Roma
Martedì 26
dicembre ore 12.00. Museo Carlo Bilotti
Roma Tre
Orchestra
Concerto
del pianista Axel Trolese
W. A. Mozart: Sonata
n. 11 in la maggiore K 331
M. Clementi: Sonata
in sol maggiore "Didone Abbandonata" op. 50 n. 3
W. A. Mozart: Sonata
n. 12 in fa maggiore K 332
L. v. Beethoven:
Sonata n. 28 in la maggiore op. 101
Axel Trolese,
pianista appena ventenne, ha recentemente pubblicato un cd in cui,
con straordinaria maturità, intelligenza e sensibilità, interpreta
gli Studi di Debussy (The Late Debussy, Etudes
& Epigraphes Antiques. Movimento
Classical MVC 001/16).
Ora si presenta al pubblico romano con un concerto interamente
dedicato al pianoforte del periodo cosiddetto classico, quello cioè
che va da Haydn a Beethoven. Il concerto è organizzato da Roma Tre
Orchestra. La sala del Museo Carlo Bilotti, dove il pianista ha
suonato, non è la più adatta per un concerto: l’acustica risente
di un eccessivo riverbero del suono. E lo strumento, inoltre, non era
il meglio che si potesse desiderare. Ma predisponevano bene i quadri
metafisici ridipinti da Giorgio De Chirico negli anni ‘60. Proprio
poco prima del pianoforte, sulla sinistra, l’intensa tela di
Mistero e malinconia di una strada e ragazza col cerchio. La
rappresentazione sembra bloccata, l’astratto prende forma di
oggetti concreti. L’attenzione alla costruzione formale, così
evidente, quasi programmatica, nei quadri di De Chirico predisponeva,
dunque, bene alla percezione dell’analoga evidenza costruttiva
della sonata classica. Per ironia la prima sonata affrontata da
Trolese, la Sonata in la maggiore K. 331 di Mozart, non ha
nessun tempo in forma sonata. Il primo tempo è, infatti, un Andante
con sei variazioni. Il secondo un minuetto. Il terzo è la famosa,
forse addirittura famigerata, Marcia alla Turca. E tuttavia Mozart la
chiama Sonata. Perché è una sonata. Solo l’accademismo
ottocentesco, quando la forma classica non è più capita, poteva
restringere questa forma all’esposizione, contrasto ed elaborazione
di due temi. Haydn scrive tempi di sonata, di quartetto, di sinfonia
con un solo tema. Beethoven si sforza spesso di derivare i temi da
un’unica idea. Talora con evidenza stupefacente, come
nell’Ouverture Coriolano e nella Quinta Sinfonia.
Altre volte variandone l’aspetto, come nell’Appassionata,
op. 57, in cui il secondo tema è l’inversione del primo (ma il
modello gli viene da una tarda sonata di Haydn, in do maggiore). Il
punto nodale sta proprio nella variazione: già con Haydn
procedimento cardine della sonata. Mozart ne segue l’esempio. Ma fa
di più. Anche la costruzione del minuetto disegna una sorta di
microsonata. Abbiamo un’esposizione che si ripete, una specie di
sviluppo alla dominante e una riesposizione del tema, che anch’essi
si ripetono. Tutto in poche battute. Poi arriva la Marcia, un rondò,
nel quale il terzo episodio funziona quasi da trio e divide tutta la
marcia in tre sezioni, A B A, che si concludono con una coda. A
essere precisi, anche A è diviso in A B, la forma così assume un
carattere circolare del tipo A B C A B, coda. Non è un vero e
proprio rondò sonata, perché Mozart evita di ripetere il tema prima
dell’episodio che funziona qui da trio, ma che altre volte p
un’elaborazione vera e propria del tema iniziale. Lo fa proprio per
evitare un’allusione esplicita alla forma sonata, che invece è
allusa per vie traverse, per omissione, direi, di una forma esplicita
di sonata. Mi sono dilungato nella descrizione della sonata perché
Trolese è apparso attentissimo alla scansione dei diversi momenti
della complessa e abile costruzione formale. Attento anche ai
contrasti tra le sezioni, e all’interno di ciascuna di esse.
