ROMA.
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA. SALA SINOPOLI. ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA
CECILIA. KAMMERORCHESTER BASEL.
Direttore,
Giovanni Antonini
Franz Joseph
Haydn, Sinfonie (in ordine di
esecuzione): n. 30 in do maggiore, 3 in sol maggiore, 26 in re minore, 79 in fa
maggiore
Joseph
Martin Kraus, Sinfonia (Ouverture) in re minore VB 147
Una serata
haydniana is a joy forever, direbbe Keats, una gioia per i sensi e per l’intelletto.
In poche musiche, infatti, il piacere dell’ascolto si associa così
intrinsecamente al godimento dell’intelligenza, come nella musica di Hatdn,
perché oltre alla bellezza delle melodie, la ragione vi scopre dispiegate con
chiarezza le proprie strategie di costruzione formale. In poche altre musiche,
infatti, è così evidente che proprio la forma è il contentuo della musica che
si esegue. Ciò è in realtà vero per tutte le musiche, anche per quelle a
programma, ma in Haydn si manifesta con l’evidenza di un teorema matematico. E’
dunque indispensabile, per l’interpete, avere un’idea chiara di ciò che Haydn
costruisce. La concezione illuministica della Ragione come interprete sovrana
del mondo ha qui un luogo privilegiato, la sua perfetta realizzazione estetica.
Ciò non toglie niente all’interiorità dell’espressione, alla partecipazione
emotiva che il compositore chiede all’ascoltatore. Un grosso equivoco
interpreta il pensiero degli illuministi, siano essi filosofi o artisti, come
la subordinazione di ogni atività umana ad astratte regole della ragione, come
insomma una pretesa di regolare con immodificabili principi razionali la
società e il mondo, e dunque anche le arti. Poche epoche, invece, sono state
così attente alle condizioni materiali della vita, ai condizionamenti dei
sensi, alla variabilità dei sentimenti. La Ragione è lo strumento, non il fine
della conoscenza. Il periodo si apre con Newton e Locke, e si chiude con Kant.
In mezzo si sviluppa un secolo tra i più ricchi e più rivoluzionari della
civiltà europea. In musica potremmo consderarlo aprirsi con Corelli e Bach e
chiudersi con Haydn, Mozrat e Beethoven. La chiarezza della forma è lo specchio
dentro cui si riflette la conoscenza del mondo. Anche con l’arte, con la
poesia, la musica. Diderot ha pagine mirabili sulla dimensione intellettuale
delle arti, e in particolare della musica. Nel teatro, Goethe e Lessing fondano
l’esperienza teatrale come atto di cultura, più che di divertimento, o, anzi,
proprio perché anche divertimento. L’esperiena amburghese di Lessing e quella
weimeriana di Goethe hanno rivoluzionato il teatro europeo come più tardi, un
secolo dopo, Wagner e Ibsen. I quali, però, ne sono la necessaria conseguenza.
Il palcoscenico come stanza del dibattito pubblico, discussione dei problemi
etici e politici della società, rispecchiamento, dunque, della società che
assiste allo spettacolo. Si ascolti, per esempio, l’Adagio cantabile della Sinfonia
n. 68 in mi bemolle maggiore, composta, sembra, nel 1779 (non tra quelle
eseguite nel concerto ceciliano diretto da Antonini). Intanto l’indicazione “cantabile” prescrive
una precisa modalità espressiva, quella del canto. La costruzione, però, sembra
imbrigliare la melodia in una calibratissima gabbia di procedimenti obbligati.
Niente è lasciato all’improvvisazione, all’imprevedibilità. O meglio:
l’imprevedibilità stessa è imbrigliata in un percorso calcolato e inflessibile.
