Maria Clelia Cardona, Di
fiato e di fuoco, Penelope, Il poema del non ritorno, Postfazione di Giovanni
Tesio,Torino, Edizione d’arte di Enrica Dorna, 2016, pp. 56, € 14
Il rapporto degli scrittori italiani con i classici antichi,
esauritasi la carica innovativa dell’Umanesimo, e poi del Rinascimento, fino
alla frenesia linguistica di Giambattista Marino, non è mai stato della stessa
libertà con cui scrittori francesi, ma sopratutto spagnoli e inglesi, e poi
tedeschi, hanno affrontato quello sterminato, e pur circoscritto, territorio.
Una rappresentazione spregiudicata e assai poco filologica dell’antico come
quella del Troilo e Cressida o dell’Antonio e Cleopatra shakespeariani
da noi sarebbe stata impensabile. Ma
perfino la libertà di una Bérénice
risulterebbe estranea a un drammaturgo italiano. Neppure uno scrittore dalla
fantasia vivace come Metastasio, prendendo spunto da un dramma “eroico” di
Corneille, il bellissimo Don Sanche
d’Aragon, riesce a svincolarsi dall’obbligo di rivestirlo di pepli classici
già winckelmanniani, nel Demetrio.
Una rivisitazione tutta moderna del mito, come nelle Grazie foscoliane, non ha seguito, e il poemetto resta, inoltre,
non a caso incompiuto. C’è Carducci, si dirà, e le Odi barbare sono indubbiamente un’invenzione geniale, una sorta di
operazione, che ripercorre i passi di quella compiuta da Orazio con i lirici
greci. Carducci aveva indovinato la via. Ma non aveva poi, con uguale coraggio,
adottato una rivoluzione speculare del linguaggio. Niente di paragonabile,
comunque, alle odi di un Keats, agli slanci di uno Shelley, ai folgoranti e
modernissimi tratti di penna della Citera baudelairiana. Sarebbero venuti
Mallarmé e Valéry. E gli stessi greci Kavafis e Seferis. Niente in Italia di
simile, nemmeno le pur ammirevoli figurazioni dannunziane. Che cos’è che ci
frena? Quale timore reverenziale trattiene gli scrittori e poeti italiani al di
qua dell’invenzione di un Eliot, di un Pound, per arrestarsi sulle soglie di un
accademismo appena verniciato di attualità? L’idea, può darsi, di rispettare la
collocazione storica. Una sorta d’inconscio, ma poi non troppo, e ingombrante
storicismo. O un malinteso senso dell’adeguatezza e della verisimiglianza. Lo
stesso che indigna gran parte del pubblico italiano alle rappresentazioni
moderne dei classici. E non parliamo poi dei melodrammi, oggi in tutto il mondo
rappresentati come teatro attuale, e quasi solo in Italia fossilizzati nel
rispetto feticistico di una supposta ambientazione autentica. E’ scritto nel
libretto, è la risposta usuale. E magari
, invece, il compositore, che so, un Gounod, lui se ne infischia della Germania
rinascimentale e colloca quasi all’inizio dell’azione, nel Faust, un bellissimo valzer, con la folla che canta “ Valsons!
Valsons!” Molto Francoforte del XVI secolo, non è vero? Il punto credo che sia
proprio questo: l’incapacità, o piuttosto il rifiuto, da parte degli italiani,
di sentire l’antico come contemporaneo. Ma questo invece hanno fatto e fanno in
tutto il mondo i poeti. Ciò richiederebbe comunque una più ampia digressione. La
lunga premessa, invece, per spiegare il senso d’aria fresca, di libertà
fantastica, che provoca la lettura di questo poemetto di Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco (Torino, Edizioni
l’Arte di Enrica Dorna, 2016, pp. 56, € 14,00). Si tratta niente meno di
Penelope, la moglie fedele di Ulisse. E vengono perfino evocati all’inizio,
nell’intestazione, i mani di Eliot e di Dante: “né il debito amore / lo qual
dovea Penelope far lieta” trattenne Ulisse da riprendere un viaggio nel mare
aperto. Questa volta senza ritorno. Ed è il sottotitolo del poemetto:
“Penelope. Il poema del non ritorno”. Il tema è proprio questo: il distacco,
l’assenza, il non ritorno. Non importa se la fine di un amore, un abbandono, un
viaggio, la morte. “La tua pelle scurita dal sole, la mia / sbiancata
dall’insonnia ... / Niente restava di quei giovani che eravamo, / come quel
tempo fosse di altri. / Ci guardavamo alieni, senza vederci ...” Ulisse sembra
sfuggirle, e fuggirla. E, alla fine: “Seduto sullo scoglio invocavi il dio del
mare - / ... / Hai visto la mia ombra allungarsi al tuo / fianco – non hai
girato il capo. / Parti di nuovo? ti ho chiesto”. Certo, bisogna avere assimilato a lungo la
poesia struggente dell’Odissea, avere
letto più volte i versi dell’isola di Calipso, la nostalgia dell’eroe,
l’angoscia della dea all’annuncio di Hermes (lo rivedremo nel poemetto di
Cardona), per concentrare in una domanda semplice, direi quotidiana, l’angoscia
dell’abbandono: Parti di nuovo?
I gesti della vita quotidiana si fanno estranei,
irriconoscibili, oppure premonitori. Agghindarsi i capelli, indossare una
cinta. L’uomo che fu, è ancora, suo marito, le gira intorno come uno straniero,
Oppure è lei stessa straniera all’amato, se ancora può chiamarlo amato, chi già
sospetta che le toglierà il “debito amore”. O forse non sa più darglielo: “è
l’inganno che ami, non il conoscere”. Le “orde degli anni” li hanno mutati.
