venerdì 7 novembre 2025

Sestina



                       sestina


L'innominato è bello nominare

oltre la soglia delle mie parole:

solo la mia parola lo contiene,

fuori basta uno sguardo a possederlo.


Ma più feroce un vento mi possiede

che virtù mi reprime, soffia forte

nel cuore quanto più cerco silenzio,

ma nel silenzio il cuore si rivolta.


Sarà silenzio tra le bocche il fiato

che ventila la vita, e vita il bacio

che ti sospende il fiato, ma tacendo

si è già deciso l'atto che sospiro.


Angelo mio lontano, il mio delirio

non ebbe inizio che dal primo sguardo,

non conobbe per questa sua ferita

altra cura che lo slabbrarsi estremo

dei margini d’amore, né l’incendio

fu di pietà che m’iniettasse il seme


per cui bruciava in me tutto il mio seme:

ma senza uscita compresso il delirio

che naviga il mio sangue, un solo incendio

acceca nei miei occhi ogni mio sguardo,

per cui si fa ad ogni passo estremo

il buio che mi occulta la ferita.


E fosse solo il buio che ferita

inacidisce tra le vene, seme

si fa sotto la pelle il pianto estremo

che lacrime di fuoco al mio delirio

inonda con il gelo di uno sguardo,

il tuo, che ignora e accende questo incendio.


Ma fosse morte nell’amato incendio

questa scissione che slabbra la ferita,

aprirsi non vedresti nel tuo sguardo

più dolce la sua bocca se il tuo seme

placa la febbre del fervido delirio

che morte invoca suo diletto estremo.


Nient’altro, tra le membra, così estremo

languendo nasce, come questo incendio

che brucia le mie vene e nel delirio

di te che scendi allarga la ferita

perché ogni goccia succhi del tuo seme,

saziando nel saziarti ogni tuo sguardo.


Ma mi saziassi pure del tuo sguardo,

insaziata la bocca dall’estremo

tuo darti resterebbe, perché il seme

di cui si sazia non placa l’incendio

che brucia e che consuma la ferita,

ma divampa e s’accresce nel delirio.


Nel mio delirio, non ho nel mio sguardo

altra ferita, che il tuo morso estremo,

per l’incendio che accende in me il tuo seme.


Fiano Romano, 2 gennaio 2021

Quartine in esergo: 7 novembre 2025


Priapeia

 

DINO VILLATICO


PRIAPEIA


Carminis incompti lusus lecture procaces,

conveniens Latio pone supercilium.

non soror hoc habitat Phoebi, non Vesta sacello,

nec quae de patrio vertice nata dea est,

sed ruber hortorum custos, membrosior aequo,

qui tectum nullis vestibus inguen habet.

aut igitur tunicam parti praetende tegendae,

aut quibus hanc oculis aspicis, ista lege. 


1.


Mio se, amico, l’abisso che racchiudi

potessi al punto dirlo e possedere

da sprofondarvi dentro il cuore, tutto

già so che per le vene scorrerebbe

pervasiva e profonda la delizia

da fartene tremando palpitare

tutte le tue papille, e là finendo

fluidificato tuo mi sentiresti

dalla bocca che parla all’altra muta

che sospirando amore mi contiene.


2.


Non altro aspetto, amico, dal tuo darti

che questa interminata e invereconda

mescolanza del mio con il tuo

sfinirci, fino all’ultima feconda,

biancastra stilla che fluisce intatta

dalle nostre insaziabili fontane,

avide non so più chi di noi due

abbia l’una per l’altra ingurgitanti

le bocche, se di sopra, la loquace,

o tutte le altre, sparse per il corpo,

di sotto, sulla faccia, dappertutto,

che per aprirsi parlano d’amore.


3.


Scorrete, fiumi, dilagate, acque,

esondate sorgenti, traboccate,

torrenti, diluviate, profumate

piogge, inebriatemi per ogni fiato,

fluidi amorosi, nettari divini,

penetratemi ovunque, e ricolmato

di voi, qualunque sia la vostra bocca

che, vinta, mi dispensa il suo liquore,

io berrò tutto, assorbirò la linfa

che mi cammina nelle vene, il vino

che m’inebria, la fiamma che mi accende.


4.


Non finirei, suppongo, di lasciarmi

da te tutto da capo ai piedi il corpo

innaffiarmi coi tiepidi e dorati

scrosci della tua più segreta ambrosia:

ne coglierò lo spumeggiante flutto

in una coppa, e lo berrò per trarne

l’intima entelechia che t’invera

nel momento in cui libero ti doni.


5.


Ripeteremo il rito un’altra volta,

e sarò io che dono a te l’ambrosia,

tu mi berrai e sentirai nel sorso

come per te si effonde la mia vita,

e si scioglie nel flusso che t’inonda,

così che me nel flusso ingoierai.


