venerdì 3 marzo 2017

Roma, Santa Cecilia: Kammerorchester Basel diretta da Giovanni Antonini, sinfonie di Haydn



ROMA. AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA. SALA SINOPOLI. ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA CECILIA. KAMMERORCHESTER BASEL.

Direttore, Giovanni Antonini

Franz Joseph Haydn, Sinfonie (in ordine di esecuzione): n. 30 in do maggiore, 3 in sol maggiore, 26 in re minore, 79 in fa maggiore
Joseph Martin Kraus, Sinfonia (Ouverture) in re minore VB 147

Una serata haydniana is a joy forever, direbbe Keats, una gioia per i sensi e per l’intelletto. In poche musiche, infatti, il piacere dell’ascolto si associa così intrinsecamente al godimento dell’intelligenza, come nella musica di Hatdn, perché oltre alla bellezza delle melodie, la ragione vi scopre dispiegate con chiarezza le proprie strategie di costruzione formale. In poche altre musiche, infatti, è così evidente che proprio la forma è il contentuo della musica che si esegue. Ciò è in realtà vero per tutte le musiche, anche per quelle a programma, ma in Haydn si manifesta con l’evidenza di un teorema matematico. E’ dunque indispensabile, per l’interpete, avere un’idea chiara di ciò che Haydn costruisce. La concezione illuministica della Ragione come interprete sovrana del mondo ha qui un luogo privilegiato, la sua perfetta realizzazione estetica. Ciò non toglie niente all’interiorità dell’espressione, alla partecipazione emotiva che il compositore chiede all’ascoltatore. Un grosso equivoco interpreta il pensiero degli illuministi, siano essi filosofi o artisti, come la subordinazione di ogni atività umana ad astratte regole della ragione, come insomma una pretesa di regolare con immodificabili principi razionali la società e il mondo, e dunque anche le arti. Poche epoche, invece, sono state così attente alle condizioni materiali della vita, ai condizionamenti dei sensi, alla variabilità dei sentimenti. La Ragione è lo strumento, non il fine della conoscenza. Il periodo si apre con Newton e Locke, e si chiude con Kant. In mezzo si sviluppa un secolo tra i più ricchi e più rivoluzionari della civiltà europea. In musica potremmo consderarlo aprirsi con Corelli e Bach e chiudersi con Haydn, Mozrat e Beethoven. La chiarezza della forma è lo specchio dentro cui si riflette la conoscenza del mondo. Anche con l’arte, con la poesia, la musica. Diderot ha pagine mirabili sulla dimensione intellettuale delle arti, e in particolare della musica. Nel teatro, Goethe e Lessing fondano l’esperienza teatrale come atto di cultura, più che di divertimento, o, anzi, proprio perché anche divertimento. L’esperiena amburghese di Lessing e quella weimeriana di Goethe hanno rivoluzionato il teatro europeo come più tardi, un secolo dopo, Wagner e Ibsen. I quali, però, ne sono la necessaria conseguenza. Il palcoscenico come stanza del dibattito pubblico, discussione dei problemi etici e politici della società, rispecchiamento, dunque, della società che assiste allo spettacolo. Si ascolti, per esempio, l’Adagio cantabile della Sinfonia n. 68 in mi bemolle maggiore, composta, sembra, nel 1779 (non tra quelle eseguite nel concerto ceciliano diretto da Antonini).  Intanto l’indicazione “cantabile” prescrive una precisa modalità espressiva, quella del canto. La costruzione, però, sembra imbrigliare la melodia in una calibratissima gabbia di procedimenti obbligati. Niente è lasciato all’improvvisazione, all’imprevedibilità. O meglio: l’imprevedibilità stessa è imbrigliata in un percorso calcolato e inflessibile. Tuttavia, dentro questo percorso, non è prevedibile la strumentazione, non sono prevedibili le modulazioni, le avventure armoniche della melodia. Più precisamente, non sono prevedibili per l’ascoltatore. Il compositore, invece, ha previsto anche la sorpresa dell’ascoltatore, il suo sentirsi colto da un fenomeno sonoro imprevisto. La forma sonata, in questo periodo, ha una struttura più indicativa che prescrittiva, formalizzata: è determinata quasi solo dal percorso tonale. I temi possono essere due o più di due o invece uno solo, come accade spesso in Haydn. Il percorso è talmente libero che il compositore può intraprenderlo e compierlo come gli pare. Ma è qui che entra in gioco la razionalità del progetto costruttivo. Nel