sabato 22 giugno 2019

Gli otto figli di Schumann

Le pagine finali spiegano tutto il libro. Robert Schumann e Clara ebbero otto figli. Emilio muore a poco più di un anno. Il padre lo pianse amaramente. Gli altri ebbero tutti vita infelice, salvo forse Eugenia, lesbica, che uscì dalla famiglia per vivere con la sua compagna Fillu. La madre, solo dopo molti anni, accettò la convivenza della figlia con la sua compagna. Il lato più sconvolgente del libro, almeno per il lettore non tedesco – la pubblicazione dei diari di Thomas Mann ci ha rivelato ben altri inferni! - è il rovesciamento della figura mitica di Clara Wieck, poi Schumann, da eroina di un amore inimitabile e perfino di un amore al limite dell’adulterio con il giovane Brahms (miti entrambi demoliti da Cavaillès), in donna calcolatrice, egoista, gelida, che non capisce i problemi né del marito né dei figli, e che quando i problemi si fanno insopportabile, se ne libera collocando i figli in questo e quel pensionato da questo o quel parente. La solitudine di questi ragazzi è sconfinata. Come sconfinato è l’interesse di Clara per una sola cosa: la sua attività di concertista, alle quale appunto sacrifica anche il benessere dei figli.

Ho conosciuto l’egoismo di simili artisti, la solitudine la disperazione dei loro figli. Ma non voglio introdurre elementi autobiografici nella riflessione su un bel libro biografico. Come in Italia se ne scrivono pochi o nessuno: secco, duro, tutto fatti. Ne è specchio una prosa quasi sempre priva di aggettivazione e quando c’è è appropriata e pertinente. Non so come sia stato tradotto. Spero bene, con la stessa asciuttezza. Ma consiglio, chi può, di leggersi il testo francese. I figli di Schuman subirono il trauma della follia e della morte del padre. Non lo superarono mai. Né Clara fece mai niente per aiutarli. Anzi, spesso, esacerbò questo loro bisogno di spiegazioni, di consolazione, di tenerezza mancata. Il figlio Ludwig precipitò nell’idiozia, nella demenza patologica. Clara se ne disinteressò: lo lascio deperire nei sanatori psichiatrici. Lo chiamava il “sotterrato vivo”. Furono tutti infelici, come e forse più del padre.

Cavaillès segue l’esistenza di ciascuno di loro con distaccata tenerezza, con profonda pietà. Si trema all’idea che le allucinate Scene infantili e i visionari Kreisleriana siano la premonizione e poi la registrazione di questo inferno.

Exceptions désinvoltes traversant la vie dans une longue noyade mouvementée, incapables de nager dans les eaux chaotiques de leur fleuve, le musicien, l’enfant et le fou s’entendent sans mot dire: trois hypostases de l’esprit mis à nu, enténébré par de vieilles larmes et ne sachant pas ce qu’il cherche, quelle chose sans nom, quel objet sacré né d’une rêverie nostalgique sous la danse pulsionelle des étoiles.”

(Eccezioni disinvolte che attraversano la vita con una lunga nuotata movimentata, incapaci di nuotare nelle acque caotiche del loro fiume, il musicista, il bambino e il pazzo si capiscono senza dire parola: tre ipostasi dello spirito messo a nudo, ottenebrato da vecchie lacrime e senza sapere ciò che cerca, quale cosa senza nome, quale oggetto sacro nato da una fantasticheria delle stelle).

Forse un certo spreco di poeticismo. Ma l’oggetto è centrato: la solitudine impenetrabile, le lacrime inascoltate, l’inferno di cui gli altri si sbarazzano con una scrollata di spalle. Perfino tua madre!

Nicolas Cavaillès, les huit enfants Schumann, Paris, Les Éditions du Sonneur, 2016 (trad. it. Pagine d’Arte, 2018).

 

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