DINO VILLATICO
ITACA
Ogni
partenza attende
desïato
ritorno,
tu
sol del tuo tornar perdesti il giorno.
Giovanni
Francesco Busenello - Claudio Monteverdi,
Il
ritorno di Ulisse in patria
Anticlea
La vedo che mi aspetta sulla porta
della casa di Santa Marinella,
il fusto della palma che s'innalza
come volesse reggere la volta
del cielo, sopra i rami e, dietro, il mare.
Ma non è lei che perdo e non rimango
a desolarmi il tempo che non odo
la sua voce: mi suggerisce un altro
tempo, e lo sguardo che m'invita sempre
a restare per qualche altro minuto
è ancora quello sguardo che mi fissa
e senza voce interroga il mio viaggio.
Sono io che là dentro non ci sono -
o forse già non c'ero quando l'occhio
s'illudeva che il quadro fosse l'atto
di una commedia che m'invento, il gesto
che finge un abbandono, mentre cerco
la mossa immaginaria di un ritorno.
Questo è mio figlio, il figlio prediletto -
le labbra quasi immobili parlando -
il figlio in cui mi sono compiaciuta,
diceva con rimpianto, quando accanto
a me scorgeva un volto sconosciuto,
l'amico casuale o qualche donna
che accettasse, segreta, la finzione.
Come se lei non lo sapesse. Un gioco,
fin da bambino, eludere l'attesa.
Così diverso, il figlio, dai suoi sogni,
la silenziosa riconferma, il premio
del suo passato: così sconosciuto
il futuro che le si palesava,
certo, ma come immagine distorta,
irrealizzato. Musica, poesia,
ribadivo, ma quanti da toccare,
a quanti destinato il troppo spreco
di paure, la troppo vezzeggiata
certezza degli addii? Prediletto,
oh sì, da lei, ma la predilezione
contrastata da tutti, e condivisa
da nessuno, nel focolare dove
avrebbe il mio voluto sempre acceso
fuoco di affinità, tra tanti gesti
di diniego, parole di rifiuto,
non almeno quell'altro, disatteso
fuoco, che dentro i cuori di chiunque,
di tutti gli altri, lo sentiva spento,
incenerito, o addirittura mai
acceso né dal figlio né da lei,
troppo impaurita di vederne presto
l'estinzione. Nel figlio, prima ancora
che negli altri. Di chi mai, dunque, figlio
se non della sventura di chiamarsi
Nessuno! E più nessuno, tra chi vive,
il ventre che gli aveva dato vita.
La nostalgia di te, figlio adorato,
la tenerezza mai comunicata,
e solo per difetto condivisa,
degli anni che non avevamo preso
sul serio, abituati a conteggiarli
come ineliminabili, sicuri,
perché chi avrebbe immaginato, figlio,
una separazione così presto?
senza bisogno di parole, noi
lo sapevamo, anche solo a guardarci,
noi lo percepivamo nelle vene,
al tocco di una mano, questo nostro
amore ricambiato. Ora è lontano
anche il ricordo di quei tuoi sorrisi
che cantavano strane melodie,
strane per me che non ne conoscevo
l'origine, che ne ignoravo il senso.
Oh madre! Ove tu sei, non sono, e sono
chi non sei più. Puerile la fatica
di chiederti perdono. Giunto al punto
che anch'io tra breve compirò lo stesso
tuo passo, m'è davanti, desolato,
un nulla assai più nulla del deserto
d'amore che m'è scivolato lieve
alle spalle e che io non ho saputo
trattenere. La voce, la tua voce,
m'è rimasta perenne nelle orecchie,
ma non più, tuttavia, come preghiera
di restare, bensì la punizione
di essermene voluto andare via.
