Domenico Scarlatti, Alio
Modo
Scarlatti,
Soler, De Albéniz, De Albero, López.
Sic! Sulla copertina.
Amaya
Fernández Pozuelo, clavicembalo
stradivarius
STR 37140
Premessa
linguistica: in spagnolo il de
davanti al cognome non fa parte, diversamente dall’italiano, del
cognome. Si usa solo dopo il nome personale. Miguel de Cervantes. Ma
Cervantes, senza il nome. Pertanto l’elenco dei musicisti nella
copertina – Scarlatti, Soler, De Albéniz, De Albero, López – è
sbagliato. La scrittura corretta è: Scarlatti, Soler, Albéniz,
Albero, López. I nomi e
cognomi completi sono: Domenico Scarlatti, Antonio Soler, Marco Pérez
de Albéniz, Sebastián de Albero (da
accentarsi Albéro, e non Álbero),
Félix Máximo López. Inoltre
il de
va scritto sempre con l’iniziale minuscola. Ciò
dimostra, certo,
la poca dimestichezza che in genere gli italiani hanno con la lingua
spagnola e le sue tradizioni. Il discorso, però, si potrebbe
allargare anche al francese e al tedesco, perché anche
in francese il de
e in tedesco il von
non fanno parte del cognome. Alfred de Musset. Ma Musset, senza il
nome. E così Herbert von Karajan. Ma Karajan, senza il nome.
Ma
– ciò premesso – su questa bellissima
incisione di
sonate scarlattiane e pagine di altri musicisti coevi o di poco
posteriori si
potrebbe tenere un corso universitario di filologia musicale –
anzi, di filologia tout court - e d’interpretazione. E
cominciamo dal sottotitolo: Alio
Modo. In altro modo.
Si sarebbe potuto anche scrivere: Unus
ex multis modis. Uno
dei molti modi. Perché
qui sta il nodo della bella
proposta
interpretativa di
Amaya
Fernández Pozuelo
. Oggi è di moda
dire spesso di un’interpretazione musicale che
è
un’interpretazione
di riferimento, e in genere ci si riferisce a qualche incisione
discografica, come questa del resto, che tuttavia non si propone
affatto come modello definitivo, ma solo come un’indicazione di
possibile interpretazione della pagina scritta. Il discorso è
complesso, e si presta a molti equivoci. Nell’opinione corrente,
poi, regna la massima confusione, anche tra musicisti. Ci sono
musicisti che si vantano di eseguire solo ciò ch’è scritto. Si
vantano di una cosa impossibile. Quanto allegro un allegro e quanto
adagio un adagio? O che mezzo forte rispetto a quale forte?
Ma,
sgomberato il terreno da questo primo equivoco, che cioè esista
un’unico modo d’interpretare una partitura, quello, cioè,
di eseguire alla lettera ciò ch’è scritto, si
aprono un’infinità di problemi, dei quali alcuni risolve la
filologia, altri la ricerca storica, ma i più restano affidati a ciò
che Frescobaldi chiama “rimettersi al buon gusto e fino giuditio
del sonatore”. Come a dire che, prima di sedersi davanti alla
tastiera di un clavicembalo o di un organo, o di salire su un podio a
dirigere un complesso strumentale o vocale, o misto, all’interprete
occorre possedere la cultura condivisa dal compositore che interpreta
e magari anche del proprio tempo per cogliere le differenze
d’impostazione della lettura musicale tra la propria epoca e quella
del compositore interpretato. Ma esaminiamo più a fondo la
questione.
L’idealizzazione
romantica dell’opera d’arte ci ha abituati a considerare sacro,
intoccabile il modo in cui essa ci si presenta. Ma
riteniamo che l’opera sia la pagina scritta.
E pensiamo perciò che una sonata di Beethoven sia la sua partitura.
In realtà la partitura è un’indicazione, un manuale per come la
si debba realizzare. La sonata si
ha realmente solo quando
essa viene realizzata sullo strumento al quale è dedicata (poco
importa, poi, se questa realizzazione possa essere puramente mentale,
nel senso che il lettore la realizza nella propria testa).
Non diversamente, tutto
questo, da quanto si pensa esi dice del teatro, altra arte che
richiede l’attuazione di un interprete.
Il
dramma si ha quando lo si rappresenta sulla scena. Per quanto alta
sia la scrittura letteraria dell’Edipo
a Colono di Sofocle o
del Re Lear
di Shakespeare, la tragedia di Sofocle e quella di Shakespeare
conoscono la loro realizzazione solo
quando sono rappresentate
sulla scena (anche qui,
poco importa se questa realizzazione è immaginata dal lettore).
Il testo letterario è, in
effetti, nella sua vera
funzione, un copione. Così come una partitura è l’appunto per
un’esecuzione.
