Le pagine finali spiegano
tutto il libro. Robert Schumann e Clara ebbero otto figli. Emilio
muore a poco più di un anno. Il padre lo pianse amaramente. Gli
altri ebbero tutti vita infelice, salvo forse Eugenia, lesbica, che
uscì dalla famiglia per vivere con la sua compagna Fillu. La madre,
solo dopo molti anni, accettò la convivenza della figlia con la sua
compagna. Il lato più sconvolgente del libro, almeno per il lettore
non tedesco – la pubblicazione dei diari di Thomas Mann ci ha
rivelato ben altri inferni! - è il rovesciamento della figura mitica
di Clara Wieck, poi Schumann, da eroina di un amore inimitabile e
perfino di un amore al limite dell’adulterio con il giovane Brahms
(miti entrambi demoliti da Cavaillès), in donna calcolatrice,
egoista, gelida, che non capisce i problemi né del marito né dei
figli, e che quando i problemi si fanno insopportabile, se ne libera
collocando i figli in questo e quel pensionato da questo o quel
parente. La solitudine di questi ragazzi è sconfinata. Come
sconfinato è l’interesse di Clara per una sola cosa: la sua
attività di concertista, alle quale appunto sacrifica anche il
benessere dei figli.
Ho
conosciuto l’egoismo di simili artisti, la solitudine la
disperazione dei loro figli. Ma non voglio introdurre elementi
autobiografici nella riflessione su un bel libro biografico. Come in
Italia se ne scrivono pochi o nessuno: secco, duro, tutto fatti. Ne è
specchio una prosa quasi sempre priva di aggettivazione e quando c’è
è appropriata e pertinente. Non so come sia stato tradotto. Spero
bene, con la stessa asciuttezza. Ma consiglio, chi può, di leggersi
il testo francese. I figli di Schuman subirono il trauma della
follia e della morte del padre. Non lo superarono mai. Né Clara fece
mai niente per aiutarli. Anzi, spesso, esacerbò questo loro bisogno
di spiegazioni, di consolazione, di tenerezza mancata. Il figlio
Ludwig precipitò nell’idiozia, nella demenza patologica. Clara se
ne disinteressò: lo lascio deperire nei sanatori psichiatrici. Lo
chiamava il “sotterrato vivo”. Furono tutti infelici, come e
forse più del padre.
Cavaillès
segue l’esistenza di ciascuno di loro con distaccata tenerezza, con
profonda pietà. Si trema all’idea che le allucinate Scene
infantili e i visionari Kreisleriana siano la
premonizione e poi la registrazione di questo inferno.
“Exceptions
désinvoltes traversant la vie dans une longue noyade mouvementée,
incapables de nager dans les eaux chaotiques de leur fleuve, le
musicien, l’enfant et le fou s’entendent sans mot dire: trois
hypostases de l’esprit mis à nu, enténébré par de vieilles
larmes et ne sachant pas ce qu’il cherche, quelle chose sans nom,
quel objet sacré né d’une rêverie
nostalgique sous la danse pulsionelle des étoiles.”
(Eccezioni
disinvolte che attraversano la vita con una lunga nuotata
movimentata, incapaci di nuotare nelle acque caotiche del loro fiume,
il musicista, il bambino e il pazzo si capiscono senza dire parola:
tre ipostasi dello spirito messo a nudo, ottenebrato da vecchie
lacrime e senza sapere ciò che cerca, quale cosa senza nome, quale
oggetto sacro nato da una fantasticheria delle stelle).
Forse
un certo spreco di poeticismo. Ma l’oggetto è centrato: la
solitudine impenetrabile, le lacrime inascoltate, l’inferno di cui
gli altri si sbarazzano con una scrollata di spalle. Perfino tua
madre!
Nicolas
Cavaillès, les huit
enfants Schumann,
Paris, Les Éditions
du Sonneur, 2016 (trad. it. Pagine d’Arte, 2018).
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