mercoledì 27 dicembre 2017

Roma, Museo Bilotti, concerto del pianista Axel Trolese




Roma
Martedì 26 dicembre ore 12.00.  Museo Carlo Bilotti
Roma Tre Orchestra

Concerto del pianista Axel Trolese
W. A. Mozart: Sonata n. 11 in la maggiore K 331
M. Clementi: Sonata in sol maggiore "Didone Abbandonata" op. 50 n. 3
W. A. Mozart: Sonata n. 12 in fa maggiore K 332
L. v. Beethoven: Sonata n. 28 in la maggiore op. 101

Axel Trolese, pianista appena ventenne, ha recentemente pubblicato un cd in cui, con straordinaria maturità, intelligenza e sensibilità, interpreta gli Studi di Debussy (The Late Debussy, Etudes & Epigraphes Antiques. Movimento Classical MVC 001/16). Ora si presenta al pubblico romano con un concerto interamente dedicato al pianoforte del periodo cosiddetto classico, quello cioè che va da Haydn a Beethoven. Il concerto è organizzato da Roma Tre Orchestra. La sala del Museo Carlo Bilotti, dove il pianista ha suonato, non è la più adatta per un concerto: l’acustica risente di un eccessivo riverbero del suono. E lo strumento, inoltre, non era il meglio che si potesse desiderare. Ma predisponevano bene i quadri metafisici ridipinti da Giorgio De Chirico negli anni ‘60. Proprio poco prima del pianoforte, sulla sinistra, l’intensa tela di Mistero e malinconia di una strada e ragazza col cerchio. La rappresentazione sembra bloccata, l’astratto prende forma di oggetti concreti. L’attenzione alla costruzione formale, così evidente, quasi programmatica, nei quadri di De Chirico predisponeva, dunque, bene alla percezione dell’analoga evidenza costruttiva della sonata classica. Per ironia la prima sonata affrontata da Trolese, la Sonata in la maggiore K. 331 di Mozart, non ha nessun tempo in forma sonata. Il primo tempo è, infatti, un Andante con sei variazioni. Il secondo un minuetto. Il terzo è la famosa, forse addirittura famigerata, Marcia alla Turca. E tuttavia Mozart la chiama Sonata. Perché è una sonata. Solo l’accademismo ottocentesco, quando la forma classica non è più capita, poteva restringere questa forma all’esposizione, contrasto ed elaborazione di due temi. Haydn scrive tempi di sonata, di quartetto, di sinfonia con un solo tema. Beethoven si sforza spesso di derivare i temi da un’unica idea. Talora con evidenza stupefacente, come nell’Ouverture Coriolano e nella Quinta Sinfonia. Altre volte variandone l’aspetto, come nell’Appassionata, op. 57, in cui il secondo tema è l’inversione del primo (ma il modello gli viene da una tarda sonata di Haydn, in do maggiore). Il punto nodale sta proprio nella variazione: già con Haydn procedimento cardine della sonata. Mozart ne segue l’esempio. Ma fa di più. Anche la costruzione del minuetto disegna una sorta di microsonata. Abbiamo un’esposizione che si ripete, una specie di sviluppo alla dominante e una riesposizione del tema, che anch’essi si ripetono. Tutto in poche battute. Poi arriva la Marcia, un rondò, nel quale il terzo episodio funziona quasi da trio e divide tutta la marcia in tre sezioni, A B A, che si concludono con una coda. A essere precisi, anche A è diviso in A B, la forma così assume un carattere circolare del tipo A B C A B, coda. Non è un vero e proprio rondò sonata, perché Mozart evita di ripetere il tema prima dell’episodio che funziona qui da trio, ma che altre volte p un’elaborazione vera e propria del tema iniziale. Lo fa proprio per evitare un’allusione esplicita alla forma sonata, che invece è allusa per vie traverse, per omissione, direi, di una forma esplicita di sonata. Mi sono dilungato nella descrizione della sonata perché Trolese è apparso attentissimo alla scansione dei diversi momenti della complessa e abile costruzione formale. Attento anche ai contrasti tra le sezioni, e all’interno di ciascuna di esse. Splendido per delicatezza e fluidità, il minuetto. Soprattutto il trio, misterioso, sussurrante. Siamo nel 1783, la sonata, insieme ad altre due, K. 330 e K. 332, fu pubblicata nel 1784 come op. 6. Con la Sonata in sol minore op. 50 n. 3 di Muzio Clementi saltiamo al 1821. In quarant’anni il mondo musicale è cambiato. Si sentivano già i primi rumori del romanticismo e Beethoven stava lavorando alle sue ultime avveniristiche composizioni, proprio in opposizione alle nuove idee formali emergenti e che avrebbero dominato un intero secolo. Per contrasto o ironia, saranno proprio le intuizioni del tardo