Esistono
culture musicali che fanno a meno della scrittura, ma non per questo
la loro musica è meno musica di quella scritta. E non mi riferisco
solo al jazz, alla musica popolare. Ma penso
per esempio alla
tradizione classica indiana o persiana o cinese, nelle quali la
scrittura non ha assunto la funzione invasiva della nostra musica
occidentale, e anche in
questa comunque il
fenomeno è relativamente recente. I cori della tragedia greca, i
canti liturgici cristiani, non
erano scritti, furono
tramandati per via orale. Solo dall’VIII secolo si comincia a
parlare, in Occidente,
di scrittura musicale nel senso con cui l’intendiamo oggi (nella
chiesa bizantina qualche secolo prima).
Ma ciò non significa che
la scrittura fosse allora o più rozza o insufficiente, era ciò che
serviva ai cantori
per realizzare un canto. E così pure in seguito non è che, per
esempio, che so, le
intavolature per liuto
o
le partiture dei
madrigali fossero troppo
scarne, bastavano
per ciò che si chiedeva all’esecutore.
Siamo
noi che oggi
abbiamo problemi a realizzare le musiche del passato, perché non
possediamo più le cognizioni necessarie a realizzarla che allora
si tramandavano con la pratica. Ecco quindi
a che cosa serve la filologia da una parte, cioè la disciplina che
restituisce le scritture nella maniera più fedele possibile a come
furono scritte, e la conoscenza storica, lo studio di testimonianze,
manuali, opere teoriche dell’epoca, che c’informano appunto su
quella pratica di cui
non abbiamo più cognizione.
Oggi è assolutamente non già impossibile, ma scorretto, suonare
Bach senza conoscere la cultura musicale da cui nasce la
sua musica. Anche si
volesse stravolgerla,
o
reinventarlo, si deve comunque partire da quella cultura.
Goya: La maja y los embozados
Ma
c’è un altro tassello da aggiungere. Altro luogo comune è,
infatti,
che la musica, tra le arti, sia quella che ha bisogno di un
intermediario, l’interprete. A parte il fatto che ciò è vero solo
in parte e solo per gli ultimi due secoli, e anche qui non sempre,
c’è da dire che anche la poesia, anche un quadro, un romanzo non
ci arrivano direttamente dalla mente dell’autore. La poesia la
leggo con la mia cultura, la mia sensibilità di oggi, non con la
cultura e la sensibilità del poeta che l’ha scritta. Il quadro non
lo vedo con gli occhi del pittore che l’ha dipinto, ma con i miei
occhi che associano a disegno e colore tutt’altre sensazioni e idee
da quelle del pittore. Se
poi l’epoca è distante, le differenze sono spesso causa di
fraintendimenti. Le lingue cambiano. Le parole di “Tanto gentile e
tanto onesta pare”, sonetto famosissimo di Dante oggi significano
tutt’altro da ciò che significavano nel Duecento. Gentile
significa nobile, pare significa appare, non sembra. Per non parlare
del teatro. Chi rimprovera ai registi moderni di travisare il testo,
ignora o trascura il fatto che già il testo è un travisamento della
storia che porta sulla scena. Teseo, eroe mitico, e signore assoluto
di Atene, nell’Edipo a Colono di Sofocle, dice di dover consultare
l’assemblea popolare, prima di poter deliberare di accogliere il
profugo Edipo. Parla insomma come un arconte dell’Atene
democratica, perché il pubblico che l’ascolta è il pubblico
dell’Atene democratica del V sec. a. C. Ma torniamo, finalmente,
alla scrittura musicale.
Non
solo. Ma dimentichiamo anche che i committenti e i consumatori
dell’arte del passato condividevano la cultura degli artisti, e
anzi spesso ne condividevano anche le conoscenze tecniche, almeno
fino al Romanticismo. Baltasar Castiglione nel Cortegiano
scrive che un cortegiano, oggi diremmo un uomo colto, un
intellettuale, che non conosca la musica, non solo non è un buon
cortegiano, ma non è degno nemmeno di essere considerato un
cortegiano, cioè un uomo colto. All’università, fino al
Rinascimento, la musica era una disciplina obbligatoria. Dante la
conosceva. E conosceva la polifonia. Gesualdo da Venosa era un
principe. E ha composto madrigali sublimi. Il poligrafo fiorentino
Antonfracesco Doni ci ha lasciato un Dialogo
della Musica, nel
quale ha inserito due madrigali da lui composti. Federico II di
Prussia conosceva la musica, suonava il flauto e componeva. La
distanza tra compositore e pubblico comincia nel secondo Ottocento,
in Italia molto prima, perché l’esperienza musicale fondamentale
era il melodramma, dunque un’esperienza passiva. Senza
contare che tra gli intellettuali italiani, con l’eccezione di
pochi, Leopardi, Mazzini, la musica non era considerata, a differenza
dei francesi e dei tedeschi o degli inglesi, un’attività
intelettuale. E Francesco De Sanctis vi diede il colpo di grazia
estromettendone lo studio nell’istruzione superiore e
universitaria, quando fu nominato ministro dell’Educazione. Croce
riconfermò questa posizione, al punto di scrivere I
teatri di Napoli,
senza accennare al ruolo della musica napoletana nell’invenzione
della musica moderna. Ma torniamo alla scrittura musicale.