6.


L’ultima soglia di un rapito dono

vuoi tu che oltrepassiamo? Vuoi che il nostro

furore di rimescolarci, e l’ansia

d’impastare le nostre paste, tratte

che siano da quel profondo buco

darwiniano che le lavora, ci si

faccia nuova materia e nuovo impasto?

Io te l’offrirò quella materia,

e mi offrirai tu la tua. L’impasto

ci rigenererà, assaporato

l’uno dell’altro l’intimo sapore.

Follia di depravati, ci diranno:

ma noi conosceremo la follia,

che non c'è amore se non c'è follia,

conosceremo, anzi, la sua saggezza:

non c’è saggezza che non sia follia.


(revisione: 6 novembre 2025)


7.


Ma se fosse rinascita, riciclo

di sostanze, rimpasto di materia,

invece, questo rimescolamento

della nostra materia? Ne divoro

già la sublime pasta, ancora prima

che tu me la rovesci nella bocca,

già solo ripensandola venire.

La bocca che non parla saprà dirlo

quando avide le nostre labbra schiuse

succhieranno laggiù l’interna cosa:

materia che scompone la materia,

o fibra che rigenera le fibre.

Ultima soglia - o prima? - della vita.


8.


Fatto così tua preda, e trasformato

nel vaso che ti accoglie, anch’io, vedrai,

mi farò per amarti altra sorgente

che t’inonda, fontana che t’innaffia,

e verserò anch’io nella tua bocca

il nettare che inebria, il profumato

effluvio che di me ti colma, il denso,

interminato, miele che addolcisce,

per ogni vena, il cuore. Noi saremo

così l’uno per l’altro, l’uno e l’altro,

uno stesso liquore, un solo soffio

dell’alito perenne, perturbante,

che mescola il respiro delle cose

con il respiro che alimenta in noi

la nostra interminabile sostanza,

quella che materiata t’offre il labbro

da cui mi succhi e che mi chiedi, vita

che dell’Amore è aroma, ed è sostanza,

è la materia in noi sempre infinita,

che in noi da noi per l'altro è fatta e spinta.


(revisione: 6 novembre 2025)


9.


L’oscura bocca bramo che non parla,

dentro guardarla e sprofondarvi gli occhi,

i suoi meandri ansioso investigare,

e là finire dove più mi dono,

interminato bacio senza labbra,

dolcissimo fluire di profumi:

tuo nel perenne assorbimento d’ogni

tua cellula, e tu mio, in questo mutuo

assimilarci nel divino impasto.


(revisione: 6 novembre 2025)


10.


E se di te laggiù qualcosa avvenga

che s’attacchi e si mescoli al tuo vino,

oh suprema delizia, innamorata

voglia, con te confondermi beato,

l’ambrosia con il nettare composti,

fatto tua preda il succo e mio diletto

l’intreccio di sostanze e di profumi,

l’effondersi del corpo in altro corpo,

io morirò venendo, morirai

per me donando, l'uno e l'altro colmi

del liquore dell'altro, inabissati,

l'uno e l'altro, nel morbido fior-fiore

di sé stessi, delizia che in Olimpo

è pasto degli dei, quaggiù delirio

che infinita rimpasta la materia

del sogno che sogniamo l'uno e l'altro

assimilando da noi stessi il fuoco

che infiamma e incenerisce il desiderio:

un'unica sostanza i nostri corpi

l'uno nell'altro sprofondati e sfatti.


(revisione: 6 novembre 2025)


11.


Da limpida fontana più di questa

preziosa e generosa non mi sgorga

ambra più dolce l’amorosa canna,

né spumeggiante e tiepido più vivo

l’ansimante liquore: né più salsa

o effervescente l’odorata spuma.

Che alla fine, brindando da noi stessi,

dopo il pasto sublime che ci sfama,

l’effervescenza dell’interno umore,

anima mia, io più che tuo, sprofondo

materia di te stesso, nel tuo corpo.


12.


Se poi più densa, e bianca e profumata

si fa l’ambrosia, come più placata

godrò l’estrema goccia, o più ficcante

il grumo che m’incanta e mi pervade?

Dovunque tu mi colga, sarò tuo,

e mia sarà la tua sovrabbondanza.

E’ questa estrema goccia, amore mio,

l’essenza che ci avvera, la sostanza

che ci dà vita e che abolisce il male.


Fiano Romano, 15 agosto - Brescello, 25 agosto 2020

Revisione e rimodulazione, Fiano Romano, 24 giugno 2021

Itaca

 











DINO VILLATICO















ITACA




Ogni partenza attende
desïato ritorno,
tu sol del tuo tornar perdesti il giorno.