Beethoven a incrinare il tardo romanticismo e a preparare le avanguardie del Novvecento. Non a caso sia Schoenberg sia Bartók scriveranno i loro primi quartetti sul modello di due tra gli ultimi quartetti di Beethoven, Bartók l’op. 130, Schoenberg l’op. 131. Ma Beethoven comincia assai prima di Clementi: la Sonata op. 101, che concluderà il concerto di Trolese, fu composta tra il 1815 e il 1816. Clementi, tuttavia, non è Beethoven, e nemmeno Mozart. Ha in qualche modo inventato il pianoforte moderno, buttandosi anche nella costruzione di pianoforti, in Inghilterra, quelli preferiti da Beethoven, a differenza di Mozart che preferiva i pianoforti viennesi. Ma non ha inventato la costruzione moderna della musica strumentale. Sia Haydn, sia Mozart, sono assai più moderni di lui. La musica di Clementi è scritta molto bene, è sempre chiara, intelligente, godibilissima. Arriva ad intuire abissi, nei quali però non si butta. Resta sempre un centimetro prima del ciglio oltre il quale c’è lo strapiombo, guarda giù, ma si tira indietro. Anche in questa sonata tarda. C’era stato il Beethoven della Waldstein e quello irruente dell’Appassionata, c’erano state le sonate di Weber, Schubert non lo conosceva ancora nessuno, o quasi, e quindi non poteva conoscerlo nemmeno Clementi. Ma c’era abbastanza per capire in che direzione si muovesse ormai la musica. C’era, inoltre, il teatro. E c’era Cherubini, al quale tra l’altro la Sonata op. 50 n. 3 è dedicata. Ma Clementi è un prudente amministratore di sé stesso, sia come musicista che come imprenditore. La Sonata in sol minore, che Clementi chiama “Didone abbandonata”, omaggio o citazione che sia, senz’altro allusione, alla Didone abbandonata di Metastasio, di cui sembra volere rispettare l’equilibrio neoclassico, sembra tenere il piede in due staffe: l’ordine classico che in fondo non infrange e le nuove avvisaglie di disordine emotivo che non riescono però a scalfire le proporzioni equilibratissime della costruzione musicale. Il furore, nell’ultimo tempo, è, infatti, più adombrato che realizzato, non è lasciato libero di scatenarsi. Sta qui la prudenza di Clementi: nel fare intravedere uno scatenamento di forze oscure, ingovernabili, insofferenti di limiti, ma di trattenerle poi prima che possano disordinare la pagina. Molti anni prima proprio Mozart aveva, invece, dimostrato come si possa raccontare il furore in una sonata pianistica, ed era nata la Sonata in la minore K. 310. Un furore estremo che miracolosamente non incrina l’equilibrio della pagina. Ma Clementi ne ha paura. Il suo furore è smania teatrale, esibizionismo virtuosistico, più che un reale sprofondamento in abissi inesplorati. Agitazione di teatrante, insomma, più che visionarietà d’artista. Entra nel cerchio del pericolo, ma lo scansa. Il tema con cui è attaccato l’Allegro, ma con espressione è molto bello, ma non se ne traggono le conseguenze radicali che se ne potrebbero aspettare. Con molto meno Beethoven (come si vedrà nell’op. 101) o più tardi Schumann, al quale in più punti la Sonata di Clementi fa pensare, sono capaci di sprofondarti in veri abissi sconosciuti. Clementi guarda il deserto, legge la scritta: “hic sunt leones”, si spaventa e volta le spalle, non li sfida. Peccato. Perché anche così prudente questa Sonata è una bellissima sonata. Ma eccolo poi, subito dopo, nel concerto di Trolese, il démone che non ha paura di niente. La Sonata in fa maggiore K. 332 di Mozart è un inimitabile capolavoro, tanto è vero che poi la successiva Sonata in si bemolle maggiore K. 333, un altro capolavoro, procede per altre strade (Trolese non l’ha suonata). Entrambe le sonate, comunque, a smentire la successiva teorizzazione romantica della sonata, attaccano con un tema fluido, cantabile, che quei teorici chiamerebbero “femminile”, in opposizione al tema deciso, “maschile”, con cui dovrebbe cominciare una sonata. Spesso anche Beethoven, al quale per abitudine, per inerzia, per ignoranza, si suole attribuire quest’impostazione, attacca una sua sonata con un tema cantabile, come fa per esempio nell’op. 101, con cui conclude il suo concerto di Trolese. Ma tutti avranno in mente l’attacco della sinfonia Pastorale: è possibile immaginare un attacco di sinfonia più dolce, suadente, cantabile di quello? Il merito, dunque, e la notevole lucidità, di Trolese, sta nell’avere individuato molto bene i caratteri