A Berkeley, dove il fine del mio viaggio,
da me mai confessato, conoscevi,
e sapevi che no, non era viaggio
di turista, ma il mio pellegrinaggio
al santuario di una vita - solo
la lingua della religione al tuo
amore era capace di spiegare
l'amore - non conoscere paesi
nuovi era scopo del mio viaggio, scopo
era l'incontro con chi amavo, forse,
più di me stesso, e certo - che dolore! -
con chi amavo assai più di te. Scrivesti,
per questo, quella lettera brutale
in cui mi ricordavi che la terra
che mi era destinata era la terra
in cui mi avevi dato vita, e questa,
che adesso visitavo, era la terra
di un altro, che non era la mia terra.
Insistevi su la parola terra.
Forse perché sentivi in te la terra
d'ogni grembo in cui nascono le cose.
Ma non dicevi, né lo insinuavi,
che non era la tua, di terra, questa
dove pazzo ero andato a rifugiarmi.
Come se tu ordinassi, e con fermezza,
a chi assistesse eventualmente al parto,
l'atto di non recidere il cordone
ombelicale, l'atto di negarla
l'azione che decide l'altra vita,
e a vita ti restassi appiccicato,
come tua parte, come un'appendice.
E ci resto. Ci resto più che mai,
ora che non ci sei. Puoi giù dall'Ade
sussurrarmi le sillabe più dolci
del tuo possesso, anche ora che non puoi,
non mi possiedi. Resto con la pece
del pentimento, come un barattiere,
invischiato nel tuo ricordo, sono
il ricordo, anzi, di questa simbiosi.
E l'amore, che tu pensavi avesse
forza di separarmi dal contatto
indissoluto, solido, tenace,
non ebbe invece forza di spezzare
le radici che salde mi stringevi
nel pugno e radicavi, inesorata,
nel punto del tuo corpo dove avevi
stabilito la sede del mio corpo,
ma soprattutto, e più, della mia vita.
Chi sa, mi chiedo, che quaggiù, se esiste
da qualche parte, in cielo, o sulla terra,
un altrove che continuiamo tutti
ad abitare, chi sa che in quel luogo
di fantasmi - se veri o immaginari
che importa - di sé stessi, ognuno sia
di sé la parte che si stacca o quella
che resta imprigionata nel ricordo
di un sé che non riesce a obliterare,
come un biglietto della metro fuori
servizio, perché l'obliteratrice
è guasta, e noi si resta per l'eterno
del tempo in uno spazio inattuato,
inattuati in un eterno vuoto,
Nessuno nella terra di nessuno,
un granello dell'essere che ha perso
l'occasione finale di tornare
finalmente a un non essere e finire.
Itaca
...
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse ...
Foscolo, A Zacinto
Il palazzo, ah, il palazzo: se lo cerchi,
lo trovi dappertutto, perché ha questa
menomazione: non esiste.
Mai,
mai lo vedremo sorgere da qualche
colle, anche solo una pietraia, qualche
sasso squadrato, un corridoio, un pozzo,
una colonna frantumata in mezzo
ai rovi, alle radici di un cipresso.
L'isolano mi guarda, mi sorride.
S'allontana sommesso verso il porto,
biascica qualche sillaba tra
i denti,
mugugnando, ma non si
volta: μάτια
μου, που πaς;
είναι έτερος ο δρόμος,
έτερος, φίλε μου. Τίποτα ξέρις.
L'orgoglio, penso, di chi nasce greco.
Noi non sappiamo, noi ci spaventiamo.
E la terra non ha per noi che segni
transitori. Ci vede il tempo, il passo
quotidiano del tempo, la misura
di ciò che resta, dentro il divenire
caotico di ciò che si disperde.
La fermata dell'autobus si chiama
στάσις, un
Archimede ne ha previsto
l'equilibrio tra un ieri che dilegua
e il domani ch'è solo l'avventura
di un auspico. Chi resta lo racconta.
Guardo giù nella baia di Fríkes,
le barche a vela che ancorate a largo,
già beccheggiano al vento di settembre,
e su dalle taverne arriva rauco
il vocio dei garzoni, mentre in alto
acuto stride l'urlo dei gabbiani.
C'era una volta un fiume, anzi un torrente,
che da questo pendio scendeva al porto,
ora ci sono sterpi, erbaccia, salvia,
e c'è il fossato pieno d'immondizia.