Giovanni Francesco Busenello - Claudio Monteverdi,

Il ritorno di Ulisse in patria


Anticlea1


La vedo che mi aspetta sulla porta

della casa di Santa Marinella,

il fusto della palma che s'innalza

come volesse reggere la volta

del cielo, sopra i rami e, dietro, il mare.

Ma non è lei che perdo e non rimango

a desolarmi il tempo che non odo

la sua voce: mi suggerisce un altro

tempo, e lo sguardo che m'invita sempre

a restare per qualche altro minuto

è ancora quello sguardo che mi fissa

e senza voce interroga il mio viaggio.


Sono io che là dentro non ci sono -

o forse già non c'ero quando l'occhio

s'illudeva che il quadro fosse l'atto

di una commedia che m'invento, il gesto

che finge un abbandono, mentre cerco

la mossa immaginaria di un ritorno.

Questo è mio figlio, il figlio prediletto -

le labbra quasi immobili parlando -

il figlio in cui mi sono compiaciuta,

diceva con rimpianto, quando accanto

a me scorgeva un volto sconosciuto,

l'amico casuale o qualche donna

che accettasse, segreta, la finzione.

Come se lei non lo sapesse. Un gioco,

fin da bambino, eludere l'attesa.

Così diverso, il figlio, dai suoi sogni,

la silenziosa riconferma, il premio

del suo passato: così sconosciuto

il futuro che le si palesava,

certo, ma come immagine distorta,

irrealizzato. Musica, poesia,

ribadivo, ma quanti da toccare,

a quanti destinato il troppo spreco

di paure, la troppo vezzeggiata

certezza degli addii? Prediletto,

oh sì, da lei, ma la predilezione

contrastata da tutti, e condivisa

da nessuno, nel focolare dove

avrebbe il mio voluto sempre acceso

fuoco di affinità, tra tanti gesti

di diniego, parole di rifiuto,

non almeno quell'altro, disatteso

fuoco, che dentro i cuori di chiunque,

di tutti gli altri, lo sentiva spento,

incenerito, o addirittura mai

acceso né dal figlio né da lei,

troppo impaurita di vederne presto

l'estinzione. Nel figlio, prima ancora

che negli altri. Di chi mai, dunque, figlio

se non della sventura di chiamarsi

Nessuno! E più nessuno, tra chi vive,

il ventre che gli aveva dato vita.


La nostalgia di te, figlio adorato,

la tenerezza mai comunicata,

e solo per difetto condivisa,

degli anni che non avevamo preso

sul serio, abituati a conteggiarli

come ineliminabili, sicuri,

perché chi avrebbe immaginato, figlio,

una separazione così presto?

senza bisogno di parole, noi

lo sapevamo, anche solo a guardarci,

noi lo percepivamo nelle vene,

al tocco di una mano, questo nostro

amore ricambiato. Ora è lontano

anche il ricordo di quei tuoi sorrisi

che cantavano strane melodie,

strane per me che non ne conoscevo

l'origine, che ne ignoravo il senso.


Oh madre! Ove tu sei, non sono, e sono

chi non sei più. Puerile la fatica

di chiederti perdono. Giunto al punto

che anch'io tra breve compirò lo stesso

tuo passo, m'è davanti, desolato,

un nulla assai più nulla del deserto

d'amore che m'è scivolato lieve

alle spalle e che io non ho saputo

trattenere. La voce, la tua voce,

m'è rimasta perenne nelle orecchie,

ma non più, tuttavia, come preghiera

di restare, bensì la punizione

di essermene voluto andare via.


A Berkeley, dove il fine del mio viaggio,

da me mai confessato, conoscevi,

e sapevi che no, non era viaggio

di turista, ma il mio pellegrinaggio

al santuario di una vita - solo

la lingua della religione al tuo

amore era capace di spiegare

l'amore - non conoscere paesi

nuovi era scopo del mio viaggio, scopo

era l'incontro con chi amavo, forse,

più di me stesso, e certo - che dolore! -

con chi amavo assai più di te. Scrivesti,

per questo, quella lettera brutale

in cui mi ricordavi che la terra

che mi era destinata era la terra

in cui mi avevi dato vita, e questa,

che adesso visitavo, era la terra

di un altro, che non era la mia terra.

Insistevi su la parola terra.

Forse perché sentivi in te la terra

d'ogni grembo in cui nascono le cose.

Ma non dicevi, né lo insinuavi,

che non era la tua, di terra, questa

dove pazzo ero andato a rifugiarmi.

Come se tu ordinassi, e con fermezza,

a chi assistesse eventualmente al parto,

l'atto di non recidere il cordone

ombelicale, l'atto di negarla

l'azione che decide l'altra vita,

e a vita ti restassi appiccicato,

come tua parte, come un'appendice.


