mercoledì 3 agosto 2016

L'inverno del nostro scontento

Sulle pagine di Facebook, stimolato da un intervento di Alexander Lonquich si è acceso un dibattito, ahimé quanto vecchio, sull'inaccetabilità di posizione pessimistiche, disperate, atee, materialiste, da parte di molti artisti. Ma no, l'infinito non è il nulla, ma un luogo della mente, Leopardi aveva ricevuto un'educazione cattolca (appunto, dico io!), Maher alla fine vuole confortare, e così via. Che cosa c'è d'inaccettabile nel fatto che taluni artisti neghino la realtà di dio, dello spirito, della possibilità di una vita felice? Non baserebbe contrapporre che no, bisogna avere speranza, lottare, continuare a lottare, e la vita sarà migliore. No, bisogna che lo affermino anche gli artisti che invece lo negano? Ma perché? perché disturba tanto che un poeta immenso come Leopardi sia ateo e materialista, che un musicista così affascinante come Mahler non veda uscita alla disperazione della condizione umana? Possibile che, soprattutto in Italia, la verità sgradevole vada sempre edulcorata, che la durezza degli anni di piombo, così ben raccontata dallo Heimat di Reitz, diventi la molliccia commozione della Meglio gioventù? Dove sono finiti lo sguardo crudele di Rossellini, la severità di un Montale, il disincanto di un Sereni, il bisturi di un Gadda, la disperazione di un Pasolini? Davvero dobbiamo tutti adeguarci a un: "ma sì, vogliamoci bene!" "la vita è bella" "abbiamo la Grande Bellezza"? Ahi serva Italia, un poeta ci grida dall'abisso di sette secoli. E un altro ci rammenta che "il parlar è indarno alle paghe mortali". Le "peregrine spade" sono diventate casalinghe. E continuiamo a farci male, per quest'ostinato vizio, tutto italiano, di non vedere il male, per paura di doverlo affrontare. La "durata", di cui ci canta Handke, è un attimo. Nemmeno il dolore è perenne. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. La durata è sempre il senso che sappiamo dare all'attimo in cui dura il nostro vivere. Il resto è, con Amleto, silenzio.



Mi accorgo che i miei interventi di ieri e di oggi hanno un filo conduttore, o, se si preferisce, un sottotesto comunque. Provo ad accostarli. Giudicate il risultato.

Schon lange will ich über die Dauer schreiben,
keinen Aufsatz, keine Szene, keine Geschichte –
die Dauer drängt zum Gedicht.
Will mich befragen mit einem Gedicht,
mich erinnern mit einem Gedicht,
behaupten  und bewahren mit einem Gedicht.
was die Dauer ist.

Immer wieder habe ich di Dauer erfahren,
im Vorfrühlung an der Fontaine Sainte-Marie,
im Nachtwind an der Porte d’Auteil,
in der Sommersonne des Karstes,
im vormorgendilichen Heimweg nach einem Einssein.

Peter Handke, Gedicht an die Dauer, 1-12.

(Da tanto voglio sulla Durata scrivere,
non un saggio, non teatro, non una storia –
la Durata introduce nella poesia.
Voglio interrogarmi con una poesia,
ricordarmi con una poesia,
discorrere e preservare con una poesia,
che cosa la Durata sia.

Sempre più la Durata io l’ho avvertita,
nei primi giorni di primavera alla Fontaine Saint-Marie,
nel vento notturno alla Porte d’Auteil,
nel sole estivo del Carso,
nel  primo mattino sul sentiero di casa dopo un amplesso.

Peter Handke, Poesia alla Durata, 1-12, traduzione mia)