Una lastra di marmo, sulla roccia,
nel porto, a picco sopra il molo, dice
che da qui l'invasore italiano, senza
nemmeno una battaglia, fu cacciato
dagl'isolani, e spinto in mare aperto.
Ah già, gli eroi del fascio, i bei balilla.
Dovevamo spezzare alla marmaglia
greca le reni, opprimerne l'orgoglio:
fummo dai greci ricacciati indietro,
buttati in mare come spazzatura.
Una lapide sulla nuda roccia
ricorda che eravamo gli aggressori
e dunque noi la spazzatura, i vinti,
gli inetti che violavano un paese.
Oggi il palazzo lo chiamano scuola,
scuola di Omero, e le rovine antiche
si alzano, basse, dal dirupo, quattro
grandi massi ciclopici, la reggia,
o più sensatamente la dimora
di chi forse era signore, ma uguale
tra i signori, attingendo alla comune
fonte l'acqua di casa. Eppure, nel silenzio
degli alberi e dei colli, si respira
il vento delle antiche storie. Certo,
τίποτα,
io non so niente, φίλε Ιτάκης.
Me lo racconterai tu questo sogno?
Itaca è un sogno, una immaginazione,
un pensiero di quale altra memoria
che questa che m'inchioda alle mie storie?
Ah, non lo so, sì, certo, da che mondo
venute, questo è storia di chi vede
al di là dello sguardo che misura
il profilo dei monti all'orizzonte,
giù nel lontano Epiro, dopo il varco
di Cefalonia. Non esiste, dici,
o non vogliamo che ci spunti a un tratto
sotto gli occhi? Ci smentirebbe Ulisse
troppe inutili storie, tra le tante
che noi ci raccontiamo per salvarci
la faccia. Se Penelope lo attese,
e ne morì Anticlea, la madre, vinta
dalla disperazione dell'attesa,
noi qua che lo perdemmo, quale attesa
duriamo e di che cosa? Ο δρόμος είναι
αλλού, άλλη ζοή.
La vita è altrove,
altrove la speranza di guardarla.
Non sai chi sei, mi dice il dio che ride.
E Pénteo lo indossa il femminile
ammanto, meno disadorno, forse,
dell'ammanto di Saffo. Aspetta invano
il verecondo raggio, e non si schianta
sul mare la cadente luna. Solo
vede la rabbia negli occhi di sua
madre, prima che scortichino le unghie
la sua pelle. Distesse la sua tela,
ogni notte Penelope, tessuta
nel giorno dell'attesa. Noi tessiamo
per Nessuno la tela trasparente
di queste nostre antiche storie. L'occhio
sarà distratto dal leggero velo
di discordanze che tra l'una e l'altra
dissemina l'oblio. È dentro questa nebbia,
questa foschia della memoria, figli
di troppi padri, che perdiamo il filo
del labirinto, il segno del sentiero,
inesperti navigatori, dentro
il palazzo perdiamo il passo, Arianna
non ci soccorre a decifrarne il verso,
è muto il canto, afasica la voce.
Avessero le madri altre sorgenti,
d'acqua più nera le lacrime sparse
a dissetare un prosciugato labbro,
il fiume dei ricordi scorrerebbe
più silenzioso, e ne zampillerebbe
più limpida nel pozzo la sorgente
delle parole invano pronunciate,
prima di ogni distacco. Torneremo,
il tempo sparirà come un improvviso
serrarsi delle ciglia, e guarderemo
anche noi nei nostri occhi questo atteso
ritorno. Piega le ginocchia, il cuore
ti dirà quale sia, da questo letto
che le mie mani hanno per te scolpito,
il nome che t'è dentro impronunciato
da venti anni. Ma il tuo, mia dolce assente,
anche tradito, il tuo m'è stato sempre
sulle labbra ogni notte delibato
nell'attesa del sonno, che potesse,
in quello spazio vuoto dove ognuno
affonda i suoi rimorsi, riallacciarci.