E ci resto. Ci resto più che mai,

ora che non ci sei. Puoi giù dall'Ade

sussurrarmi le sillabe più dolci

del tuo possesso, anche ora che non puoi,

non mi possiedi. Resto con la pece

del pentimento, come un barattiere2,

invischiato nel tuo ricordo, sono

il ricordo, anzi, di questa simbiosi.

E l'amore, che tu pensavi avesse

forza di separarmi dal contatto

indissoluto, solido, tenace,

non ebbe invece forza di spezzare

le radici che salde mi stringevi

nel pugno e radicavi, inesorata,

nel punto del tuo corpo dove avevi

stabilito la sede del mio corpo,

ma soprattutto, e più, della mia vita.


Chi sa, mi chiedo, che quaggiù, se esiste

da qualche parte, in cielo, o sulla terra,

un altrove che continuiamo tutti

ad abitare, chi sa che in quel luogo

di fantasmi - se veri o immaginari

che importa - di sé stessi, ognuno sia

di sé la parte che si stacca o quella

che resta imprigionata nel ricordo

di un sé che non riesce a obliterare,

come un biglietto della metro fuori

servizio, perché l'obliteratrice

è guasta, e noi si resta per l'eterno

del tempo in uno spazio inattuato,

inattuati in un eterno vuoto,

Nessuno nella terra di nessuno,

un granello dell'essere che ha perso

l'occasione finale di tornare

finalmente a un non essere e finire.


                            Itaca

...

baciò la sua petrosa Itaca Ulisse ...

Foscolo, A Zacinto


Il palazzo, ah, il palazzo: se lo cerchi,

lo trovi dappertutto, perché ha questa

menomazione: non esiste3. Mai,

mai lo vedremo sorgere da qualche

colle, anche solo una pietraia, qualche

sasso squadrato, un corridoio, un pozzo,

una colonna frantumata in mezzo

ai rovi, alle radici di un cipresso.

L'isolano mi guarda, mi sorride.

S'allontana sommesso verso il porto,

biascica qualche sillaba tra i denti,

mugugnando, ma non si volta: μάτια

μου, που πaς; είναι έτερος ο δρόμος,

έτερος, φίλε μου. Τίποτα ξέρις.4

L'orgoglio, penso, di chi nasce greco.

Noi non sappiamo, noi ci spaventiamo.

E la terra non ha per noi che segni

transitori. Ci vede il tempo, il passo

quotidiano del tempo, la misura

di ciò che resta, dentro il divenire

caotico di ciò che si disperde.

La fermata dell'autobus si chiama

στάσις, un Archimede ne ha previsto

l'equilibrio tra un ieri che dilegua

e il domani ch'è solo l'avventura

di un auspico. Chi resta lo racconta.

Guardo giù nella baia di Fríkes,

le barche a vela che ancorate a largo,

già beccheggiano al vento di settembre,

e su dalle taverne arriva rauco

il vocio dei garzoni, mentre in alto

acuto stride l'urlo dei gabbiani.

C'era una volta un fiume, anzi un torrente,

che da questo pendio scendeva al porto,

ora ci sono sterpi, erbaccia, salvia,

e c'è il fossato pieno d'immondizia.

Una lastra di marmo, sulla roccia,

nel porto, a picco sopra il molo, dice

che da qui l'invasore italiano, senza

nemmeno una battaglia, fu cacciato

dagl'isolani, e spinto in mare aperto.

Ah già, gli eroi del fascio, i bei balilla.

Dovevamo spezzare alla marmaglia

greca le reni, opprimerne l'orgoglio:

fummo dai greci ricacciati indietro,

buttati in mare come spazzatura.

Una lapide sulla nuda roccia

ricorda che eravamo gli aggressori

e dunque noi la spazzatura, i vinti,

gli inetti che violavano un paese.

Oggi il palazzo lo chiamano scuola,

scuola di Omero, e le rovine antiche

si alzano, basse, dal dirupo, quattro

grandi massi ciclopici, la reggia,

o più sensatamente la dimora

di chi forse era signore, ma uguale

tra i signori, attingendo alla comune

fonte l'acqua di casa. Eppure, nel silenzio

degli alberi e dei colli, si respira

il vento delle antiche storie. Certo,

τίποτα5, io non so niente, φίλε Ιτάκης6.

Me lo racconterai tu questo sogno?

Itaca è un sogno, una immaginazione,

un pensiero di quale altra memoria

che questa che m'inchioda alle mie storie?