Eppure l’unica cosa che non è mutata è proprio l’attesa, di un ritorno, di una
confidenza perduta. E’ quasi meglio la certezza della morte, del non ritorno,
almeno si sa che non c’è spazio per nessun’attesa. Ma è così? “La morte era per
te un antico vizio , / o magari un gioco d’azzardo – “ Se fosse morte, se ci
fosse certezza della morte. Ma c’è, inoltre, l’orrore dello sterminio dei
pretendenti: “Non credermi acquietata. / Rassegnata nemmeno. / Li hai uccisi
tutti. Nessun uomo / è rimasto sull’isola”. Omero indugia sull’incertezza del
destino di Ulisse nella mente di Penelope. Ma qui, adesso, il gioco d’azzardo
si ripete. “Scrivo per te. Scrivo per il poema del Non / Ritorno perché non c’è
fine al Non Ritorno”. E si ripete, dopo
le grida di una strage, le mura del palazzo lordate di sangue, si ripete non
già il gesto del riconoscimento che scioglie le ginocchia, ma la distanza di
desideri divergenti, di attese non reciproche, lui del mare aperto, lei delle
notti perdute, come se di nuovo si vedesse costretta a tessere e distessere la
tela nuziale. Come se lo sterminio fosse la vocazione dell’uomo, la
premonizione del distacco quello della donna.
Poi arriva un mercante da Knosso. “E tu chi hai aspettato
per venti anni, /potnia basilissa? mi chiede / Occhichiaridilupo. / Nessuno,
gli rispondo e rido / nascondendo il capo nello scialle”. Poi Occhichiaridilupo
parte. “Vi lega un amore di acqua e di cielo, di tempeste / e naufragi, e
attese e pensieri raccolti dalle stelle / come solo agli uccelli e agli dei”.
Vengono in mente i Dialoghi con Leucò di
Pavese. Si pensa a Schiuma d’onda, Saffo. Il mare dei miti
greci, “tutto intriso di lacrime e di sperma”.
Il mercante le regala una statuetta, una donna che regge nelle mani due
serpenti. “E’ il tuo dominio, basilissa senza sposo. / Pòtnia Theròn, signora
delle fiere e dei serpenti ...” Penelope diventa, o forse è sempre stata, come
Persefone, una dea ctonia. Il mercante si rivela. “Nel salutarmi / agitava il sottile bastone
con le due serpi / intrecciate, e rideva con la complicità della luce / e con
l’oscurità dei lupi e chi guida le ombre”. All’uomo lontano, lo sposo che non
c’è, Penelope rivolge, allora, il suo ultimo pensiero: “niente che valga più la
pena di dirti, / affaccendato come sarai / a ingannare le ombre”. Ecco, Hermes
le ombre le conduce al loro ultimo destino, Ulisse le inganna. perché per lui
tutto il mondo non è abitato che da ombre. Si chiude l’ultima pagina. Resta
nella mente l’immagine di questa donna che aspetta, la cui vita è solo attesa
(nell’Odissea, anche del figlio Telemaco). E si resta turbati. Molte domande
salgono alla mente. Una fra tutte, la più angosciosa, quella che non ha
risposta: e se tutta la vita non fosse altro che questo, l’attesa di un
abbandono, fino all’ultimo, quando noi stessi abbandoniamo noi stessi?
Resta nella memoria, però, la musica di questa domanda, di
quest’angoscia. Ed è una musica dolcissima, fluida, i versi scorrono con la
naturalezza di un discorso a sé stessi, come un discorso tra amici. Le figure
del mito, uomini, eroi, dei, sono uomini di tutti i giorni, li incontri nella
tua vita fin dal primo giorno. Sono tuo
padre, tua madre, i tuoi fratelli, gli amici, i mariti,le mogli, gli amanti. E
c’è per tutti una partenza, un abbandono, una scomparsa. Come tutti i dolori profondi della vita, il
dolore dell’assenza non è devastatore, non è selvaggio, ma s’insinua,
persistente, inesorabile, negli attimi della tua giornata. Non è guaribile. Ma nessuno è più presente,
più dolorosamente presente, di chi ci manca. Pascoli lo dice in maniera
inequivocabile alla conclusione dell’ultimo “canto”, il XXIV, dell’Ultimo viaggio, che fa parte dei Poemi conviviali. E’, anche questa, la
storia di Ulisse, divisa in XXIV piccoli canti, lo stesso numero dell’Odissea. L’ultimo s’intitola Calypso. Ulisse è partito per il suo
ultimo viaggio, naufraga e muore. Il mare porta il suo cadavere sull’isola di
Calypso. La dea lo riconosce. Lo avvolge “nella nube / dei suoi capelli; ed
ululò sul flutto / sterile, dove non l’udia nessuno: / - Non esser mai! non
esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!” Avevo di proposito,
prima, taciuto il nome di Pascoli. Ma è forse il poeta italiano che più di
altri sa reinventare con libertà la tradizione classica. Il più moderno,
almeno. Su quella scia, ancora più
libero, e più moderno, si colloca il bellissimo poemetto di Maria Clelia
Cardona. Viene alla mente un’ultima riflessione. E’ dedicato a Ulisse anche il
romanzo che ha inaugurato la scrittura moderna del romanzo, l’Ulysses di Joyce. Un trionfo, entusiasmante,
di libertà fantastica e linguistica. Non è questo, comunque, il primo impatto di
Cardona con il mondo classico. Esistono anche preziosi racconti tra storie augustee,
discordie fraterne d’imperatori romani (Marco
Aurelio e Lucio Vero), storie del tardo Impero che riecheggiano Rutilio Namanziano.
Ma di questo un’altra volta.
Fiano Romano, 23 luglio2016
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