Handke non è tra i miei scrittori di chevet. Ma questo poemetto, del 1985, di spirito profondamente goethiano, è bellissimo. C’è un’arte – goethiana appunto – di usare composti o d’inventarli, stupefacente, difficile se non impossibile renderli in italiano, già in greco, anche in neogreco, sarebbe più facile – e anche questo è goethiano. Un esempio tra i più semplici: Einanderfremdwerden, infinito sostantivato, il diventare estranei l’uno all’altro, ma detto con una sola parola. Proprio nei versi iniziali incontriamo: Vorfrühlung, Nachtwind, Sommersonne.  E l’aggettivo intraducibile vormorgendilichen, attributo del composto Heimweg, sentiero di casa: alla lettera significa di primo mattino, ma come aggettivo, non come avverbio, in italiano non esiste l’equivalente,mattutino è più generico, qui è indicato il primo momento del mattino .  Esiste, del poemeto, un’edizione italiana, con testo tedesco a fronte, Canto alla durata, Einaudi, 1988. Il traduttore è Hans Kitzmüller, che scrive anche una bella postfazione. Non condivido la sua scelta di tradurre Gedicht, poesia, con canto. Anche se c’è il precedente illustre di Leopardi, che forse il traduttore ha tenuto a mente. In italiano il termine poesia significa tanto il genere che il singolo componimento. Come il termine tedesco Gedicht. In francese e in spagnolo l’ambiguità è invece nel termine poème, francese, poema, spagnolo, che significa sia poema che una singola poesia: Poèmes en prose di Baudelaire, titolo che molti traducono impropriamente Poemi in prosa, significa invece poesie in prosa.  Ma godetevi questi primi versi del poemetto di Handke. Spero che vi faccia venire la voglia di leggerlo tutto. Buona lettura! E’ proprio vero che la poesia è lo sguardo che ci fa vedere la realtà sgombrata dalle incrostazioni e lordure della vita quotidiana, anche quando racconta, tra l’altro, proprio le incrostazioni e lordure della vita, come qui talvolta Handke. Capisco che Wim Wenders gli chiedesse di scrivere la sceneggiatura del Cielo sopra Berlino.