Ah, non lo so, sì, certo, da che mondo

venute, questo è storia di chi vede

al di là dello sguardo che misura

il profilo dei monti all'orizzonte,

giù nel lontano Epiro, dopo il varco

di Cefalonia. Non esiste, dici,

o non vogliamo che ci spunti a un tratto

sotto gli occhi? Ci smentirebbe Ulisse

troppe inutili storie, tra le tante

che noi ci raccontiamo per salvarci

la faccia. Se Penelope lo attese,

e ne morì Anticlea, la madre, vinta

dalla disperazione dell'attesa,

noi qua che lo perdemmo, quale attesa

duriamo e di che cosa? Ο δρόμος είναι

αλλού, άλλη ζοή7. La vita è altrove,

altrove la speranza di guardarla.

Non sai chi sei, mi dice il dio che ride.

E Pénteo lo indossa il femminile

ammanto, meno disadorno, forse,

dell'ammanto di Saffo. Aspetta invano

il verecondo raggio, e non si schianta

sul mare la cadente luna. Solo

vede la rabbia negli occhi di sua

madre, prima che scortichino le unghie

la sua pelle. Distesse la sua tela,

ogni notte Penelope, tessuta

nel giorno dell'attesa. Noi tessiamo

per Nessuno la tela trasparente

di queste nostre antiche storie. L'occhio

sarà distratto dal leggero velo

di discordanze che tra l'una e l'altra

dissemina l'oblio. È dentro questa nebbia,

questa foschia della memoria, figli

di troppi padri, che perdiamo il filo

del labirinto, il segno del sentiero,

inesperti navigatori, dentro

il palazzo perdiamo il passo, Arianna

non ci soccorre a decifrarne il verso,

è muto il canto, afasica la voce.

Avessero le madri altre sorgenti,

d'acqua più nera le lacrime sparse

a dissetare un prosciugato labbro,

il fiume dei ricordi scorrerebbe

più silenzioso, e ne zampillerebbe

più limpida nel pozzo la sorgente

delle parole invano pronunciate,

prima di ogni distacco. Torneremo,

il tempo sparirà come un improvviso

serrarsi delle ciglia, e guarderemo

anche noi nei nostri occhi questo atteso

ritorno. Piega le ginocchia, il cuore

ti dirà quale sia, da questo letto

che le mie mani hanno per te scolpito,

il nome che t'è dentro impronunciato

da venti anni. Ma il tuo, mia dolce assente,

anche tradito, il tuo m'è stato sempre

sulle labbra ogni notte delibato

nell'attesa del sonno, che potesse,

in quello spazio vuoto dove ognuno

affonda i suoi rimorsi, riallacciarci.

Ora, ecco la veduta, dal ripiano

della finestra che racchiude il nostro

rettangolo di cielo, dove guardo,

accecato dal dio che mi defrauda

di un ritorno, la bocca che mi aspetta,

la tua che ormai non bacio da venti anni.

Erano mie parole, supponevo

un destino, mi scopro a reinventare

me stesso. A disegnarmi una figura

che corrisponda a tutte le mie voci.

Sarà che ogni destino, su chiunque

si avventi, preveduto o impreveduto,

è ogni volta il destino di Nessuno.


Penelope


Fino a quanto, anzi, peggio, fino a quando,

potrà l'amore, se d'amore ha nome

anche il nodo che tollera l'assenza,

e fino a quale limite sopporta

che si allontani l'alba del contatto?

si differisca il giorno del ritorno?

la delusione si sopprima, quasi

sempre prevista, del suo fallimento?

Non conto gli anni. Conto i mesi, i giorni,

conto le ore che avverto trascorse

dal momento che vidi la tua nave

veloce scomparire all'orizzonte.

È là. è ancora là, mi balbettava

Euriclea, stringendomi la mano,

non è ancora sparita dalla vista.

Sei tu, figlia, che affretti la scomparsa.

Affrettavo l'inizio del dolore,

l'evacuazione dei miei giorni, il niente

della vita che svuota il mio presente,

lo ammucchia di ricordi, lo defrauda

di desideri, e vendica la fuga

con l'ossessione vana di un ritorno.

E scruto i fili, i nodi, le giunture,

le sfumature di colore, in ogni

striscia di tela che distesso, quando

spunta la prima stella, e tra le corde

allentate tralascio inoperosa

la spola, trasparente appaia ai Proci

questa fatica imposta che mi nega

ogni assenso di nozze, che rinvia

a un'alba che non sorge la finale

decisione, la mia condanna, il peso

di un'attesa che anch'io già so delirio.

Ma nessuno ha lo sguardo acuminato

che interroghi la trasparenza cieca

del mio cuore, le cicatrici impresse

nella memoria dal tuo passo immoto

che non visita il folto crocevia

dei miei pensieri, il labirinto opaco

dove ti attendo, e non ho il filo d'oro,

come Arianna, a guidarti, fino all'occhio

che anticipa la mano che dovrebbe

stringere questa mano a te dovuta.