di queste sonate “classiche”. Un gioco di forze insieme drammatiche e virtuosistiche in Clementi. Un virtuosismo piegato a raccontare l’avvicendarsi di avventure musicali imprevedibili, nella due sonate mozartiane e soprattutto in quella in fa maggiore K. 332. L’irruzione dell’improvviso motivo eroico in minore nello spazio del primo tema (in realtà una successione di più idee musicali) è stato da Trolese giustamente esasperato e messo bene in contrasto con l’aerea ironia dell’idea musicale successiva, il vero “secondo” tema. Questo dimostra quanto Trolese sia attento alla costruzione formale delle musiche che interpreta, e quanto pertanto pieghi il tocco, il fraseggio, il respiro, alla percezione della forma. L’ascoltatore sente svilupparsi nell’ascolto i procedimenti musicali adoperati dal compositore e messi in rilievo dall’interprete. Tutto ciò si fa identità assoluta di forma ed espressione nella stupenda Sonata in la maggiore op. 101 di Beethoven. E’ la prima, delle cinque con cui Beethoven sviluppa un nuovo modo di costruire la sonata. A cominciare dallo straordinario, cantabile primo tempo, una sorta di Lied, o di foglio d’album, al quale certamente avrà pensato Schumann quando tratteggia i suoi originalissimi “fogli” pianistici. Ma il nodo strutturale della sonata sta soprattutto nel profondissimo, intimo, cupo “Langsam und sehnsuchtvoll” (lento e con nostalgia), che Beethoven traduce “Adagio, ma non troppo, con affetto”, intenso pannello che, dopo una breve rievocazione del tema d’apertura della sonata, precede l’esplosione del tempo finale, “Geschwind, doch nicht zu sehr, und mit Entschlossenheit” (veloce, ma non troppo, con risolutezza), tradotto in italiano da Beethoven semplicemente con “allegro”. Il carattere speciale di questo monumentale tempo di sonata sta nel fatto che al centro, in luogo di sviluppo, c’è una fuga. E si comprendono bene, alla luce di questa novità, le nuove misure formali costruite da Beethoven: invenzione ed elaborazione tematica, variante, variazione, contrappunto sono equiparati. s’intrecciano, si confondono, la forma non è più un dato stabile, circoscritto, ma un evento in divenire, solo la sua conclusione fa comprendere il percorso compiuto. La breve rievocazione del tema di apertura prima di tuffarsi nel labirinto finale sta a dimostrare proprio l’unità di questo divenire, lo sviluppo di un’unica idea dall’inizio alla fine. L’analisi musicali riconosce, infatti, nei diversi temi della sonata un’unica cellula generatrice. Eppure sarebbe difficile immaginare una sonata più varia, più multiforme, maggiormente piena di contrasti, di quanto sia questa op. 101. Più delle altre influirà sul pensiero musicale dei romantici, e in particolare di Schumann e di Liszt, anche se i due compositori ne trarranno conseguenze diverse. Trolese, questa continuità, questo pullulare di idee dall’idea di partenza l’ha fatta sentire con sensibile intelligenza musicale. E di questa intelligenza è anche la distribuzione dei piani tonali nel corso del concerto: la sonata K. 331 di Mozart è in la maggiore, la sonata di Clementi in sol minore, la successiva sonata mozartiana, K. 332, in fa maggiore, e infine la sonata di Beethoven torna al la maggiore con cui si era aperto il concerto. Le tonalità sono tutte in stretto contatto tra di loro: la tonica la della prima sonata, in modo minore diventa la tonalità relativa minore di do maggiore, di cui sol è la dominante, che come tonica nel modo minore diventa la tonica della sonata di Clementi, il fa maggiore della successiva sonata mozartiana, fa di nuovo perno sul sol come dominante di do, che a sua volta è dominante di fa, e si ritorna infine al la maggiore, con Beethoven, con il giro armonico inverso con cui da la si era arrivati a sol: fa-do-la. Il cerchio si chiude. Il pubblico applaude. Trolese concede due bis, modernissimi, ma a loro modo due classici del Novecento, tanto per restare in ambito “classico”: il primo degli Studi di Debussy, che rievoca ironicamente Czerny, allievo di Beethoven, come nel Doctor Gradus ad Parnassum del Children’s Corner aveva evocato Clementi, e la Toccata di Ravel. Un concerto che sotto veste di diletto musicale ci ha proposto una riflessione sulla classicità nella musica. Una conferma, infine, e dal vivo, di quanto Axel Trolese sembrava promettere con la registrazione degli Studi di Debussy.

