Una sciarada oracolare
Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus1.
Principio della filosofia scolastica, da Aristotele, integrata da Leibniz, al quale si deve l'aggiunta "nisi ipse intellectus".
Ad Alessandro Liburdi
Amico mio, com'è lontano il senso
delle cose, se un senso hanno le cose
quando noi le guardiamo che non sia
l'intento di guardarle. Mi dichiari,
con elegante e liquido disegno
di un bozzetto marino, un battibecco
sulla spiaggia di voci che beffarde
si scambiano le sillabe straziate,
equivocate, di sciarade intente
a masticare mastici di nomi
figurati, di un Dino, un Alessandro
che chiedono responsi conclusivi
a boschivi elfi2 di Britannia, a numi
che sorseggiano l'acqua tumultuosa
dell'Indo3, e interrogata la trimurti4
si rintanano a casa con le mani
vuote e le orecchie chiuse e sigillate
dal silenzio del mondo, più loquace
di una folla sbraitante nei mercati.
La tua sciarada, che mi schiude il nulla,
il nostro nulla di esiliati, almeno
di scacciati dal mondo dei vincenti,
non sai quanto, potrei considerarla
oracolo di Dioniso, o di Sciva5,
un Om6 che muove la perenne ruota
dei desideri: delle cose, penso,
non ha ragione di preoccuparsi,
perché le cose stanno là, fissate
fuori di noi, e noi non conosciamo
nemmeno se ci stanno per davvero,
o se ce le fingiamo. Figurarsi
se possiamo sapere di che cosa
sono fatte. E con questa mia sapienza
d'insipente, di un homo sapiens presto
dagli elfi trasformato in transeunte
bestia insipiens, chiedo venia al senno
del tuo parlarmi, al senso che indovini
nei miei versi, mi prostro al tuo cantarmi,
e anch'io ti canto una canzone nuova,
che si veste di versi regolari,
di pochi endecasillabi studiati.
La regolarità del metro, amico,
dirà la mia costanza di compagno
letterario, e non c'è maggior guadagno,
in un mondo che sperpera le cose,
di questo nostro duraturo sforzo
di mantenere, tra di noi, lo stile
di un'amicizia che rispetta il cuore
ma non trascura il più segreto stigma
che al cuore unisce la comune nostra
virtù di benedire la scrittura.
Fiano Romano, 30 agosto 2024
1Niente c'è nell'intelletto che prima non fosse nei sensi, tranne lo stesso intelletto.
2Alfredo, il mio nome, di cui Dino è il diminutivo, etimologicamente significa "consigliato dagli elfi".
3Alessandro Magno toccò le rive dell'Indo.
4I tre dei dell'Olimpo indù: Brahma, Visnù e Sciva.
5Sciva e Dioniso sono probabilmente lo stesso dio. Creatori e insieme distruttori della vita.
6La sillaba dal cui suono, pronunciandola, Brahma crea il mondo, o piuttosto le apparenze che chiamiamo mondo.
Alessandro Liburdi
Corrono strade per l’erba e lumiere
appaiono qua e là, paludi e piante:
aride cose spente, o vive e fiere.
A che son esse fatte? A che di tante
non una all’altra eguale? E il riso dopo
le lacrime, e il pallore del sembiante?
A che ci giova il tutto, e questo giuoco
eterno, noi pur grandi e sempre a tondo
erranti, e soli sempre e senza scopo?
E tante cose simili nel mondo?…
Eppur chi dice “sera” una parola
dice onde un senso doloroso e fondo,
come da favo un grave miele, cola.
Hugo Von Hofmannsthal, Ballata della vita eterna
Per Dino
Altre sciarade (ed è già settembre)
Amico mio, ai piedi del Soratte millenario,
riguarda un attimo quella dedica in alto:
non l’eterno, irraggiungibile Loris1
insomma... asburgico,
ma quel Per Dino...
ma sai che, a ripeterlo forte,
quel complemento di fine
(che poi è anche un moto per luogo
attraverso il non luogo della virtualità che ci unisce
e di questa distanza geografica che ci separa)
dico, lo sai che se lo ripeto
pare quasi una bestemmia,
o un’interiezione colorita?...
Anche quello, uno smontaggio di parole,
gioco enigmistico da ombrellone
da spiaggia ritirato in secca
ora che finalmente il caldo che assorda
abbacinante delle città afose
delle campagne riarse
lascia spazio alle elegie di settembre.
E tornando al dio che pure appare
da qualche parte in quel tuo nome d’elfo
ci sono dei, quegli dei che nomini
che certo non temono qualche blasfemia:
lì da qualche parte, a Oriente,
lì dove non andrò mai dal vivo,
accontentandomi spietatamente
della forza di certi sogni aperti come gli occhi
spennellando la ringhiera, grattando
la terra del mio orto, leggendo qualche libro nuovo:
sognando quel tempo, mai stato forse, ma passato,
che i poeti vivevano tranquilli,
magari al giogo di qualche signore, ma bastanti
a sé stessi e verso la gloria eterna.
E invece ora, tu lo sai, io lo so,
che ci tocca vivere: lo spettacolo indecente
della pornocrazia, la ferocia delle lingue
prima ancora delle guerre, e
da qualche parte, forse, il sogno di una pace.
Di certo siamo condannati,
come modesti urobori da cortile,
a dire e ridirci la nostra ignoranza circolare
in mezzo a gente che si illude di saper tutto,
quelli sì esecrabili condannati
a un’insipienza leggera e martellante,
vita da becchime, superficiale:
loro e gli accapo di chi non ci capisce niente
e vive, sopra-vive solamente;
a noi altro, ci ha dato in fortuna la sorte:
confidarci per fortuna amici,
urlare la nostra umiltà a parole,
sublimare coi versi il nostro, l'universale, dolore.
1 Le sue prime prove, Hofmannsthal, le presentò con quello pseudonimo, un nome che richiama Laurento, la città dell’alloro: la città dei poeti,
Ceccano, 2 settembre 2024
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