Sogno la notte quell'incontro. Temo

perfino che in quell'ultimo momento,

che finalmente ti vedrò chinarti

davanti a me come quando chiedesti

la mia mano, sfiancata dall'attesa

io non ti riconoscerò. Temendo,

chi sa, l'inganno, uno dei tuoi, dei tanti,

o perché il tempo, l'opera di un dio,

non solo la tua faccia, avrà, può darsi,

perfino sfigurata anche la mia

memoria. O il desiderio, mai negato,

di ritrovarti come ti ricordo.

Venti anni, amore. E non un giorno privo

dell'ansia di vederti. Al punto, amico,

che qualche volta credo di vederti,

basta il soffio di un'ombra, basta il raggio

di sole che attraversa la finestra,

e sulla luce appari come un mio

rimorso. Vedi, scriteriata? vedi

che arrivo? Ma una nuvola poi spegne

il raggio, e tu scompari. Sei davvero

scomparso, amore mio? e non ritorni?



    Penelope, la seconda volta


E adesso, amore mio? Adesso, dimmi,

vuoi condannarmi a essere una pietra?

Come Niobe, un sasso che delira?

Sfidare tu gli dei, con questa nuova

tua spacconata? tu che un'altra volta

lasci la casa, parti, ma per dove

nemmeno tu lo sai, non io che resto,

che recito la rappresentazione

della mia fedeltà? Chi ammazzerai,

questa volta? mostruosi ignoti di una

terra ignota, o tuoi rivali in questa,

ch'è la tua terra, ma che con piacere

abbandoni per esplorare terre

sconosciute, possibili colonie

della tua ingordigia di dominio?

Era allora un bambino, chi al ritorno

ritrovasti ragazzo. Vuoi vederlo

incanutito a questo tuo ritorno,

a questo nuovo tuo ritorno? e vecchio,

quanto gli apparirai, se apparirai

un'altra volta al figlio che ti aspetta,

alla moglie, se viva, al tuo ritorno,

come la prima volta, anche tua moglie

troverai. Non so quale smania, quale

furibonda libidine di esordio,

ti spinga sempre ad inseguire l'ombra

di te stesso, lasciare la certezza

del tuo passato, per incamminarti

sulla rotta di sconosciute stelle,

affrontare gli sguardi e forse l'odio

di nemici inventati, intrattenere,

chi sa, suadenti voci di sirene

e di ninfe, legato un'altra volta

all'albero robusto della nave,

lasciarti carezzare, non è vero?

dalle sinuose e laboriose mani

di solitarie naiadi o flessuose

driadi, che t'offrano immortale

permanenza di astuzie, imperitura

coscienza di te stesso. Non ti basta

chi sei? chi sono io che qui ti resto

accanto, io che ti aspetto e che ti aspetto

ogni volta che parti? sempre, sempre!

O l'immortalità che cerchi, è forse

qualcos'altro? Non certo la memoria

degli altri, ma tu di te stesso, vero?

rifiutare la fine, permanere

nell'avventura di commemorarti

ogni volta diverso, separato

dal cliché dell'astuto, dal poeta

che ogni volta reinventa il proprio viaggio.

Prova per questa volta a immaginarti

- non a inventarti, non a reinventarti

ogni volta da capo, architettare

nuove, diverse immagini del tuo

multiforme delirio di potenza -

tenta di figurarti almeno questa

volta che cosa sia l'attesa, il senso

di un'attesa, per chi non ha più scopo,

per chi non ha più scampo che aspettarti.

Ah già, dimenticavo. Generoso,

inattuato amante, in ermi lidi,

in isole lontane, rifiutasti,

rifiutasti per me, per ritornarmi

accanto, per dormire nel mio letto,

rifiutasti una vita d'immortale.

Per ritornarmi accanto, o per mostrare

nella tua terra a tutti il tuo dominio?

Devo aspettarti, Ulisse? Devo ancora,

come sempre, aspettarti? E come, dimmi,

tu, questa volta, mi ritornerai?

O come, di', me che sarò rimasta,

ritroverai? come tuo figlio, come,

qui nella casa, qui nella tua terra,

ritroverai tu tutti gli altri, dimmi,

che avranno, in vari modi, e nell'angoscia,

atteso il tuo ritorno? Chi saranno?

O meglio: chi saremo? E chi sarai?


                Telemaco


Ma come avrei potuto a te. mio padre,

io confidarti turbamenti nuovi

che non avevo ancora percepiti

sulla pelle, le prime inavvertite

polluzioni durante il sonno, il volto

che mi guarda, nascosto dietro il letto,

ed era il tuo, non so se di rimbrotto

o se di approvazione: sei venuto

finalmente tra gli uomini, doveva

o prima o poi succedere, spavento

non ti colga di quanto ti è successo.