Ora, ecco la veduta, dal ripiano
della finestra che racchiude il nostro
rettangolo di cielo, dove guardo,
accecato dal dio che mi defrauda
di un ritorno, la bocca che mi aspetta,
la tua che ormai non bacio da venti anni.
Erano mie parole, supponevo
un destino, mi scopro a reinventare
me stesso. A disegnarmi una figura
che corrisponda a tutte le mie voci.
Sarà che ogni destino, su chiunque
si avventi, preveduto o impreveduto,
è ogni volta il destino di Nessuno.
Penelope
Fino a quanto, anzi, peggio, fino a quando,
potrà l'amore, se d'amore ha nome
anche il nodo che tollera l'assenza,
e fino a quale limite sopporta
che si allontani l'alba del contatto?
si differisca il giorno del ritorno?
la delusione si sopprima, quasi
sempre prevista, del suo fallimento?
Non conto gli anni. Conto i mesi, i giorni,
conto le ore che avverto trascorse
dal momento che vidi la tua nave
veloce scomparire all'orizzonte.
È là. è ancora là, mi balbettava
Euriclea, stringendomi la mano,
non è ancora sparita dalla vista.
Sei tu, figlia, che affretti la scomparsa.
Affrettavo l'inizio del dolore,
l'evacuazione dei miei giorni, il niente
della vita che svuota il mio presente,
lo ammucchia di ricordi, lo defrauda
di desideri, e vendica la fuga
con l'ossessione vana di un ritorno.
E scruto i fili, i nodi, le giunture,
le sfumature di colore, in ogni
striscia di tela che distesso, quando
spunta la prima stella, e tra le corde
allentate tralascio inoperosa
la spola, trasparente appaia ai Proci
questa fatica imposta che mi nega
ogni assenso di nozze, che rinvia
a un'alba che non sorge la finale
decisione, la mia condanna, il peso
di un'attesa che anch'io già so delirio.
Ma nessuno ha lo sguardo acuminato
che interroghi la trasparenza cieca
del mio cuore, le cicatrici impresse
nella memoria dal tuo passo immoto
che non visita il folto crocevia
dei miei pensieri, il labirinto opaco
dove ti attendo, e non ho il filo d'oro,
come Arianna, a guidarti, fino all'occhio
che anticipa la mano che dovrebbe
stringere questa mano a te dovuta.
Sogno la notte quell'incontro. Temo
perfino che in quell'ultimo momento,
che finalmente ti vedrò chinarti
davanti a me come quando chiedesti
la mia mano, sfiancata dall'attesa
io non ti riconoscerò. Temendo,
chi sa, l'inganno, uno dei tuoi, dei tanti,
o perché il tempo, l'opera di un dio,
non solo la tua faccia, avrà, può darsi,
perfino sfigurata anche la mia
memoria. O il desiderio, mai negato,
di ritrovarti come ti ricordo.
Venti anni, amore. E non un giorno privo
dell'ansia di vederti. Al punto, amico,
che qualche volta credo di vederti,
basta il soffio di un'ombra, basta il raggio
di sole che attraversa la finestra,
e sulla luce appari come un mio
rimorso. Vedi, scriteriata? vedi
che arrivo? Ma una nuvola poi spegne
il raggio, e tu scompari. Sei davvero
scomparso, amore mio? e non ritorni?
Penelope, la seconda volta
E adesso, amore mio? Adesso, dimmi,
vuoi condannarmi a essere una pietra?
Come Niobe, un sasso che delira?
Sfidare tu gli dei, con questa nuova
tua spacconata? tu che un'altra volta
lasci la casa, parti, ma per dove
nemmeno tu lo sai, non io che resto,
che recito la rappresentazione
della mia fedeltà? Chi ammazzerai,
questa volta? mostruosi ignoti di una
terra ignota, o tuoi rivali in questa,
ch'è la tua terra, ma che con piacere
abbandoni per esplorare terre
sconosciute, possibili colonie
della tua ingordigia di dominio?