Fiano Romano, 2 agosto 2016

Rielaboro e amplifico un commento scritto a un post, bellissimo, di Alexander Lonquich su Mahler.
Caro Alexander, sottoscrivo tutto quello che scrivi. E aggiungo. Mahler non indora mai la pillola, lo sgradevole è sgradevole, il banale è banale. Ma tutto è riassorbito in una specie di calco, come quello che si prepara per fondere una statua di bronzo, o quello che si prende dalla faccia del defunto – la maschera di Beethoven è splendida, m’inquieta, e io la tengo appesa alla parete sul mio pianoforte. Il termine “forma”, come viene generalmente percepito, mi pare riduttivo, fa pensare all'opera compiuta, mentre la “forma” di Mahler non è mai chiusa, nemmeno quando istericamente il musicista lo vorrebbe e lo pretende, come nella Sesta Sinfonia, la riscrittura di più finali lo dimostra. In questo calco, in questa forma ch’è un calco, è gettata l'infelicità del vivere. Ed è probabilmente proprio questo che insieme sconcerta e affascina: in ogni caso Mahler non cerca e non concede mai una consolazione, un risarcimento del dolore. Soprattutto del dolore della felicità perduta, quasi sempre quella infantile. Ma, spesso, anche dell’infanzia, come ricorda Alexander, il bambino di Mahler è infelice, soffre la miseria, la fame, la malattia. Mahler vide e sentì il fratello morirgli di tisi tra le braccia. Un’esperienza che visse anche Keats.Ma Mahler vide anche una figlia morire di scarlattina. Mahler, il dolore, perciò, lo mostra senza orpelli, senza edulcoranti, e lo mostra irredento, irredimibile.  E lo lascia lì, “illacrimato”, direbbe Foscolo. O riversando di nuovo tutte le lacrime versate, come non fossero mai state versate, come dice Shakespeare nel sublime sonetto XXX. Perfino il tormentatissimo primo Schoenberg non ha questo coraggio, o questa spudoratezza. Ha ragione Alexander Lonquich, nessun altro compositore a lui contemporaneo potrebbe sostituirlo. Perché in modi diversi costoro quella consolazione la cercano e credono di poterla offrire. Esistono alcuni precedenti, per il mondo musicale di Mahler,da Beethoven in poi, o forse da Bach: l’attacco della Passione secondo San Matteo, congiuntamente a quello della Valchiria di Wagner, ha certamente suggerito l’attacco della Seconda Sinfonia. O magari di qualche cantata: per esempio, “Es ist genug”, la melopea strumentale che avvia il canto è già “mahleriana”. O meglio, più che di precedenti, si tratta di fonti: Beethoven, naturalmente. Mahler impara da lui la maniera di assimilare elementi eterogenei (il bellissimo attacco della Sesta è un canto popolare croato). Ma Mahler non li assimila, li accumula. E il dipanarsi del canto dei violini nelle variazioni dell’Adagio della Nona assume già un colore emotivo mahleriano, ma Beethoven trova soluzione alla tensione buttata in campo, Mahler no. Da Schubert, poi, Mahler impara la sfacciataggine di introdurre, in un ambito “alto”, la danza popolare senza nobilitarla: penso al trio dello scherzo della Sinfonia in do maggiore. Weber: il primo atto del Freischütz è un pozzo senza fondo. Da Wagner l'uso drammaturgico dell'armonia. Da Bruckner l'enfasi orchestrale che nasconde un’impronunciabile miseria. E potrei continuare. Niente, dunque, c’è in Mahler, che già non ci fosse nella tradizione. Ma niente anche che Mahler sentisse la necessità di nobilitare. In parole povere: il Mondo come Caos, una realtà di cui si è perso l'orientamento. L'aforisma che gli si attribuisce - sono straniero tre volte, come boemo in Austria, come austriaco in Europa, come ebreo nel mondo - coglie perfettamente la sua natura di fremd, di estraneo, più che straniero. E questo disorienta. La coda del primo tempo della Nona, con quella cadenza di flauto e corno soli, due timbri assai lontani, sembra realizzare con i suoni il disfarsi del mondo. In sintesi: la musica di Mahler toglie la terra da sotto i piedi, se proprio si volesse riassume con frase d'effetto l'effetto della musica di Mahler. E questo turba, spaventa. Per qualcuno è inaccettabile. Ecco perché non piace a chi alla musica chiede invece consolazione e certezze, e anzi lo annoia. Ma il discorso potrebbe ampliarsi anche alla poesia, e a tutta l'arte del Novecento, e forse alla poesia e all'arte di sempre. Il finale del Re Lear consola? e consolano Le Baccanti? Consola il Don Chisciotte? Consola il Werther? consola il Fidelio, con quel finale così spudoratamente utopistico? L'elenco è interminabile. Ma mi chiedo: che cosa spinge molti a cercare, magari affannosamente, un messaggio di speranza, nell’opera di chi ha voluto invece comunicare un messaggio che toglie qualunque speranza?  Ho sempre letto e leggo con imbarazzo, se non con fastidio, le arrampicate sugli specchi dei commentatori di Leopardi per dire: no, non è così, amava la vita (De Sanctis), l’infinito non è il nulla, ma l’indefinito romantico (Russo), il sogno dell’adolescenza finita (Croce!), e via dicendo. No, cari, Leopardi era materialista e ateo, non nutriva nessuna speranza nel progresso civile degli uomini, e l’idea di una fratellanza per sostenere e mitigare la violenza della natura, lo confessava lui stesso, è un’utopia.  Il suo messaggio finale è affidato al Tristano del Dialogo di Tristano e di un amico: “ora invidio solo i morti”. Accettatelo per quello che ha scritto. Poi potete obiettargli tutte le ragioni che volete, dire che non è così, che la vita umana non è infelice, ma per favore non dite che lo dice lui, per il fatto che vi sembra inaccettabile quello che dice. Lo stesso vale per Mahler. E, se mai, a chiarirne il messaggio, penso che ci possa aiutare un altro ebreo boemo, suo contemporaneo: Kafka.  Non c’è insulto peggiore che si possa fare a un artista, a un musicista, a un poeta, che edulcorare la durezza della sua visione del mondo. Per conto vostro, tra voi e voi, addolcitela pure questa visione. Ma lasciate che il poeta, il musicista, l’artista la comunichi così come l’ha pensata e immaginata: dura, disperata (senza speranza), irrevocabile. E fatevene una ragione. C’è chi la pensa così, e anzi lo scrive, lo dipinge, lo mette in musica.