Come, non spaventarmi, in quella casa

senza di te? mia madre, spaventata

lo è più di me, ed è tua moglie, dunque

signora della casa. Ma spavento

non ha per me, per questi turbamenti,

non ne sa niente, il suo spavento è d'altro.

Teme per la mia vita. E con ragione.

I tuoi rivali - già, sono rivali! -

li sapevo nemici, e c'era pure

chi spudorato, anzi più svergognato,

più impudente degli altri, mi chiedeva,

addirittura anzi mi supplicava

di accostarmi, m'insinuava ignoro

quanto tra noi più intimi e segreti

colloqui, il bel ragazzo del tiranno

dell'isola, diceva, ma sentiamo

se dal suo corpo, un tenero virgulto,

si produce anche per noi delizia, come,

se stesse qui, chi sa che di più accese

ne proverebbe, solo anche a guardarlo,

il padre, e assaporato nella mente

il gaudio lo destinerebbe a nozze,

qualche ninfa nascosta, qualche dea,

degna di lui, che nasca da Titani.

Ma tu non c'eri, padre. Non potevi

rimbeccarlo, l'osceno adescatore,

l'audace verme, e rintuzzare, come

sarebbe giusto, le lubriche voglie.

Se gli occhi tristi di mia madre, scarsa

difesa, inerme scudo a quegli oltraggi,

per chi conosce solo la parola

delle spade, mi avessero protetto,

non erano che trasparente pianto

per il sadico intento di ferirmi,

sicuramente ignota, impreveduta,

anzi m'avrebbe la stoccata tolta

chi sa, con la mia vita, anche perfino

l'innocenza, e stuprata la natura.

Non sapevo nemmeno che profilo,

nella mia mente ignara del tuo volto,

disegnarti degli occhi, che figura

della tua bocca, e che apparenza

conferirti di padre o di guerriero.

Quando salpò dal porto la tua nave,

non sapevo nemmeno dirti addio,

non conoscevo la parola, quella

sola per me, con cui chiamarti, πάππα8,

di' solo πάππα, ripeteva, stanca

di ripeterlo, l'occhio triste appena

socchiuso, strofinandomi la guancia

con le labbra, colei che tu chiamavi,

urlando, dalla poppa, Πηνελόπη,

Πηνελόπη, ὁ πόλεμος βραχύς

ἔσται, βραχύς ὁ νόστος. Μ'ὑπομένον.9

Il vomere che stava per tagliarmi

in due, tu l'arrestasti, e non ti valse

finzione di pazzia. Pazzia la guerra,

come la bella Elena mi disse

più tardi a Sparta, insieme a Menelao,

fratello dell'ucciso appena giunto

padre di Oreste, nel convito offerto

laggiù per me, al figlio di Nessuno,

e ripeteva, con la voce rotta,

piangendo: strage inutile la guerra

che mossero gli Achei, protervi eroi,

al giovane pastore, per lo sfregio

di un rapimento, una questione, questa,

che si poteva sciogliere più presto

discutendone intorno ad una mensa,

bevendo vino nero e libagioni

offrendo al dio di Tebe, invece, stolti!

di bagnare la terra con il nero

sangue di vincitori e di sconfitti.

Tanto più che laggiù, nelle feconde

zolle dei Frigi, Paride condusse,

come sembra, una nuvola. Gli dei,

sempre invidiosi della contentezza

umana, questo fato di sterminio,

a spegnerne la boria, con fermezza

decretarono: il peso dei viventi

non schiacciasse la pelle della terra,

ma liberata dall'ingombro prenda

fiato per ogni singolo caduto

che perda con il soffio la sua vita.

Ecco: la morte celebra il trionfo

sopra un mucchio di corpi ammonticchiati,

mentre nell'Ade, giù, per un fantasma,

finiscono gli eroi dell'Occidente

e dell'Oriente, giù sbattuti in fila

come fossero polli sullo spiedo.

Che siamo? e dove sei andato? Quale

fantasma ci visiterà tornando

in queste nostre notti senza sonno?

Tua moglie è vecchia. E sono stanco anch'io

di aspettarti. E di non sapere mai

quale sarà il tuo giorno del ritorno.

Guardati nello specchio. I peli bianchi

della barba ti avvertiranno, credo,

che anche i miei s'imbiancano sul mento.


                        Laerte


Dai maligni si dice che mia moglie

ebbe da un altro il figlio che ha girato

tutti i mari del mondo. La perfidia

di Sisifo, come ha ingannato il cauto

contadino, che con lo scettro tenne

anche l'aratro, è linfa che gorgoglia

nel sangue di Nessuno. Ma certo, sembra

che la mia compagnia gli dia fastidio,

come non fossi io suo padre. Strano,

però, che se la devozione manca

nel figlio per il padre, un sentimento

di appartenenza brucia le mie vene

per questo figlio. Basta che io lo veda,

e il primo impulso è solo di abbracciarlo.