Era allora un bambino, chi al ritorno
ritrovasti ragazzo. Vuoi vederlo
incanutito a questo tuo ritorno,
a questo nuovo tuo ritorno? e vecchio,
quanto gli apparirai, se apparirai
un'altra volta al figlio che ti aspetta,
alla moglie, se viva, al tuo ritorno,
come la prima volta, anche tua moglie
troverai. Non so quale smania, quale
furibonda libidine di esordio,
ti spinga sempre ad inseguire l'ombra
di te stesso, lasciare la certezza
del tuo passato, per incamminarti
sulla rotta di sconosciute stelle,
affrontare gli sguardi e forse l'odio
di nemici inventati, intrattenere,
chi sa, suadenti voci di sirene
e di ninfe, legato un'altra volta
all'albero robusto della nave,
lasciarti carezzare, non è vero?
dalle sinuose e laboriose mani
di solitarie naiadi o flessuose
driadi, che t'offrano immortale
permanenza di astuzie, imperitura
coscienza di te stesso. Non ti basta
chi sei? chi sono io che qui ti resto
accanto, io che ti aspetto e che ti aspetto
ogni volta che parti? sempre, sempre!
O l'immortalità che cerchi, è forse
qualcos'altro? Non certo la memoria
degli altri, ma tu di te stesso, vero?
rifiutare la fine, permanere
nell'avventura di commemorarti
ogni volta diverso, separato
dal cliché dell'astuto, dal poeta
che ogni volta reinventa il proprio viaggio.
Prova per questa volta a immaginarti
- non a inventarti, non a reinventarti
ogni volta da capo, architettare
nuove, diverse immagini del tuo
multiforme delirio di potenza -
tenta di figurarti almeno questa
volta che cosa sia l'attesa, il senso
di un'attesa, per chi non ha più scopo,
per chi non ha più scampo che aspettarti.
Ah già, dimenticavo. Generoso,
inattuato amante, in ermi lidi,
in isole lontane, rifiutasti,
rifiutasti per me, per ritornarmi
accanto, per dormire nel mio letto,
rifiutasti una vita d'immortale.
Per ritornarmi accanto, o per mostrare
nella tua terra a tutti il tuo dominio?
Devo aspettarti, Ulisse? Devo ancora,
come sempre, aspettarti? E come, dimmi,
tu, questa volta, mi ritornerai?
O come, di', me che sarò rimasta,
ritroverai? come tuo figlio, come,
qui nella casa, qui nella tua terra,
ritroverai tu tutti gli altri, dimmi,
che avranno, in vari modi, e nell'angoscia,
atteso il tuo ritorno? Chi saranno?
O meglio: chi saremo? E chi sarai?
Telemaco
Ma come avrei potuto a te. mio padre,
io confidarti turbamenti nuovi
che non avevo ancora percepiti
sulla pelle, le prime inavvertite
polluzioni durante il sonno, il volto
che mi guarda, nascosto dietro il letto,
ed era il tuo, non so se di rimbrotto
o se di approvazione: sei venuto
finalmente tra gli uomini, doveva
o prima o poi succedere, spavento
non ti colga di quanto ti è successo.
Come, non spaventarmi, in quella casa
senza di te? mia madre, spaventata
lo è più di me, ed è tua moglie, dunque
signora della casa. Ma spavento
non ha per me, per questi turbamenti,
non ne sa niente, il suo spavento è d'altro.
Teme per la mia vita. E con ragione.
I tuoi rivali - già, sono rivali! -
li sapevo nemici, e c'era pure
chi spudorato, anzi più svergognato,
più impudente degli altri, mi chiedeva,
addirittura anzi mi supplicava
di accostarmi, m'insinuava ignoro
quanto tra noi più intimi e segreti
colloqui, il bel ragazzo del tiranno
dell'isola, diceva, ma sentiamo
se dal suo corpo, un tenero virgulto,
si produce anche per noi delizia, come,
se stesse qui, chi sa che di più accese
ne proverebbe, solo anche a guardarlo,
il padre, e assaporato nella mente
il gaudio lo destinerebbe a nozze,
qualche ninfa nascosta, qualche dea,
degna di lui, che nasca da Titani.