senso che durante il percorso tutto acquista un senso inequivocabile, le premesse – talora assai scarne, un ritmo, un intervallo – si sviluppanp in un vero e proprio discorso articolato che conduce a esiti sorprendenti. Il concerto ceciliano della Kammerorchester Basel diretta da Giovanni Antonini  - il fondaore del Giardino Armonico – fa parte di un progetto che intende registrare su cd tutte le sinfonie di Haydn. Esistono su disco le incisioni di Antal Doráti (pronunciare ántal dóraati, in ungherese le parole hanno tutte l’accento sulla prima sillaba, e l’accento grafico indica la lughezza della vocale), di Hogwood, completata da Bruggen e Dantone, di Adam Fischer, e quelle parziali di Harnoncourt (le ultime, interpretazioni bellissime!), di Trevor Pinnock (quelle di mezzo). Esistono poi singole sinfonie incise da grandi direttori, Furtwaengler, Abbado, Bernstein (interessantissime). Ma nel frattempo c’è stato un grande lavoro filologico di ricostruzione delle partiture originali, e di ripensamento dei modi di esecuzione. Furtwaengler è bellissimo. Ma oggi improponibile. Era però probabilmente simile a questo lo Haydn immaginato da Mahler quando compone la Quarta Sinfonia e da Prokofiev quando scrive la Sinfonia Classica. Grande dunque era l’attesa per questo Haydn di Giovanni Antonini. Che non mi ha convinto. Mi spiego. Si sente il lavoro di ricerca, di pulizia, l’attenzione al suono degli strumenti, verosimilmente vicino a quello pensato e sentito da Haydn a Eszterháza. Ma il risultato è un prosciugamento eccessivo che rasenta l’asfissia. Anche il fraseggiare appare piuttosto rigido, non flessibile, privo cioè di quella duttilità che certamente costituiva una prerogativa dello stile classico. Il “rubato” non è un’invenzione romantica. Ma va colto di epoca in epoca  con le sue particolari caratteristiche, attraverso l’analisi e lo studio delle partiture, lo studio delle possibilità degli strumenti.  Ma anche, e forse soprattutto, attraverso la propria sensibilità musicale. Si può, e forse si deve, recuperare il suono di epoche passate, le tecniche, talora diverse dalle nostre attuali, delle molte e diverse prassi esecutive, ma si deve riproporre, in più, necessariamente, la libertà interpretativa che esisteva anche allora. E questo può farlo solo una sensibilità che rischi anche di uscire di strada, di osare effetti non documentatati. Senza rischio non c’è vera interpretazione. Mozart si vantava che la destra ignorasse ciò che faceva la sinistra. Come realizzarlo, oggi? Certo, non alla Chopin. Ma Chopin, poi, era davvero così arbitrario come lo fanno certi pianisti? Era anzi, sappiamo, ancora ossequente alla tradizione che voleva una  rigorosa proporzione tra i valori di durata delle note di un tempo e le stesse di un altro. L’ascolto, anche con questi limiti, o con queste aspettative disattese, resta comunque stimolante, perché la scrittura di Haydn fa suonare da sé le pariture. E di Joseph Martin Kraus, di cui si è udita una bella Sinfonia, o piuttosto Ouverture, in due tempi. Ma nel complesso il concerto è apparso deludente. Le sinfonie si assomigliavano l’un l’altra. Il che, per assurdo, faceva capire che Haydn, già nella terza sinfonia, pensava la musica come avrebbe continuato a pensarla fino alla fine, fino all’ultima: appunto, la pensava! Inoltre, Haydn ha mantenuto, fino a un certo periodo, sicuramente prima dei viaggi a Londra, anche per le sinfonie, la pratica del basso continuo, come del resto Mozart nei Concerti per pianoforte. Abolire pertanto il clavicembalo anche nelle prime sinfonie significa indietreggiara una pratica adottata solo più tardi. Anche se è oggi pratica diffusa. L’espressività dei tempi lenti è sembrata in genere più in evidenza che in quelli mossi. Una desolazione, però, vedere la sala Sinopoli mezzo vuota! Per un concerto con musiche di Haydn, in una città di ormai quasi quattro milioni di abitanti! Ma mi si è fatto osservare che c’era il derby Roma-Lazio. Ecco spiegata la diserzione dei romani. Ciò, certo, non giustifica la scarsa affluenza del pubblico, ma registra, con sconfortante evidenza, il basso livello della cultura musicale italiana, anche, o forse soprattutto, nella capitale!

Fiano Romano, 3 marzo 2017

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