Splendido per delicatezza e fluidità, il minuetto. Soprattutto il
trio, misterioso, sussurrante. Siamo nel 1783, la sonata, insieme ad
altre due, K. 330 e K. 332, fu pubblicata nel 1784 come op. 6. Con la
Sonata in sol minore op. 50 n. 3 di Muzio Clementi
saltiamo al 1821. In quarant’anni il mondo musicale è cambiato. Si
sentivano già i primi rumori del romanticismo e Beethoven stava
lavorando alle sue ultime avveniristiche composizioni, proprio in
opposizione alle nuove idee formali emergenti e che avrebbero
dominato un intero secolo. Per contrasto o ironia, saranno proprio
le intuizioni del tardo Beethoven a incrinare il tardo romanticismo e
a preparare le avanguardie del Novvecento. Non a caso sia Schoenberg
sia Bartók scriveranno
i loro primi quartetti sul modello di due tra gli ultimi quartetti di
Beethoven, Bartók
l’op. 130, Schoenberg l’op. 131. Ma Beethoven comincia
assai prima di Clementi: la Sonata op. 101, che concluderà il
concerto di Trolese, fu composta tra il 1815 e il 1816. Clementi,
tuttavia, non è Beethoven, e nemmeno Mozart. Ha in qualche modo
inventato il pianoforte moderno, buttandosi anche nella costruzione
di pianoforti, in Inghilterra, quelli preferiti da Beethoven, a
differenza di Mozart che preferiva i pianoforti viennesi. Ma non ha
inventato la costruzione moderna della musica strumentale. Sia Haydn,
sia Mozart, sono assai più moderni di lui. La musica di Clementi è
scritta molto bene, è sempre chiara, intelligente, godibilissima.
Arriva ad intuire abissi, nei quali però non si butta. Resta sempre
un centimetro prima del ciglio oltre il quale c’è lo strapiombo,
guarda giù, ma si tira indietro. Anche in questa sonata tarda.
C’era stato il Beethoven della Waldstein e quello irruente
dell’Appassionata, c’erano state le sonate di Weber,
Schubert non lo conosceva ancora nessuno, o quasi, e quindi non
poteva conoscerlo nemmeno Clementi. Ma c’era abbastanza per capire
in che direzione si muovesse ormai la musica. C’era, inoltre, il
teatro. E c’era Cherubini, al quale tra l’altro la Sonata
op. 50 n. 3 è dedicata. Ma Clementi è un prudente amministratore di
sé stesso, sia come musicista che come imprenditore. La Sonata in
sol minore, che Clementi chiama “Didone abbandonata”,
omaggio o citazione che sia, senz’altro allusione, alla Didone
abbandonata di Metastasio, di cui sembra volere rispettare
l’equilibrio neoclassico, sembra tenere il piede in due staffe:
l’ordine classico che in fondo non infrange e le nuove avvisaglie
di disordine emotivo che non riescono però a scalfire le proporzioni
equilibratissime della costruzione musicale. Il furore, nell’ultimo
tempo, è, infatti, più adombrato che realizzato, non è lasciato
libero di scatenarsi. Sta qui la prudenza di Clementi: nel fare
intravedere uno scatenamento di forze oscure, ingovernabili,
insofferenti di limiti, ma di trattenerle poi prima che possano
disordinare la pagina. Molti anni prima proprio Mozart aveva, invece,
dimostrato come si possa raccontare il furore in una sonata
pianistica, ed era nata la Sonata in la minore K. 310. Un
furore estremo che miracolosamente non incrina l’equilibrio della
pagina. Ma Clementi ne ha paura. Il suo furore è smania teatrale,
esibizionismo virtuosistico, più che un reale sprofondamento in
abissi inesplorati. Agitazione di teatrante, insomma, più che
visionarietà d’artista. Entra nel cerchio del pericolo, ma lo
scansa. Il tema con cui è attaccato l’Allegro, ma con
espressione è molto bello, ma non se ne traggono le conseguenze
radicali che se ne potrebbero aspettare. Con molto meno Beethoven
(come si vedrà nell’op. 101) o più tardi Schumann, al quale in
più punti la Sonata di Clementi fa pensare, sono capaci di
sprofondarti in veri abissi sconosciuti. Clementi guarda il deserto,
legge la scritta: “hic sunt leones”, si spaventa e volta le
spalle, non li sfida. Peccato. Perché anche così prudente questa
Sonata è una bellissima sonata. Ma eccolo poi, subito dopo, nel
concerto di Trolese, il démone che non ha paura di niente. La Sonata
in fa maggiore K. 332 di Mozart è un inimitabile capolavoro,
tanto è vero che poi la successiva Sonata in si bemolle maggiore
K. 333, un altro capolavoro, procede per altre strade (Trolese non
l’ha suonata). Entrambe le sonate, comunque, a smentire la
successiva teorizzazione romantica della sonata, attaccano con un
tema fluido, cantabile, che quei teorici chiamerebbero “femminile”,
in opposizione al tema deciso, “maschile”, con cui dovrebbe
cominciare una sonata. Spesso anche Beethoven, al quale per
abitudine, per inerzia, per ignoranza, si suole attribuire
quest’impostazione, attacca una sua sonata con un tema cantabile,
come fa per esempio nell’op. 101, con cui conclude il suo concerto
