Gianfranco Pecchinenda, L’ombra
più lunga. Tre racconti sul padre, Napoli, Colonnese Editore, 2009, pp.80,
€ 7.00. In copertina: Antonio Pecchinenda, Detrás de la sombra (dietro l’ombra), 1970.
Che cosa pensa un malato di Alzheimer nel suo stadio
terminale? Gianfranco Pecchinenda ha cercato di conferire parola a questo
pensiero. Sta tutto qui il senso della sua scrittura. Che solo il linguaggio ci
fa esseri che pensano, che guardano, vivono il mondo, e lo raccontano. Facile a
dirsi. Più difficile a scriversi. Ma è la scommessa di questi tre brevi,
intensissimi racconti: scrivere l’ineffabile, il non dicibile, ciò che non ha
linguaggio o viene prima del linguaggio, oppure emerge quando non c’è più il
linguaggio. Lasciamo perdere misticismi, pensieri sui misteri della vita,
neoreligioni d’ogni latitudine. E’ vero, si parla anche del “pensiero”
paleolitico, della concezione egiziana dell’oltretomba, o, più precisamente,
del rapporto padre-figlio, come trasposizione del tempo, superamento del tempo.
Ma non in senso filosofico, e tanto meno mitico, o di recupero storico di
concezioni antiche, bensì solo nel quadro di un’esperienza vissuta: che cosa
sono io, quando non posso più pensare, che cosa, quando non posso dirlo, il mio
pensiero? E che cosa sono, in quel punto di mutismo, io per gli altri? o gli
altri, per me? L’intestazione dei tre racconti recita: “Raconter, c’est / Raconter la mort”. E dopo, in testa alla “Nota dell’autore”: “Quando i padri hanno dei progetti, i figli
hanno dei destini”. Il narratore s’inserisce esattamente nell’interstizio tra
il sorgere delle emozioni e dei pensieri, prima, e, dopo, talora
immediatamente, il loro esprimersi in un linguaggio, non in uno qualsiasi, ma
in quello, e in nessun altro: solo il fatto di essere detta rende reale alla
coscienza la vita. L’antropologia e la psiconeurologia moderne confermano
l’intuizione di Aristotele che la differenza specifica dell’uomo è il fatto di
parlare, il linguaggio. Tutti gli animali, e anche i vegetali, comunicano tra
di loro, ma solo l’uomo è capace di parlare.
Ed essenza fondamentale del linguaggio è il fatto di designare anche
l’assente. Questo ha reso l’uomo padrone del mondo. Il linguaggio gli permette,
infatti, di programmare l’azione, di non agire solo dietro l’impulso del
momento. Anche i mammiferi predatori programmano la loro azione predatrice, e non
solo i mammiferi, perfino certi insetti, per esempio gli aracnidi. Ma solo in
vista della preda. L’uomo, invece, può programma re la caccia di una preda che
non vede, che non sa se apparirà. La preda di Gianfranco Pecchinenda è la vita
catturata dalla scrittura. Ma ciò significa anche che la scrittura si colloca
nel confine tra la vita e la morte, si confronta anzi, a corpo a corpo, con la
morte e perfino con la possibilità di non poterle raccontare, né la vita né la
morte, di scomparire prima di averle circoscritte in una frase, vale a dire nel
cerchio magico del linguaggio. Questo
rende lo stile di Pecchinenda così intenso, quasi febbrile. E tuttavia freddo,
distaccato, come il racconto di uno scienziato che osservi l’estinguersi della
vita. L’intensità, l’incandescenza febbrile sta nell’oggetto raccontato, tanto
più incandescente, tanto più febbrile, quanto più il racconto, il concretarsi
del linguaggio sembra distaccarsene, registrarne solo la fenomenologia. Il
primo racconto, La Pampa Verticale,
sembrerebbe un’autobiografia. Ma non dello scrittore, bensì del narratore
condotto sulla pagina dallo scrittore. E
anche questo è importante. Lo scrittore non si rivela mai in prima persona. In
prima persona si confessa il narrante raccontato dallo scrittore. E questo
accade in tutti e tre i racconti. Nel primo il narrante racconta tre esistenze