Dino Villatico

Fiano Romano, 27 dicembre 2017





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giovedì 14 dicembre 2017

Teatro dell'Opera di Roma, La damnation de Faust

TEATRO DELL’OPERA DI ROMA. SERATA INAUGURALE DELLA STAGIONE 2017 – 2018: LA DAMNATION DE FAUST (la dannazione di Faust), légende dramatique en quatre parties (leggenda drammatica in quattro parti), testo di Hector Berlioz, Almire Gandonnière, Gérard de Nerval, dal Faust di Johann Wolfgang Goethe, musica di Hector Berlioz

Direttore Daniele Gatti
Regia Damiano Michieletto

Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Rocafilm
Movimenti mimici Chiara Vecchi

Faust Pavel Černoch
Méphistophélès Alex Esposito
Marguerite Veronica Simeoni
Brander Goran Jurić

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e il Palau de Les Arts Reina Sofía di Valencia

Prima rappresentazione, 12 dicembre 2017
Repliche: 14, 17, 19, 21, 23 dicembre 2017.

Hé bien! Règnez, cruel; contentez votre gloire:
Je ne dispute plus. J’attendais, pour vous croire,
Que cette même bouche , après mille serments
D’un amour qui devait unir tous nos moments ,
Cette bouche , à mes yeux s’avouant infidèle ,
M’ordonnât elle-même une absence éternelle.
Moi-même j’ai voulu vous entendre en ce lieu.
Je n’écoute plus rien ; et pour jamais, adieu.
Pour jamais ! Ah ! Seigneur , songez-vous en vous-même
Combien ce mot cruel est affreux quand on aime ?
Dans un mois , dans un an, comment souffrirons-nous,
Seigneur ; que tant de mers me séparent de vous ?
Que le jour recommence et que le jour finisse,
Sans que jamais Titus puisse voir Bérénice ,
Sans que de tout le jour je puisse voir Titus !
Mais quelle est mon erreur, et que de soins perdus !