Da
settecento in poi i compositori infittiscono sulla pagina le
notazioni perché gli interpreti non si sbaglino sulla corretta
interpretazione di ciò che leggono. Ma nonostante questa
preoccupazione di scrivere meglio e di più, di pubblicare anzi
perfino dei manuali in cui si spiega come risolvere, per
esempio, gli abbellimenti
(ed è assai divertente, ma soprattutto istruttivo, vedere come essi
differiscano tra loro), la
scrittura non può registrare tutto, non può suggerire le
intenzioni, o meglio, le suggerisce attraverso notazioni che rinviano
a una pratica nota. Resta comunque sempre un ampio margine lasciato
al “buon gusto e fine giuditio del sonatore”.
Ecco,
questa registrazione vuole rendere udibile, far percepire quel
margine. Alcune scelte potranno sembrare arbitrarie, abituati come
siamo a una restituzione pedantesca della lettera. Ma – state
attenti - l’inserimento di fioriture e abbellimenti, di variazioni,
la libertà del fraseggiare, fermarsi un po’ sulla dissonanza prima
della sua risoluzione, la realizzazione arpeggiata degli accordi, e
altre varianti che sembrano tradire il testo, erano invece pratica
abituale, diffusa. Tanto più che spesso l’interprete era sovente
lo stesso compositore. E spesso improvvisava. Ma
bisogna intendersi tuttavia sull’improvvisazione. Non è buttare
giù note senza regole, ma seguire un piano strutturale
suggerito da un intervallo, da un ritmo. E Scarlatti spesso
improvvisava le sue “sonate” (il termine non è usato da lui, che
nella raccolta pubblicata le chiama “essercizi”, un po’ come
Bach chiama le sue scritture per tastiera “Übung”), prima di
scriverle o di dettarle.
Nell’attuale
insegnamento italiano l’improvvisazione, a differenza di quanto
accade nei conservatori francesi, è trascurata. Ed è un peccato.
Aiuterebbe gli interpreti a capire meglio certe particolarità della
scrittura non solo di Scarlatti, ma anche di Mozart, per esempio, e
soprattutto, di Beethoven, e poi di Schumann e di Chopin. A capire,
soprattutto, la libertà della scrittura, che non è mancanza di
rigore, ma controllo dello stesso procedimento improvvisativo.
Nel
cd la bravissima Amaya
Fernández Pozuelo associa
pagine di compositori contemporanei o di poco posteriori a Domenico
Scarlatti. Pagine godibilissime, che oltretutto testimoniano la
comune ispirazione dal canto popolare iberico. Ma
che mettono in evidenza anche l’abisso tra l’imprevedibile
invenzione scarlattiana e la pratica comune degli altri, pur
bravissimi, musicisti. Non si tratta di maggiore o minore fantasia
melodica e ritmica, ma di una radicale differenza d’impostazione
della scrittura. Ogni sonata scarlattiana è un monumento di coerenza
strutturale, che riconduce a un’unica idea generatrice anche le più
diverse invenzioni. C’è un’arte consumata della variazione – o
piuttosto della variante - ch’è del resto bagaglio indispensabile
d’ogni pratica d’improvvisazione.
Amaya
Fernández Pozuelo
Ed
è proprio questo aspetto che risalta nelle interpretazioni della
clavicembalista spagnola: l’arbitrio, l’originalità, la scelta
audace di sospensione o di accelerazione, rientrano in questa
architettura dell’improvvisazione. E non sembri un ossimoro: perché
sta proprio qui l’originalità e la genialità della scrittura
clavicembalistica di Domenico Scarlatti, che l’improvvisazione si
costruisce, che il discorso musicale poggia su una solida
architettura di elaborazione ritmica o intervallare o di entrambe le
cose. Un solo esempio: si prenda la sonata K. 184. Le battute 35-46
sembrano l’irruzione di una nuova idea ritmica e di una nuova
mobilissima linea melodica. Ma una
lettura più attenta fa riconoscere nelle prime sei battute della
sonata l’idea generatrice di quella che sembra una parentesi, una
novità. Abbiamo una scala discendente scandita simmetricamente prima
da due semiminime puntate che scendono di un tono, seguono due
terzine di crome, la prima scende per gradi congiunti, la seconda fa
un salto di terza da mi a do, ma il do viene dapprima intonato una
sesta sopra, invece di essere ribattuto (il particolare non è
secondario). Infine di nuovo due semiminime puntate che questa volta
scendono di un semitono. Ebbene la battuta 35 ripropone la terza e il
semitono discendente (cui seguirà un tono discendente). Ma la terza
è presentata come accordo, e il semitono come appoggiatura. Accordo
e appoggiatura costituiscono l’ossatura di
tutt’e dodici le battute, ripetuta ciascuna con la stessa
impostazione ritmica e intervallare. Amaya
Fernández Pozuelo le
esegue con mirabile e accattivante libertà, facendo supporre quasi
una
sospensione dubitativa dell’improvvisatore. Il resto è tutto della
stessa intelligenza e altezza interpretative.
Fiano
Romano, 8 agosto 2019