di Trolese. Ma tutti avranno in mente l’attacco della sinfonia
Pastorale: è possibile immaginare un attacco di sinfonia più
dolce, suadente, cantabile di quello? Il merito, dunque, e la
notevole lucidità, di Trolese, sta nell’avere individuato molto
bene i caratteri di queste sonate “classiche”. Un gioco di forze
insieme drammatiche e virtuosistiche in Clementi. Un virtuosismo
piegato a raccontare l’avvicendarsi di avventure musicali
imprevedibili, nella due sonate mozartiane e soprattutto in quella in
fa maggiore K. 332. L’irruzione dell’improvviso motivo eroico in
minore nello spazio del primo tema (in realtà una successione di più
idee musicali) è stato da Trolese giustamente esasperato e messo
bene in contrasto con l’aerea ironia dell’idea musicale
successiva, il vero “secondo” tema. Questo dimostra quanto
Trolese sia attento alla costruzione formale delle musiche che
interpreta, e quanto pertanto pieghi il tocco, il fraseggio, il
respiro, alla percezione della forma. L’ascoltatore sente
svilupparsi nell’ascolto i procedimenti musicali adoperati dal
compositore e messi in rilievo dall’interprete. Tutto ciò si fa
identità assoluta di forma ed espressione nella stupenda Sonata
in la maggiore op. 101 di Beethoven. E’ la prima, delle cinque
con cui Beethoven sviluppa un nuovo modo di costruire la sonata. A
cominciare dallo straordinario, cantabile primo tempo, una sorta di
Lied, o di foglio d’album, al quale certamente avrà pensato
Schumann quando tratteggia i suoi originalissimi “fogli”
pianistici. Ma il nodo strutturale della sonata sta soprattutto nel
profondissimo, intimo, cupo “Langsam und sehnsuchtvoll” (lento e
con nostalgia), che Beethoven traduce “Adagio, ma non troppo, con
affetto”, intenso pannello che, dopo una breve rievocazione del
tema d’apertura della sonata, precede l’esplosione del tempo
finale, “Geschwind, doch nicht zu sehr, und mit Entschlossenheit”
(veloce, ma non troppo, con risolutezza), tradotto in italiano da
Beethoven semplicemente con “allegro”. Il carattere speciale di
questo monumentale tempo di sonata sta nel fatto che al centro, in
luogo di sviluppo, c’è una fuga. E si comprendono bene, alla luce
di questa novità, le nuove misure formali costruite da Beethoven:
invenzione ed elaborazione tematica, variante, variazione,
contrappunto sono equiparati. s’intrecciano, si confondono, la
forma non è più un dato stabile, circoscritto, ma un evento in
divenire, solo la sua conclusione fa comprendere il percorso
compiuto. La breve rievocazione del tema di apertura prima di
tuffarsi nel labirinto finale sta a dimostrare proprio l’unità di
questo divenire, lo sviluppo di un’unica idea dall’inizio alla
fine. L’analisi musicali riconosce, infatti, nei diversi temi della
sonata un’unica cellula generatrice. Eppure sarebbe difficile
immaginare una sonata più varia, più multiforme, maggiormente piena
di contrasti, di quanto sia questa op. 101. Più delle altre influirà
sul pensiero musicale dei romantici, e in particolare di Schumann e
di Liszt, anche se i due compositori ne trarranno conseguenze
diverse. Trolese, questa continuità, questo pullulare di idee
dall’idea di partenza l’ha fatta sentire con sensibile
intelligenza musicale. E di questa intelligenza è anche la
distribuzione dei piani tonali nel corso del concerto: la sonata K.
331 di Mozart è in la maggiore, la sonata di Clementi in sol minore,
la successiva sonata mozartiana, K. 332, in fa maggiore, e infine la
sonata di Beethoven torna al la maggiore con cui si era aperto il
concerto. Le tonalità sono tutte in stretto contatto tra di loro: la
tonica la della prima sonata, in modo minore diventa la tonalità
relativa minore di do maggiore, di cui sol è la dominante, che come
tonica nel modo minore diventa la tonica della sonata di Clementi, il
fa maggiore della successiva sonata mozartiana, fa di nuovo perno sul
sol come dominante di do, che a sua volta è dominante di fa, e si
ritorna infine al la maggiore, con Beethoven, con il giro armonico
inverso con cui da la si era arrivati a sol: fa-do-la. Il cerchio si
chiude. Il pubblico applaude. Trolese concede due bis, modernissimi,
ma a loro modo due classici del Novecento, tanto per restare in
ambito “classico”: il primo degli Studi di Debussy, che
rievoca ironicamente Czerny, allievo di Beethoven, come nel Doctor
Gradus ad Parnassum del Children’s Corner aveva evocato
Clementi, e la Toccata di Ravel. Un concerto che sotto veste
di diletto musicale ci ha proposto una riflessione sulla classicità
nella musica. Una conferma, infine, e dal vivo, di quanto Axel
Trolese sembrava promettere con la registrazione degli Studi
di Debussy.
Dino Villatico
Fiano Romano, 27
dicembre 2017