(E sia! Regnate, crudele; accontentate la vostra gloria:
Non ne discuto più. Aspettavo, per credervi,
Che questa stessa bocca, dopo mille giuramenti
D’un amore che avrebbe dovuto unire tutti i nostri momenti,
Questa bocca, confessandosi ai miei occhi infedele,
M’ordinasse essa stessa un’assenza perenne.
Io in persona ho voluto ascoltarvi in questo luogo.
Non ascolto più niente; e per sempre, addio.
Per sempre? Ah! Signore, ci pensate dentro di voi
Come questa parola crudele è orribile se si ama?
Tra un mese, tra un anno, come sopporteremo,
Signore, che così tanti mari mi separino da voi?
Che il giorno ricominci e che il giorno finisca,
Senza che mai Tito possa vedere Berenice,
Senza che per tutto il giorno io possa vedere Tito!
Ma che sbaglio è il mio, e quanti pensieri perduti!)

E’ la lunga tirata di Berenice a Tito, nella stupenda tragedia di Racine che dal nome della regina di Bitinia prende il suo titolo, Bérénice. Ma veramente la regina di Bitinia, accomiatandosi da colui che sarebbe diventato l’Imperatore dei Romani, gli avrebbe parlato così? Gli avrebbe dato del voi? l’avrebbe chiamato Signore? I Romani, quando si rivolgevano a qualcuno, conoscevano un solo pronome di seconda persona: il tu. Il voi comparirà più tardi, a Bisanzio, e in Occidente alla corte di Carlo Magno. Ma la Berenice raciniana non è che per finzione teatrale la regina di Bitinia, in realtà è una gran dama della Corte di Versailles. Il teatro è sempre stato teatro contemporaneo, e ha sempre alluso, dietro maschere antiche, all’oggi. Quando, sei anni dopo, nel 1676, Lully compone l’Atys, su uno splendido testo di Quinault, tutta la corte vi riconosce le vicende del Re Sole e della Montespan. Non diversamente, Handel, nella Semele, allude agli adulteri della corte londinese. In una bella messa in scena del Festival d’Aix-en-Provence, Robert Carsen disegna il personaggio di Giunone sul modello di Elisabetta II d’Inghilterra, facendole portare perfino le grandi borse criticate dagli snob. Giunone appare la prima volta che legge un giornale dove, in caratteri cubitali, si vede scritto: “E’ ormai ufficiale! Semele è l’amante di Giove”. Ricostruisce in chiave moderna le allusioni del testo, altrimenti incomprensibili al pubblico di oggi, dopo tre secoli dalle vicende e dai pettegolezzi a cui allude l’oratorio. Teseo, nell’Edipo a Colono di Sofocle, afferma che, prima di prendere una decisione così gravida di conseguenze per la città, come quella di accogliere Edipo, deve consultare l’Assemblea. Ora l’Assemblea era un’istituzione dell’Atene democratica, non certo dell’Atene arcaica, e tanto meno dell’Atene del mito. Questa forse troppo lunga premessa per dire che anacronismi, allusioni all’oggi appartengono al teatro di ogni tempo. Per la ragione semplicissima che il teatro è sempre teatro contemporaneo. Goethe, quando allestì a Weimar la prima messa in scena moderna dell’Amleto in Germania, impersonando lui stesso il ruolo del principe danese, non solo disegnò scene moderne e fece vestire ai personaggi gli abiti del tempo, ma addirittura tagliò alcune scene e ne introdusse altre nuove scritte di suo pugno. Non si comporterà molto diversamente,due secoli dopo, Laurence Olivier quando traspose in un film la tragedia di Shakespeare. E anzi, la lettura psicanalitica del personaggio fu evidenziata dalla visione di un cervello in primo piano sullo schermo, proprio durante la dizione del celebre monologo “to be or not to be”. La colonna sonora in quel momento simulava un battito cardiaco. Ma veniamo, allora, a questa Dannazione di Faust che ha inaugurato la stagione 2017-2018 del Teatro dell’Opera di Roma. Il grande successo dello spettacolo e degli interpreti richiede alcune precisazioni. Siccome è stato detto, alla radio, che a “gran parte” del pubblico la regia