Massimiliano Felli,
Il velo davanti agli occhi, Napoli, Stamperia del Valentino,
“Giallo Valentino”, 2015, pagg. 160, € 15,00
Il primo di una
bella tetralogia diciamo, per il momento, poliziesca di Massimiliano
Felli. Già ho scritto su questo blog della Carrozza di Priapo.
A presto, mi occuperò anche del Fuoco in fondo al mare e
dell’ultimo, De Peccatis Nostris. Felli conferma, anche in
questo romanzo, le sue qualità più personali: l’invenzione
linguistica inesauribile, da una parte, e l’organizzazione
narrativa perfetta come il meccanismo di un orologio, dall’altra.
Si affronta un fatto reale: il suicidio del tenore Adolphe Nourrit,
al quale Bellini e Donizetti, ma anche Auber, Halévy e Meyerbeer,
devono quasi tutto. Rossini lo prediligeva, e lo scelse per Le
siège de Corinthe, Moïse
et Pharaon, Le Comte Ory e Guillaume Tell. Si
uccise a Napoli, l’8 marzo 1839, gettandosi da un balcone del
palazzo Barbaja, in via Toledo. Stava provando l’ultima opera che
Donizetti stava componendo per il Teatro di San Carlo, il Poliuto,
dalla bella tragedia di Corneille. Ma il suicidio riesce sospetto al
Commissario Cafasso, che accusa di omicidio lo stesso Donizetti. Per
gelosia. Sarà l’Ispettore Sammartino, un bel giovane biondo, che
piace alle donne, a risolvere il caso. Il vecchio Commissario la
prende come un’insubordinazione e se la lega al dito. E appena può
spedisce l’intraprendente giovane lontano, in Puglia. Ma la
vicenda, che appassiona fin dalle prime pagine, anche per la
celebrità dei personaggi coinvolti, è al solito pretesto per la
raffigurazione di un’ampia galleria di personaggi, caratterizzati
soprattutto linguisticamente, e qui sta la forza della scrittura di
Felli. Indubbiamente il modello lontano resta Gadda, ma sarebbe
sbagliato leggere in Felli un imitatore. Non si tratta d’imitare la
scrittura di Gadda, ma di assorbirne i procedimenti. E l’invenzione
linguistica sgorga fluida e piena di sorprese, viva come colta con il
registratore sulla bocca dei personaggi. Ma è un’impressione
fallace: quella fluidità, quella naturalezza, la sorpresa delle
invenzioni lessicali, sono frutto di una paziente e laboriosa
ricerca, di una costruzione capillare che innerva ogni riga della
scorrevolissima prosa narrativa. Donizetti comunque non ci fa una
bella figura. Era un puttaniere e come tale viene ritratto. La scena
del litigio con la donna che ha messo incinta è un capolavoro di
vivacità che sembra uscire da una sceneggiata napoletana.
“Ma cosa dici! Non
statela a sentire!”
“E’ vero!
Assassino! Voglio vederti distrutto!”
“E io ti ammazzo!”
“Sì, ammazza pure
a me! Come Nourrit! Ammazami, che aspetti?”
Ma dietro la
sceneggiata c’è anche l’eterna ambiguità politica del popolo
italiano. Come nell’Epilogo. E’ scoppiato il ‘48. Ma le pagine
che lo raccontano, attraverso gli occhi di Cafasso, ricordano più
quelle del lucido Cuoco che spiega il fallimento del ‘99, che
quelle dell’appassionato De Sanctis imprigionato insieme ai suoi
studenti.
“Al principio
c’era pure chi si era illuso, tra i liberali, chi ci aveva creduto,
a quella pulcinellata. Che si aspettavano, diceva Cafasso, che
Ferdinando si fosse illuminato tutt’assieme? Che mò, bello e
buono, Mazzini gli faceva scendere la Pentecoste e quello
s’appicciava come un fiannifero per il sacro fuoco della Libertà?
Intanto il popolo in tumulto, accecato dalla polvere del suo stesso
marciare, assordato dalle sue stesse grida contro il tiranno,
continuava a sbandarsi, perseverava disordinatamente nella
ribellione, calpestando i propri morti, bruttando di sangue l’intera
città, il regnp intero, senza avvedersi che di risultati concreti.
dall’inizio dell’anno, non ne avevano ottenuto nemmeno uno.
“O meglio, uno sì.
Uno solo. La Censura teatrale, che si era fatta più lasca”,
O queste amare
riflessioni dell’irritato Cafasso, perché un giovane più bravo di
lui lo coglie in fallo.
“E d’altro canto
avevano ragione. Era arrivata l’ora di ritirarsi, Cafasso il mondo
non lo capiva più. (Sapete quando che s’invecchia?, aveva detto a
Sammartino l’ultima volta che si erano visti. Non è un fatto di
età. Quando non riesci più a spiegarti il senso di ciò che accade
intorno ate, allora vuol dire che ti sei fatto vecchio. Ma aveva pure
aggiunto, Sammartì, e lo sapete invece fino a quando possiamo dire
di essere ancora giovani? E’ semplice, tenetevelo a mente. Finché
si ha l’ingenuità di credere che noi non ripeteremo mai gli errori
commessi da chi ci ha preceduto).”
Ma di queste
riflessioni spiazzanti, e della lingua che le dice, tutto il racconto
è pieno e si fa leggere d’un fiato. Per la storia che racconta e
per come la storia è raccontata.
Riflettendo sugli
altri due romanzi della tetralogia cercherò di trarre più in là le
conseguenze, riguardo a quella che mi sembra una nuova stagione della
narrativa italiana, una letteratura sottobanco, poco appariscente,
ignorata dai grandi editori e ancora più dai premi letterari. Quasi
tutta di scrittori sotto i quaranta. Ma non è un fenomeno
generazionale o non è solo un fenomeno generazionale. Credo che
questi scrittori siano più attenti a quanto si scrive anche fuori
d’Italia e più attenti, soprattutto, a quanto accade nella società
in cui o per scelta o loro malgrado sono immersi. E, cosa ancora più
importante, sono scrittori che se ne fregano di guardarsi l’ombelico
o d’ispezionare quello degli altri. Ma consapevoli che per
raccontarla , questa realtà, di cui si sentono parte, si richiede da
parte loro un controllo scrupoloso, pignolo, infaticabile, dello
stile. E della struttura narrativa. Non a caso sfiorano tutti il
romanzo di genere: il giallo, il noir, ma senza caderci dentro.
Nell’attesa, godiamoci, ma veramente, abbandonassi al flusso
dell’invenzione, i racconti di questa bella tetralogia d’indagini
poliziesche in una Napoli del secolo XIX, viva come se fosse quella
di oggi. E ugualmente complessa, imprevedibile, tragica e comica
insieme, nobile e miserabile, sublime e depravata, una città vera, e
non l’idea o il fantasma di una città come la si vorrebbe o la si
sogna.
Fiano Romano, 13
giugno 2016
,
Nessun commento:
Posta un commento