Fiano Romano, 2 agosto 2016
Luciano Vitacolonna mi ricorda, giustamente, questi passi dello “Zibaldone”. Fatevene una ragione, tutti voi spiritualisti, credenti e non credenti, che volete annoverare anche un Leopardi nelle vostre file. Non potete. Fatevene una ragione. Arrendetevi. Leopardi era ateo e radicalmente materialista, come, e più, di D’Holbach, la sua fonte principale. Oltre a Democrito ed Epicuro, naturalmente. E la fisica di Newton. La filosofia di Spinoza. Riflettete soprattutto su questo passo: “Arrivate anche se potete, agli atomi o particelle indivisibili e senza parti. Saranno sempre materia. Al di là non troverete mica lo spirito ma il nulla”.  
«Noi non possiamo concepir nulla al di là della materia. Noi non possiamo dunque negare l’aseità, benchè neghiamo la necessità di essere. Dentro i limiti della materia, e nell’ordine di cose che ci è noto, [1620] pare a noi che nulla possa accadere senza ragion sufficiente; e che però quell’essere che non ha in se stesso veruna ragione e quindi veruna necessità assoluta di essere, debba averla fuor di se stesso. E quindi neghiamo che il mondo possa essere, ed esser qual è, senza una cagione posta fuori di lui. Sin qui nella materia. Usciti della materia ogni facoltà dell’intelletto si spegne. Noi vediamo solamente che nulla è assoluto nè quindi necessario» (Zib., 1619-1620, 3 settembre 1821).
«Arrivate anche se potete, agli atomi o particelle indivisibili e senza parti. Saranno sempre materia. Al di là non troverete mica lo spirito ma il nulla. Affinate quanto volete l’idea della materia, non oltrepasserete mai la [1636] materia. Componete quanto vi piace l’idea dello spirito, non ne farete mai nè estensione, nè lunghezza ec. non ne farete mai della materia. Come si può compor la materia di ciò che non è materia? Il corpo non si può comporre di non corpi, come ciò che è di ciò che non è: nè da questo si può progredire a quello, o viceversa. — Ma finchè la materia è materia, ell’è divisibile e composta. — Trovatemi dunque quel punto in cui ella si compone di cose che non sono composte, cioè non sono materia»  (Zib., 1635-1636, 5 settembre 1821).
«A questa osservazione si può riferire l’utilità de’ versi per ritenere le cose a memoria ec. Osservate ancora. I suoni son cose materiali, ma poco materiali in quanto suoni, e tengono quasi dello spirito, perchè non cadono sotto altro senso che dell’udito, impercettibili alla vista e al tatto, che sono i sensi più materiali dell’uomo. Se per tanto ad uno che non sappia [1690] di musica, o non ne sappia abbastanza, tu vorrai dare ad intendere il meccanismo di un’aria, l’analisi, le differenze, le gradazioni de’ suoi tuoni mediante il solo udito, difficilmente riuscirai. Ma facendogliela quasi vedere sul piano-forte (o scritta ec.) e materializzandogli in questo modo i tuoni, le loro distinzioni, e posizioni, egli concepirà facilmente ogni cosa, e potrà anche (benchè non s’intenda di musica) eseguir quell’aria a voce dopo averla veduta, con più sicurezza ec. che dopo averla solamente udita. E generalmente parlando si può dire che la chiarezza dell’espressione di qualsivoglia idea, o insegnamento, consiste nel materializzarlo alla meglio, o ravvicinarlo alla materia, con similitudini, con metafore, o comunque» (Zib., 1689-1690,  13 settembre 1821).
Fiano Romano, 3 agosto 2016
“ ... esasperato pansessualismo fine a se stesso ... " è la motivazione della sentenza del Tribunale della Repubblica Italiana che, il 29 gennaio 1976, condanna a essere bruciate tutte le copie del film “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci. 20 anni prima, la polizia irrompe nel Teatro Eliseo di Roma, e, sotto lo sguardo attonito di Sergio Tofano, che interpretava il ruolo di Messer Nicia, interrompe una rappresentazione della “Mandragola” di Machiavelli, lesiva della morale e della religione di Stato (già allora la Costituzione, che decreta l’uguaglianza di tutte le religioni, era carta straccia!). Negli stessi anni si proibisce la messinscena della “Governate” di Vitaliano Brancati, perché disegna nella protagonista il ritratto di una lesbica. Chi è nato dopo quegli anni non può immaginare lo strapotere della destra cattolica in Italia. Si sente anzi parlare, spesso a sproposito, di predominio comunista nella cultura italiana: ora, Brancati era socialista, Jemolo e Muscetta cattolici, inutile fare l’elenco di quanti non erano comunisti. Chiunque non fosse democristiano, allora, era comunista. Vedo quel clima ritornare. Non nello stesso modo e con gli stessi contenuti, ma sì nelle stesse forme d’intimidazione. Nel senso che esiste una “vulgata” alla quale bisogna attenersi. Chi devia, anche di un centimetro, è bandito, espulso: dall’amministrazione, dal partito, dal movimento, dal giornale, da qualunque luogo che abbia rilevanza pubblica. Il dissenso individuale è un reato. Quello collettivo un obbligo, se comandato da un capo. Anche nei social, anzi lì più che mai. E anche oggi, come allora, il comportamento di polizia e carabinieri sembra inattaccabile. Che qualcuno scompaia e sia fatto fuori senza che si riconosca un solo responsabile della sua morte, non accade solo in Egitto, ma accade anche in Italia. Mi fermo qui. Ma posso dire di sentirmi almeno preoccupato?
Fiano Romano, 3 agosto 2016

1 commento:

  1. Stupenda la poesia di Handke, che non conoscevo. Grazie. Luis Alberto

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