di Michieletto non è piaciuta, è il caso di rettificare che solo una parte, e modesta, del pubblico, ha dissentito con sonori buu. Ma questa piccola “gran parte” è stata subito subissata e zittita dalla vera “gran parte” del pubblico al quale invece lo spettacolo è piaciuto. Segno che ormai il teatro moderno è capito e gradito anche da “gran parte” del pubblico italiano. C’è infatti chi, sempre alla radio, ha obiettato che lo spettacolo era di difficile comprensione, aveva perciò bisogno di essere interpretato, bisognava fare uno sforzo per capirlo (sic!). La musica e la scena, infatti, s’è detto, sembrerebbero parlare di cose diverse. Il solito discorso. Ma perché, regia a parte, l’Amleto di Shakespeare si capisce subito? E il Tristano è un dramma d’immediata comprensione? La Kovanščina di Musorgskij è subito capita anche da chi non sa niente della storia della Russia e della politica di Pietro il Grande? Sembrerà strano, ma fin dalla sua nascita, il teatro ha richiesto dal pubblico la cultura giusta per essere capito, sia che questa cultura fosse frutto di studio sia che fosse, più spesso, invece, la cultura della società in cui la rappresentazione si realizzava. Avete mai letto il primo coro dell’Agamennone di Eschilo? Vi sembra un testo d’immediata comprensione, se non si è greci dell’Atene classica e non si sappia chi sia Zeus, anzi che cosa sia per Eschilo Zeus, che cosa sia la Dike, che cosa la speculazione teologica e filosofica di allora sul diritto del singolo e della comunità? O La vida es sueño di Calderón de la Barca si capisce subito senza conoscere la discussione teologica sulla predestinazione nella Spagna del ‘600? Gli esempi potrebbero continuare. Un po’ di umiltà, per favore, non usurpate il posto e il ruolo dell’autore. Che ne sapete di lui? Viene a proposito un aforisma schumanniano già da me citato altre volte: “Il filisteo vorrebbe capire in un attimo ciò che all’artista è costato giorni, mesi, forse anni di faticoso lavoro”. E, piaccia o no a tutti, anche un regista è un artista, ogni teatrante lo è, e anche lui pensa, lavora, con durezza, con fatica. Dunque, prima di esternare il vostro dissenso dal suo lavoro, non domandatevi se vi è piaciuto o no, bensì cercate di capire (eh sì!) che cosa abbia voluto dirvi. Mi soccorre un altro aforisma, da me citatissimo, di Schumann: “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se al mondo non ci fosse niente altro di più importante da fare che piacere alla gente”. Cambiamo arte. Guardiamo un quadro. Per esempio, L’Annunciazione di Leonardo. La Madonna vi sembra una signora ebrea del primo secolo a. C.? E l’angelo, un essere sovrannaturale? Sono una gran dama fiorentina del Rinascimento e un bel giovane zazzeruto, di quelli che probabilmente piacevano a Leonardo. Già: perché nel quadro c’è anche questo. Insomma, il realismo e la congruità della rappresentazione con l’evento rappresentato è un’esigenza che non spunta fuori prima del Naturalismo ottocentesco. Ma anche lì, a teatro si sono prese tutte le libertà che servivano. Se guardiamo le foto di spettacoli tra Otto e Novecento, pettinature, trucco del viso, denunciano l’epoca in cui si realizzano e non eventuali cavalieri della Tavola Rotonda. Anzi, ci appaiono addirittura ridicoli, proprio perché si sforzano di sembrare ciò che non riescono a raffigurare. Quanto alla Damnation de Faust di Berlioz, è una partitura che già allora parve d’avanguardia. E come far capire al pubblico di oggi, magari digiuno di cognizioni storiche ed estetiche, l’avanguardia di ieri, se non travestendola da avanguardia di oggi? I ballabili della Traviata non sono danze svenevoli e romantiche, come farebbero pensare troppe vaporose rappresentazioni, ma veri ballabili, e i galop sono più numerosi dei valzer. Come a dire: il