Ma tu non c'eri, padre. Non potevi
rimbeccarlo, l'osceno adescatore,
l'audace verme, e rintuzzare, come
sarebbe giusto, le lubriche voglie.
Se gli occhi tristi di mia madre, scarsa
difesa, inerme scudo a quegli oltraggi,
per chi conosce solo la parola
delle spade, mi avessero protetto,
non erano che trasparente pianto
per il sadico intento di ferirmi,
sicuramente ignota, impreveduta,
anzi m'avrebbe la stoccata tolta
chi sa, con la mia vita, anche perfino
l'innocenza, e stuprata la natura.
Non sapevo nemmeno che profilo,
nella mia mente ignara del tuo volto,
disegnarti degli occhi, che figura
della tua bocca, e che apparenza
conferirti di padre o di guerriero.
Quando salpò dal porto la tua nave,
non sapevo nemmeno dirti addio,
non conoscevo la parola, quella
sola per me, con cui chiamarti, πάππα,
di' solo πάππα, ripeteva, stanca
di ripeterlo, l'occhio triste appena
socchiuso, strofinandomi la guancia
con le labbra, colei che tu chiamavi,
urlando, dalla poppa, Πηνελόπη,
Πηνελόπη, ὁ πόλεμος βραχύς
ἔσται, βραχύς ὁ νόστος. Μ'ὑπομένον.
Il vomere che stava per tagliarmi
in due, tu l'arrestasti, e non ti valse
finzione di pazzia. Pazzia la guerra,
come la bella Elena mi disse
più tardi a Sparta, insieme a Menelao,
fratello dell'ucciso appena giunto
padre di Oreste, nel convito offerto
laggiù per me, al figlio di Nessuno,
e ripeteva, con la voce rotta,
piangendo: strage inutile la guerra
che mossero gli Achei, protervi eroi,
al giovane pastore, per lo sfregio
di un rapimento, una questione, questa,
che si poteva sciogliere più presto
discutendone intorno ad una mensa,
bevendo vino nero e libagioni
offrendo al dio di Tebe, invece, stolti!
di bagnare la terra con il nero
sangue di vincitori e di sconfitti.
Tanto più che laggiù, nelle feconde
zolle dei Frigi, Paride condusse,
come sembra, una nuvola. Gli dei,
sempre invidiosi della contentezza
umana, questo fato di sterminio,
a spegnerne la boria, con fermezza
decretarono: il peso dei viventi
non schiacciasse la pelle della terra,
ma liberata dall'ingombro prenda
fiato per ogni singolo caduto
che perda con il soffio la sua vita.
Ecco: la morte celebra il trionfo
sopra un mucchio di corpi ammonticchiati,
mentre nell'Ade, giù, per un fantasma,
finiscono gli eroi dell'Occidente
e dell'Oriente, giù sbattuti in fila
come fossero polli sullo spiedo.
Che siamo? e dove sei andato? Quale
fantasma ci visiterà tornando
in queste nostre notti senza sonno?
Tua moglie è vecchia. E sono stanco anch'io
di aspettarti. E di non sapere mai
quale sarà il tuo giorno del ritorno.
Guardati nello specchio. I peli bianchi
della barba ti avvertiranno, credo,
che anche i miei s'imbiancano sul mento.
Laerte
Dai maligni si dice che mia moglie
ebbe da un altro il figlio che ha girato
tutti i mari del mondo. La perfidia
di Sisifo, come ha ingannato il cauto
contadino, che con lo scettro tenne
anche l'aratro, è linfa che gorgoglia
nel sangue di Nessuno. Ma certo, sembra
che la mia compagnia gli dia fastidio,
come non fossi io suo padre. Strano,
però, che se la devozione manca
nel figlio per il padre, un sentimento
di appartenenza brucia le mie vene
per questo figlio. Basta che io lo veda,
e il primo impulso è solo di abbracciarlo.