di una stessa persona, che tuttavia sono tre persone. Come in Mattia Pascal, citato. Ciascuna di
queste esistenze dura 25 anni. La prima si conclude con un matricidio. La
seconda con lo sgozzamento del padre. La terza con l’attesa che il figlio del
narrante faccia la stessa cosa con lui. Nessuno di questi omicidi è un crimine,
ma tutti la giustificata soppressione di un’insostenibile sofferenza. Lo
chiarirà l’ultimo racconto: la sofferenza di perdere sé stesso, nell’atto di
perdere la capacità di dirsi. Il secondo racconto, L’Ombra ineludibile, affronta inferni che nella vita quotidiana si
pensa di non vedere, di evitare, di non pensarci, che non ci capiteranno. E
invece capitano. Che si può avere un malore, in un cimitero, ed essere
scambiati per morti, ed essere seppelliti, senza che ci si possa opporre, ma
nel contempo si sente, si vede, e si sa che ci seppelliscono. Il Padre (con la
maiuscola) che ci accompagna, non parla, una malattia gli ha tolto la voce. Il
suo silenzio diventa così specchio del silenzio che c’inghiottirà tutti. Il racconto
ha un finale aperto. Il che lo rende ancora più conturbante. Il terzo racconto,
infine, il più bello, Lo Sguardo,
quello del malato terminale di Alzheimer,
ci sbatte in faccia una realtà che vogliamo cancellare, confinandola
negli ospedali. A casa non si sopporta più questa indicibile, inespressa e inesprimibile
sofferenza. La straordinaria bellezza e intensità di questi racconti sta
proprio in questo proporci una realtà che non vogliamo vedere. Ma senza
ricorrere, tuttavia, a
retorici appelli alla commozione, anzi restando nella scrittura di una prosa
accuratissima, distaccata, quasi gelida, quasi il resoconto di una diagnosi
medica, che lascia intravedere tra le righe l’insoffribile sofferenza che nella
vita quotidiana cerchiamo di non vedere.
E’ una prosa assai complessa, che rifiuta tanto la paratassi oggi così
di moda, soprattutto in Italia, quanto
un’accademica e leziosa costruzione ossessivamente e leziosamente
ipotattica. Paratassi e ipotassi sono
usate quando servono e per ciò che servono. Gli scrittori oggi alla moda da noi
sono serviti. Compresi i vincitori dello Strega. Troppo accurata, troppo
consapevole, troppo controllata, una prosa simile? Ma è questa, che piaccia o
no, la vera prosa di uno scrittore. Varia, imprevedibile, complessa, sempre
sorprendente, mai banale. Per gli scrittori di lingua inglese, spagnola,
francese, di oggi, sembra ovvio. Leggetevi l’ultimo romanzo di Julian Barnes,
The Noise of Time, e mi direte. Ma leggetelo in inglese, per favore. Troppo
spesso le traduzioni tradiscono la scrittura dello scrittore. En passant, il
romanzo di Barnes non parla di delitti più o meno celebrati, di psicopatie
della vita quotidiana raccontate come gossip intriganti, bensì di un grande e
complesso tema di cui la letteratura ha parlato da Omero in poi: il rapporto
tra arte e potere. Il protagonista del romanzo è Šostaković. Ricorda, ma solo
in parte, il Ravel di Echenoz.
In calce, per il lettore che voglia informazioni, e
incuriosito da queste mia lettura, voglia acquistare il piccolo ma prezioso libro
di racconti, ecco le notizie sullo scrittore offerte dall’editore:
Gianfranco Pecchinenda è nato a Napoli nel 1963. Figlio di
emigranti, è cresciuto in America Latina, dove ha compiuto gran parte dei suoi
studi. Ritornato in Italia, si è laureato in Sociologia e in Filosofia ed ha
poi intrapreso la carriera accademica. Attualmente insegna Sociologia della
Conoscenza all’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e, presso lo
stesso Ateneo, è Preside della Facoltà di Sociologia.
Fiano Romano, 21 luglio 2016
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