rock di allora. L’operazione di Verdi, infatti, disorientò una parte dei suoi contemporanei. Ma perché Berlioz, quasi un decennio prima della Traviata, affronta un personaggio così emblematico, e dalle molteplici facce, già allora, come Faust? Faust, come Edipo, Amleto, Don Chisciotte, Don Giovanni, è personaggio che ci appare quasi autonomo dai poeti che l’hanno immaginato, Marlowe e Goethe, quasi fosse una figura storica, un individuo in carne ed ossa. Ciò avviene perché in lui, come negli altri personaggi, c’è una parte di ciascuno di noi: la ricerca di un senso della vita. Il diavolo, in questa ricerca, assume un ruolo determinante. Vittorio Mathieu ha scritto un saggio imprescindibile, al riguardo: Goethe e il suo diavolo custode (Adelphi, 2002). Nella tradizione medievale, e poi rinascimentale e barocca, il diavolo è un personaggio comico. Seduttore delle donne, come incubo, e degli uomini, come succubo. Michieletto prende questa tradizione alla lettera. Coloro che hanno contestato lo spettacolo - pochi, a dire il vero e, come si è detto, subito zittiti dalla maggioranza del pubblico, che invece ha decretato un trionfo a tutti gli interpreti - se ne facciano una ragione, e si studino un po’ di storia del teatro. La “leggenda” di Berlioz, che utilizza, liberissimamente, la già libera versione francese che Gérard de Nerval trae dalla tragedia di Goethe (il quale, a sua volta, aveva reinventato Marlowe), riscrive le peripezie di Faust, e a differenza di Goethe, come aveva fatto Marlowe, lo danna. Di questa dannazione il diavolo è lo strumento insieme ironico e perversamente consapevole. Ed è qui che Michieletto costruisce il suo spettacolo. Il mondo che devasta e perde Faust è celato dentro Faust stesso, è un mondo immaginario, una costruzione del diavolo. Margherita è un sogno, a baciare Faust non è la sua bocca, ma quella del diavolo “succubo”. Che poi, però, quando i due si baciano davvero, inserisce, tra la bocca di Faust e quella di Margherita, una mela. L’atto d’amore ripete, ogni volta, il peccato originale. Tutta la vicenda assume una connotazione di sofferenza reale, la visione, il sogno, possono essere immaginazione inesistente, ma la sofferenza che infliggono è vera sofferenza: è la disperazione per il fallimento della propria vita, per le perdite immedicabili, del padre, della madre, dell’infanzia felice, dell’adolescenza infelice, sbeffeggiata e usurpata dai bulli, che registrano con i cellulari le prevaricazioni inflitte a Faust ragazzo. Ma poco importano la felicità e l’infelicità di ciò che s’è perduto, importa invece l’irrecuperabile perdita, lo stesso dolore si fa nuovo dolore nella perdita. Le scene geometriche, luminose, di Paolo Fantin. i costumi semplici, ma fantasiosi (la coda serpentina del diavolo!) di Carla Teti, i video, le luci, i figuranti e mimi, sono perfetti. Alla bellezza dello spettacolo corrisponde l’intelligenza e la penetrazione musicale di Daniele Gatti, l’adesione sulfurea, ma anche struggente, della musica alla scena: indimenticabile la galoppata verso l’abisso. Colpisce poi e affascina l’immediatezza della recitazione, l’adeguamento al personaggio di ciascuno degli interpreti: il giovane, avvenente ma spaesato Faust di Pavel Černoch, bravissimo nel moltiplicare le facce del suo personaggio; l'imprevedibile, duttilissimo Mefistofele di Alex Esposito, un diavolo mercuriale, onnipresente e onnipenetrante; l'intensità mimica e musicale di Veronica Simeoni, Margherita, fanciulla innamorata e donna disperata. Un vero giullare, poi, divertentissimo, il Brander di Goran Jurić. L'orchestra, il coro di diavoli e di angeli (sono la stessa cosa), onnipresente sugli spalti di un terrestrissimo inferno, completano magnificamente uno spettacolo imperdibile.

Dino Villatico

Roma, 13 dicembre 2017