Non so niente di lui. Non mi confessa

i suoi dubbi, le sue meditazioni.

Salvo mi dia la dea la giovinezza

per combattere contro i Proci al fianco

di mio figlio. Diletto dall'Olimpo,

detestato dal dio del mare, scelse

par patria il mare, e le avventure estreme

tra la nota malvagità dell'uomo

e l'ignota slealtà dei mostri. Un senso,

ignobile o felice che mai fosse,

indagando nel vortice inumano

del mostro e nell'umana insidia d'ogni

suo simile. Perfetto l'adeguarsi

in ogni circostanza a ciò che accade.

Perfino a ciò che non si riconosce.

L'intimità sospetta con la dea,

per esempio. O di chi si manifesta,

per lui soltanto, dea, donna per gli altri.

Ho paura di lui. Più mi spaventa,

però, scrutarne i labirinti, il vuoto

che non appare, e più mi riconfermo,

anzi sento di amarlo. Un uomo come

me, come tutti. E come tutti, solo.

La ferocia, che male sembra unirsi

all'astuzia, per chi la pensa istinto

bestiale e non intelligenza, come

invece agisce, ha il marchio della stirpe

di Deucalione, un popolo di torvi

scrutatori del cielo, se la vista

vi si offre di una preda. Li colpivo

senza sbagliare il colpo. Per ognuno

che cadeva trafitto, gongolavo

come un bambino che ha schiacciato un rospo.

La prima freccia che trafisse il petto

di Antinoo fu fulmine di Zeus,

urlo che nel mio petto lancinava

la rabbia per l'usurpatore, l'odio

per chi prevaricava i suoi confini

di suddito, e per la bellezza oscena

che soppiantava il vincolo di legge.

Supposi infine che la freccia scaltra

eliminasse dalla gara il figlio

che si credeva assente, un sacrificio

in cui ferendo il figlio finalmente

trafiggevo me stesso. Debosciato

ragazzo, la bellezza non ti salva,

sei perduto, perché qualcuno quella

bellezza se l'è messa sotto i piedi.

E quel Qualcuno è questo mio Nessuno.

Prova, da quest'inerzia di defunto

a riunire le sillabe di un nome.

Vendicavo l'oltraggio dell'astuto

Titano, era Nessuno chi feroce

ti eliminava, sottraeva il labbro

al bacio che tu avido aspiravi

succhiare dalle labbra di sua moglie.

Sopprimevo con una freccia, tutta

la mia storia. Io, padre di Nessuno.

E forse, il tuo, se il figlio avessi ucciso,

e ucciso insieme il figlio di suo figlio.

Il figlio m'era accanto. E continuava

a trafiggere i Proci, uno per uno.

L'infilzato giaceva a terra, sparso

sul pavimento il vino, scivolata

dalle mani la coppa, tra le mura

ci furono rintocchi di metallo,

ogni rintocco il tonfo di un respiro,

ogni respiro il termine voluto

del fiato di Nessuno. Ebbe una fine

anche la strage. Fu scavata in petto

questa mia solitudine di padre.

Nessuno ebbe più forza di chiamarsi

mio figlio. Ma per questo, più di prima,

fui padre di quell'unico mio figlio.

E io, padre, di chi sarò mai figlio,

io che negai, Laerte, la paterna

bocca per pronunciarne il nome? Il nome

di chi non nacque. Io che ti scrivo, e scrivo

nella tua storia la mia stessa storia.

Da ragazzi non si conosce il fato

di chi dovrebbe nascere. Per questo

si decide di rifiutargli un nome,

e con il nome il suo destino. Nasce

già Nessuno chi gli si nega vita.


                L'enigma


L'enigma nessun Èdipo potrebbe

decifrarlo, Nessuno se Qualcuno

designasse, e vi si riconoscesse

respirante il respiro di Ciascuno.

La Sfinge ormai non può che suicidarsi.


Fiano Romano, 15 - 23 aprile 2025

Revisione: 7 novembre 2025

1Madre di Odisseo, Ulisse, che l'eroe incontra nell'Ade, Odissea, canto XI,

2Nel canto dei "barattieri", i dannati sono immersi nella pece bollente, Dante, Inferno, XXI.

3La frase è ispirata da un passo del libro La dimora di Penelope, Itaca: appunti di una storia archeologica, di Maddalena Reni (Valtrend editore, 2025), a pag.46.

4Gioia mia, dove vai? è un altro il cammino, / un altro, amico mio. Non sai niente.

5niente.

6amico di Itaca.

7La strada è un'altra, altra la vita.

8Papà.

9Penelope, / Penelope, la guerra breve / sarà, breve il ritorno. Aspettami.