Tuttavia, dentro questo percorso, non è prevedibile la strumentazione, non sono
prevedibili le modulazioni, le avventure armoniche della melodia. Più
precisamente, non sono prevedibili per l’ascoltatore. Il compositore, invece,
ha previsto anche la sorpresa dell’ascoltatore, il suo sentirsi colto da un
fenomeno sonoro imprevisto. La forma sonata, in questo periodo, ha una
struttura più indicativa che prescrittiva, formalizzata: è determinata quasi
solo dal percorso tonale. I temi possono essere due o più di due o invece uno
solo, come accade spesso in Haydn. Il percorso è talmente libero che il compositore
può intraprenderlo e compierlo come gli pare. Ma è qui che entra in gioco la
razionalità del progetto costruttivo. Nel senso che durante il percorso tutto
acquista un senso inequivocabile, le premesse – talora assai scarne, un ritmo,
un intervallo – si sviluppanp in un vero e proprio discorso articolato che
conduce a esiti sorprendenti. Il concerto ceciliano della Kammerorchester Basel
diretta da Giovanni Antonini - il
fondaore del Giardino Armonico – fa parte di un progetto che intende registrare
su cd tutte le sinfonie di Haydn. Esistono su disco le incisioni di Antal
Doráti (pronunciare ántal dóraati, in ungherese le parole hanno tutte l’accento
sulla prima sillaba, e l’accento grafico indica la lughezza della vocale), di
Hogwood, completata da Bruggen e Dantone, di Adam Fischer, e quelle parziali di
Harnoncourt (le ultime, interpretazioni bellissime!), di Trevor Pinnock (quelle
di mezzo). Esistono poi singole sinfonie incise da grandi direttori,
Furtwaengler, Abbado, Bernstein (interessantissime). Ma nel frattempo c’è stato
un grande lavoro filologico di ricostruzione delle partiture originali, e di
ripensamento dei modi di esecuzione. Furtwaengler è bellissimo. Ma oggi
improponibile. Era però probabilmente simile a questo lo Haydn immaginato da
Mahler quando compone la Quarta Sinfonia
e da Prokofiev quando scrive la Sinfonia
Classica. Grande dunque era l’attesa per questo Haydn di Giovanni Antonini.
Che non mi ha convinto. Mi spiego. Si sente il lavoro di ricerca, di pulizia,
l’attenzione al suono degli strumenti, verosimilmente vicino a quello pensato e
sentito da Haydn a Eszterháza. Ma il risultato è un prosciugamento eccessivo
che rasenta l’asfissia. Anche il fraseggiare appare piuttosto rigido, non
flessibile, privo cioè di quella duttilità che certamente costituiva una
prerogativa dello stile classico. Il “rubato” non è un’invenzione romantica. Ma
va colto di epoca in epoca con le sue
particolari caratteristiche, attraverso l’analisi e lo studio delle partiture,
lo studio delle possibilità degli strumenti.
Ma anche, e forse soprattutto, attraverso la propria sensibilità
musicale. Si può, e forse si deve, recuperare il suono di epoche passate, le
tecniche, talora diverse dalle nostre attuali, delle molte e diverse prassi
esecutive, ma si deve riproporre, in più, necessariamente, la libertà
interpretativa che esisteva anche allora. E questo può farlo solo una
sensibilità che rischi anche di uscire di strada, di osare effetti non documentatati.
Senza rischio non c’è vera interpretazione. Mozart si vantava che la destra
ignorasse ciò che faceva la sinistra. Come realizzarlo, oggi? Certo, non alla
Chopin. Ma Chopin, poi, era davvero così arbitrario come lo fanno certi pianisti?
Era anzi, sappiamo, ancora ossequente alla tradizione che voleva una rigorosa proporzione tra i valori di durata
delle note di un tempo e le stesse di un altro. L’ascolto, anche con questi
limiti, o con queste aspettative disattese, resta comunque stimolante, perché
la scrittura di Haydn fa suonare da sé le pariture. E di Joseph Martin Kraus,
di cui si è udita una bella Sinfonia,
o piuttosto Ouverture, in due tempi.
Ma nel complesso il concerto è apparso deludente. Le sinfonie si assomigliavano
l’un l’altra. Il che, per assurdo, faceva capire che Haydn, già nella terza sinfonia,
pensava la musica come avrebbe continuato a pensarla fino alla fine, fino all’ultima:
appunto, la pensava! Inoltre, Haydn ha mantenuto, fino a un certo periodo, sicuramente
prima dei viaggi a Londra, anche per le sinfonie, la pratica del basso
continuo, come del resto Mozart nei Concerti
per pianoforte. Abolire pertanto il clavicembalo anche nelle prime sinfonie
significa indietreggiara una pratica adottata solo più tardi. Anche se è oggi
pratica diffusa. L’espressività dei tempi lenti è sembrata in genere più in
evidenza che in quelli mossi. Una desolazione, però, vedere la sala Sinopoli
mezzo vuota! Per un concerto con musiche di Haydn, in una città di ormai quasi quattro
milioni di abitanti! Ma mi si è fatto osservare che c’era il derby Roma-Lazio. Ecco
spiegata la diserzione dei romani. Ciò, certo, non giustifica la scarsa
affluenza del pubblico, ma registra, con sconfortante evidenza, il basso
livello della cultura musicale italiana, anche, o forse soprattutto, nella capitale!
Fiano
Romano, 3 marzo 2017
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