TEATRO PALLADIUM
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI ROMA TRE
Il Pellicano di August Strindberg
La madre Micaaela Esdra
Il figlio Giacomo
Vigentini
La figlia Dalila Reas
Il genero Fabrizio
Amicucci
La serva Luisa Novario
Regia Walter
Pagliaro
Scene e costumi Luigi Perego
Teatro Stabile d’Abruzzo
Associazione Culturale
Gianni Santuccio
Il teatro da camera di
Strindberg apre una stagione nuova, o meglio, una prospettiva inaudita nel
teatro europeo. Rovescia sulla scena senza pudore le più sconce e tortuose
ossessioni, quasi una vivisezione dell’inconscio, e In qualche modo sembra
perfino prefigurare il cinema, alla sua capacità di rispecchiare l’inconfessato
dello spettatore. La durata, la densità dei dialoghi, la drammaturgia scarna,
quasi ascetica lo accostano a certi esiti di Murnau (Nosferatu), del primo
Dreyer (La moglie del Pastore, Vampyr). Strindberg vi riversa, concentrate,
tutte le proprie ossessioni di maschio succube, sconfitto, insieme sadico e
masochista. A Roma Il pellicano non si rappresentava da 30 anni. L’ossessione
misogina di Strindberg è, per lo spettaore di oggi, imbarazzante. La catteveria
della madre, nel Pellicano, ci sembra quasi ridicola, più che malvagia:
scremare il latte per mangiarsi la crema e lasciare ai figl il latte scremato,
non fornire legna e alle stufe e far morire i figli di freddo. L’allusione alla
leggenda – falsa - che il pellicano nutrirebbe i figli con le proprie viscere è
rovesciata, e con sarcasmo (non c’è ironia nei ritratti di Strindberg): qui è la
madre che si nutre delle viscere dei figli. I quali, alla fine, scopriranno che
il vero pellicano, invece, era stato il padre, anche lui una vittima della
maligna donna. Il conflitto tra i sessi non è mai stato portato sulla scena con
tanta durezza e violenza, con così furioso eccesso, con tale esasperata rabbia.
I dialoghi tra la figlia e la madre potrebbero uscire dall’Oresteia di Eschillo
o dal Lutto si addice ad Elettra di O’Neill. E’ una violenza primordiale, feroce,
mitica, appunto, quella alla quale assistiamo. Come se a regolare le esistenze
fosse una inceppata legge dell’evoluzione, la madre che ferma il processo, che blocca
la riproduzione, e destina la specie umana alla scomparsa. Se ci fosse solo
questo, il teatro di Strindberg non c’interesserebbe. Sono scene che ritraggono
una patologia. Io non sono malato. Che ho a che fare con questo teatro? La
realtà, fuori del teatro, è un’altra, io sono un altro. Ma ne siamo sicuri? Le
cronache sembrerebbero smentire questa ingenua fiducia nella continuità della
specie, nella rousseauiana bontà e generosità dell’uomo. Ogni tanto, infatti, c’è
qualche figlio che ammazza la madre. Qualche madre che ammazza il figlio. Qualche
padre che abusa della figlia e l’ammazza, o lo sequestra, la richiude in
cantina, per continuare ad abusarne, oppire qualcun altro, anche lui padre,
patrigno, zio, fratello, che sequestra, il figlio, la sorella, l’altro
fratello, e ne abusa, ne gode a lungo e alla fine li uccide. Può accadere anche
che invece sia una madre che ammazza il figlio o che ne abusa, una sorella. La madre, nel Pellicano, a un certo punto,
afferma che tutte le famiglie sono come questa e come la sua di quando era
bambina. En passant: quanti sanno che Elisabetta I d’Inghilterra, la Regina
Vergine, fu da bambina abusata dallo zio? Che il trauma le provocò una
repulsione invincibile per il sesso? Esagera, dunque, la madre del Pllicano?
Tutte, certo, no. mi dirà qualcuno. Non tutte le famiglie sono un inferno. Ma
forse, chi sa, qualcuna? molte? Ecco: Strindberg ci obbliga a guardare in
questi inferni. Non importa quanti, uno, tanti, infiniti, tutti. Fosse anche
solo uno, basterebbe a rendere inospite la Terra. E ne restiamo turbati,
sconvolti, scopriamo che quell’inferno ci appartiene, forse ci siamo perfino
vissuti dentro, o qualcun altro ci è vissuto. Oppure l’inferno non è sempre
così estremo, ma resta comunque inferno. Il criminale, l’assassino, lo
stupratore, il torturatore non è uno diverso da noi, ma uno come noi, il vicino
di casa, l’uomo che incotriamo dal giornaliao. Nessuno porta scitto sulla
fronte: io sono un assassino, ho ucciso mia moglie, ho violato mia figlia, mio
figlio, mia sorella. Questo teatro ci butta addosso ciò che non vogliamo
vedere, ciò che non vogliamo sapere. E qui arriva la catarsi. Aristotele ha
ragione: conoscere il male, esserne terrorizzati, ce ne libera. Sapere che non
viviamo in un paese di balocchi ci aiuta a sentire il male, a prevederlo, a
prevenirlo, e, forse, ad arrestarlo. C’è un momento – sublime! – nell’Elettra
di Euripide. I due fratell9i hanno ammazzato la madre. Sono storditi. Non sanno
che cosa fare, che cosa dire. Oreste fissa in faccia la sorella ed esclama:
Elettra, che abbiamo fatto? abbiamo ucciso nostra madre? Strindberg, per vie
tortuose, recupera questa coscienza del male. E ce la fa vedere. Ce la fa
toccare. Ci obbliga a interrogarci se per caso non ne siamo complici, o
addiritturia non siamo anche noi stessi, in maniera forse meno grava, e
tuttavia reale, a compierlo quel male che ci spaventa. Ingmar Bergman, un altro
svedese, ce lo dice in un film bellissimo: Sinfonia d’autunno. Walter Pagliaro conferisce
immagie concreta a questi deliri, a queste fantasie, a queste allucinazioni. E
quando, alla fine, la casa brucia e i due fratelli accolgono il fuoco come una
liberazione, e attratti l’uno dall’altro, si baciano sulla bocca, ripetono essi
stessi la storia di quell’inferno che li ha oppressi. La storia ricomincia.
Oppure – e qui Strindberg sembra preludere a viaggi mistici – si ricomincia
altrove, in un mondo diverso, dopo la vita. Ibsen, un norvegese, direbbe:
Quando noi, morti, ci ridestiamo. Mizaela Esdra è una madre esemplarmente
malvagia, dalle infinite sfumature di parlato, talora perfino suadente,
accattivante. Se ne ha quasi pena quando
confessa la sua infanzIa infelice. ll sordido genero, Fabrizio Amicucci,
raffigura perfino nella sua deformità di sciancato la propria inadeguatezza
umana, e nella voce stridula di corvo che uccide con un solo colpo di becco. I
due figli, Giacomo Vigentini e Dalila Reas incarnano con sbalordimento,
rancore, inguaribile dolore, lo smarrimento, il disorientamento delle vittime,
e poi invece alla fine la sicurezza incestuosa ed omicida dei carnefici.
Completa l’ottimo casto Luisa Novorio nel ruolo della serva, tagiente, quasi
una voce del coro, a giudicare il male della casa. infernali, cupissime scene e
laidi costumi, com’era giusto, di Luigi Perego. Pubblico folto che applaude. Ma
aspetta un po’: chi sa, esterrefatto da ciò che ha visto e sentito. Spettacoli
simil andrebbero proposti più spesso ai distratti italiani di oggi.
Fiano Romano, 6 marzo
2017
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