l’ordine classico che in fondo non infrange e le nuove avvisaglie di disordine emotivo che non riescono però a scalfire le proporzioni equilibratissime della costruzione musicale. Il furore, nell’ultimo tempo, è, infatti, più adombrato che realizzato, non è lasciato libero di scatenarsi. Sta qui la prudenza di Clementi: nel fare intravedere uno scatenamento di forze oscure, ingovernabili, insofferenti di limiti, ma di trattenerle poi prima che possano disordinare la pagina. Molti anni prima proprio Mozart aveva, invece, dimostrato come si possa raccontare il furore in una sonata pianistica, ed era nata la Sonata in la minore K. 310. Un furore estremo che miracolosamente non incrina l’equilibrio della pagina. Ma Clementi ne ha paura. Il suo furore è smania teatrale, esibizionismo virtuosistico, più che un reale sprofondamento in abissi inesplorati. Agitazione di teatrante, insomma, più che visionarietà d’artista. Entra nel cerchio del pericolo, ma lo scansa. Il tema con cui è attaccato l’Allegro, ma con espressione è molto bello, ma non se ne traggono le conseguenze radicali che se ne potrebbero aspettare. Con molto meno Beethoven (come si vedrà nell’op. 101) o più tardi Schumann, al quale in più punti la Sonata di Clementi fa pensare, sono capaci di sprofondarti in veri abissi sconosciuti. Clementi guarda il deserto, legge la scritta: “hic sunt leones”, si spaventa e volta le spalle, non li sfida. Peccato. Perché anche così prudente questa Sonata è una bellissima sonata. Ma eccolo poi, subito dopo, nel concerto di Trolese, il démone che non ha paura di niente. La Sonata in fa maggiore K. 332 di Mozart è un inimitabile capolavoro, tanto è vero che poi la successiva Sonata in si bemolle maggiore K. 333, un altro capolavoro, procede per altre strade (Trolese non l’ha suonata). Entrambe le sonate, comunque, a smentire la successiva teorizzazione romantica della sonata, attaccano con un tema fluido, cantabile, che quei teorici chiamerebbero “femminile”, in opposizione al tema deciso, “maschile”, con cui dovrebbe cominciare una sonata. Spesso anche Beethoven, al quale per abitudine, per inerzia, per ignoranza, si suole attribuire quest’impostazione, attacca una sua sonata con un tema cantabile, come fa per esempio nell’op. 101, con cui conclude il suo concerto di Trolese. Ma tutti avranno in mente l’attacco della sinfonia Pastorale: è possibile immaginare un attacco di sinfonia più dolce, suadente, cantabile di quello? Il merito, dunque, e la notevole lucidità, di Trolese, sta nell’avere individuato molto bene i caratteri di queste sonate “classiche”. Un gioco di forze insieme drammatiche e virtuosistiche in Clementi. Un virtuosismo piegato a raccontare l’avvicendarsi di avventure musicali imprevedibili, nella due sonate mozartiane e soprattutto in quella in fa maggiore K. 332. L’irruzione dell’improvviso motivo eroico in minore nello spazio del primo tema (in realtà una successione di più idee musicali) è stato da Trolese giustamente esasperato e messo bene in contrasto con l’aerea ironia dell’idea musicale successiva, il vero “secondo” tema. Questo dimostra quanto Trolese sia attento alla costruzione formale delle musiche che interpreta, e quanto pertanto pieghi il tocco, il fraseggio, il respiro, alla percezione della forma. L’ascoltatore sente svilupparsi nell’ascolto i procedimenti musicali adoperati dal compositore e messi in rilievo dall’interprete. Tutto ciò si fa identità assoluta di forma ed espressione nella stupenda Sonata in la maggiore op. 101 di Beethoven. E’ la prima, delle cinque con cui Beethoven sviluppa un nuovo modo di costruire la sonata. A cominciare dallo straordinario, cantabile primo tempo, una sorta di Lied, o di foglio d’album, al quale certamente avrà pensato Schumann quando tratteggia i suoi originalissimi “fogli” pianistici. Ma il nodo strutturale della sonata sta soprattutto nel profondissimo, intimo, cupo “Langsam und sehnsuchtvoll” (lento e con nostalgia), che Beethoven traduce “Adagio, ma non troppo, con affetto”, intenso pannello che, dopo una breve rievocazione del tema d’apertura della sonata, precede l’esplosione del tempo finale, “Geschwind, doch nicht zu sehr, und mit Entschlossenheit” (veloce, ma non troppo, con risolutezza), tradotto in italiano da Beethoven semplicemente con “allegro”. Il carattere speciale di questo monumentale tempo di sonata sta nel fatto che al centro, in luogo di sviluppo, c’è una fuga. E si comprendono bene, alla luce di questa novità, le nuove misure formali costruite da Beethoven: invenzione ed elaborazione tematica, variante, variazione, contrappunto sono equiparati. s’intrecciano, si confondono, la forma non è più un dato stabile, circoscritto, ma un evento in divenire, solo la sua conclusione fa comprendere il percorso compiuto. La breve rievocazione del tema di apertura prima di tuffarsi nel labirinto finale sta a dimostrare proprio l’unità di questo divenire, lo sviluppo di un’unica idea dall’inizio alla fine. L’analisi musicali riconosce, infatti, nei diversi temi della sonata un’unica cellula generatrice. Eppure sarebbe difficile immaginare una sonata più varia, più multiforme, maggiormente piena di contrasti, di quanto sia questa op. 101. Più delle altre influirà sul pensiero musicale dei romantici, e in particolare di Schumann e di Liszt, anche se i due compositori ne trarranno conseguenze diverse. Trolese, questa continuità, questo pullulare di idee dall’idea di partenza l’ha fatta sentire con sensibile intelligenza musicale. E di questa intelligenza è anche la distribuzione dei piani tonali nel corso del concerto: la sonata K. 331 di Mozart è in la maggiore, la sonata di Clementi in sol minore, la successiva sonata mozartiana, K. 332, in fa maggiore, e infine la sonata di Beethoven torna al la maggiore con cui si era aperto il concerto. Le tonalità sono tutte in stretto contatto tra di loro: la tonica la della prima sonata, in modo minore diventa la tonalità relativa minore di do maggiore, di cui sol è la dominante, che come tonica nel modo minore diventa la tonica della sonata di Clementi, il fa maggiore della successiva sonata mozartiana, fa di nuovo perno sul sol come dominante di do, che a sua volta è dominante di fa, e si ritorna infine al la maggiore, con Beethoven, con il giro armonico inverso con cui da la si era arrivati a sol: fa-do-la. Il cerchio si chiude. Il pubblico applaude. Trolese concede due bis, modernissimi, ma a loro modo due classici del Novecento, tanto per restare in ambito “classico”: il primo degli Studi di Debussy, che rievoca ironicamente Czerny, allievo di Beethoven, come nel Doctor Gradus ad Parnassum del Children’s Corner aveva evocato Clementi, e la Toccata di Ravel. Un concerto che sotto veste di diletto musicale ci ha proposto una riflessione sulla classicità nella musica. Una conferma, infine, e dal vivo, di quanto Axel Trolese sembrava promettere con la registrazione degli Studi di Debussy.

Dino Villatico

Fiano Romano, 27 dicembre 2017





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