Non so niente di lui. Non mi confessa
i suoi dubbi, le sue meditazioni.
Salvo mi dia la dea la giovinezza
per combattere contro i Proci al fianco
di mio figlio. Diletto dall'Olimpo,
detestato dal dio del mare, scelse
par patria il mare, e le avventure estreme
tra la nota malvagità dell'uomo
e l'ignota slealtà dei mostri. Un senso,
ignobile o felice che mai fosse,
indagando nel vortice inumano
del mostro e nell'umana insidia d'ogni
suo simile. Perfetto l'adeguarsi
in ogni circostanza a ciò che accade.
Perfino a ciò che non si riconosce.
L'intimità sospetta con la dea,
per esempio. O di chi si manifesta,
per lui soltanto, dea, donna per gli altri.
Ho paura di lui. Più mi spaventa,
però, scrutarne i labirinti, il vuoto
che non appare, e più mi riconfermo,
anzi sento di amarlo. Un uomo come
me, come tutti. E come tutti, solo.
La ferocia, che male sembra unirsi
all'astuzia, per chi la pensa istinto
bestiale e non intelligenza, come
invece agisce, ha il marchio della stirpe
di Deucalione, un popolo di torvi
scrutatori del cielo, se la vista
vi si offre di una preda. Li colpivo
senza sbagliare il colpo. Per ognuno
che cadeva trafitto, gongolavo
come un bambino che ha schiacciato un rospo.
La prima freccia che trafisse il petto
di Antinoo fu fulmine di Zeus,
urlo che nel mio petto lancinava
la rabbia per l'usurpatore, l'odio
per chi prevaricava i suoi confini
di suddito, e per la bellezza oscena
che soppiantava il vincolo di legge.
Supposi infine che la freccia scaltra
eliminasse dalla gara il figlio
che si credeva assente, un sacrificio
in cui ferendo il figlio finalmente
trafiggevo me stesso. Debosciato
ragazzo, la bellezza non ti salva,
sei perduto, perché qualcuno quella
bellezza se l'è messa sotto i piedi.
E quel Qualcuno è questo mio Nessuno.
Prova, da quest'inerzia di defunto
a riunire le sillabe di un nome.
Vendicavo l'oltraggio dell'astuto
Titano, era Nessuno chi feroce
ti eliminava, sottraeva il labbro
al bacio che tu avido aspiravi
succhiare dalle labbra di sua moglie.
Sopprimevo con una freccia, tutta
la mia storia. Io, padre di Nessuno.
E forse, il tuo, se il figlio avessi ucciso,
e ucciso insieme il figlio di suo figlio.
Il figlio m'era accanto. E continuava
a trafiggere i Proci, uno per uno.
L'infilzato giaceva a terra, sparso
sul pavimento il vino, scivolata
dalle mani la coppa, tra le mura
ci furono rintocchi di metallo,
ogni rintocco il tonfo di un respiro,
ogni respiro il termine voluto
del fiato di Nessuno. Ebbe una fine
anche la strage. Fu scavata in petto
questa mia solitudine di padre.
Nessuno ebbe più forza di chiamarsi
mio figlio. Ma per questo, più di prima,
fui padre di quell'unico mio figlio.
E io, padre, di chi sarò mai figlio,
io che negai, Laerte, la paterna
bocca per pronunciarne il nome? Il nome
di chi non nacque. Io che ti scrivo, e scrivo
nella tua storia la mia stessa storia.
Da ragazzi non si conosce il fato
di chi dovrebbe nascere. Per questo
si decide di rifiutargli un nome,
e con il nome il suo destino. Nasce
già Nessuno chi gli si nega vita.
L'enigma
L'enigma nessun Èdipo
potrebbe
decifrarlo, Nessuno se Qualcuno
designasse, e vi si riconoscesse
respirante il respiro di
Ciascuno.
La Sfinge ormai non può che
suicidarsi.
Fiano Romano, 15 - 23 aprile
2025
Revisione: 7 novembre 2025