sabato 23 luglio 2016

Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco. Penelope. Il poema del non ritorno



Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco, Penelope, Il poema del non ritorno, Postfazione di Giovanni Tesio,Torino, Edizione d’arte di Enrica Dorna, 2016, pp. 56, € 14

Il rapporto degli scrittori italiani con i classici antichi, esauritasi la carica innovativa dell’Umanesimo, e poi del Rinascimento, fino alla frenesia linguistica di Giambattista Marino, non è mai stato della stessa libertà con cui scrittori francesi, ma sopratutto spagnoli e inglesi, e poi tedeschi, hanno affrontato quello sterminato, e pur circoscritto, territorio. Una rappresentazione spregiudicata e assai poco filologica dell’antico come quella del Troilo e Cressida o dell’Antonio e Cleopatra shakespeariani da noi sarebbe stata impensabile.  Ma perfino la libertà di una Bérénice risulterebbe estranea a un drammaturgo italiano. Neppure uno scrittore dalla fantasia vivace come Metastasio, prendendo spunto da un dramma “eroico” di Corneille, il bellissimo Don Sanche d’Aragon, riesce a svincolarsi dall’obbligo di rivestirlo di pepli classici già winckelmanniani, nel Demetrio. Una rivisitazione tutta moderna del mito, come nelle Grazie foscoliane, non ha seguito, e il poemetto resta, inoltre, non a caso incompiuto. C’è Carducci, si dirà, e le Odi barbare sono indubbiamente un’invenzione geniale, una sorta di operazione, che ripercorre i passi di quella compiuta da Orazio con i lirici greci. Carducci aveva indovinato la via. Ma non aveva poi, con uguale coraggio, adottato una rivoluzione speculare del linguaggio. Niente di paragonabile, comunque, alle odi di un Keats, agli slanci di uno Shelley, ai folgoranti e modernissimi tratti di penna della Citera baudelairiana. Sarebbero venuti Mallarmé e Valéry. E gli stessi greci Kavafis e Seferis. Niente in Italia di simile, nemmeno le pur ammirevoli figurazioni dannunziane. Che cos’è che ci frena? Quale timore reverenziale trattiene gli scrittori e poeti italiani al di qua dell’invenzione di un Eliot, di un Pound, per arrestarsi sulle soglie di un accademismo appena verniciato di attualità? L’idea, può darsi, di rispettare la collocazione storica. Una sorta d’inconscio, ma poi non troppo, e ingombrante storicismo. O un malinteso senso dell’adeguatezza e della verisimiglianza. Lo stesso che indigna gran parte del pubblico italiano alle rappresentazioni moderne dei classici. E non parliamo poi dei melodrammi, oggi in tutto il mondo rappresentati come teatro attuale, e quasi solo in Italia fossilizzati nel rispetto feticistico di una supposta ambientazione autentica. E’ scritto nel libretto, è la risposta usuale.  E magari , invece, il compositore, che so, un Gounod, lui se ne infischia della Germania rinascimentale e colloca quasi all’inizio dell’azione, nel Faust, un bellissimo valzer, con la folla che canta “ Valsons! Valsons!” Molto Francoforte del XVI secolo, non è vero? Il punto credo che sia proprio questo: l’incapacità, o piuttosto il rifiuto, da parte degli italiani, di sentire l’antico come contemporaneo. Ma questo invece hanno fatto e fanno in tutto il mondo i poeti. Ciò richiederebbe comunque una più ampia digressione. La lunga premessa, invece, per spiegare il senso d’aria fresca, di libertà fantastica, che provoca la lettura di questo poemetto di Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco (Torino, Edizioni l’Arte di Enrica Dorna, 2016, pp. 56, € 14,00). Si tratta niente meno di Penelope, la moglie fedele di Ulisse. E vengono perfino evocati all’inizio, nell’intestazione, i mani di Eliot e di Dante: “né il debito amore / lo qual dovea Penelope far lieta” trattenne Ulisse da riprendere un viaggio nel mare aperto. Questa volta senza ritorno. Ed è il sottotitolo del poemetto: “Penelope. Il poema del non ritorno”. Il tema è proprio questo: il distacco, l’assenza, il non ritorno. Non importa se la fine di un amore, un abbandono, un viaggio, la morte. “La tua pelle scurita dal sole, la mia / sbiancata dall’insonnia ... / Niente restava di quei giovani che eravamo, / come quel tempo fosse di altri. / Ci guardavamo alieni, senza vederci ...” Ulisse sembra sfuggirle, e fuggirla. E, alla fine: “Seduto sullo scoglio invocavi il dio del mare - / ... / Hai visto la mia ombra allungarsi al tuo / fianco – non hai girato il capo. / Parti di nuovo? ti ho chiesto”.  Certo, bisogna avere assimilato a lungo la poesia struggente dell’Odissea, avere letto più volte i versi dell’isola di Calipso, la nostalgia dell’eroe, l’angoscia della dea all’annuncio di Hermes (lo rivedremo nel poemetto di Cardona), per concentrare in una domanda semplice, direi quotidiana, l’angoscia dell’abbandono: Parti di nuovo?
I gesti della vita quotidiana si fanno estranei, irriconoscibili, oppure premonitori. Agghindarsi i capelli, indossare una cinta. L’uomo che fu, è ancora, suo marito, le gira intorno come uno straniero, Oppure è lei stessa straniera all’amato, se ancora può chiamarlo amato, chi già sospetta che le toglierà il “debito amore”. O forse non sa più darglielo: “è l’inganno che ami, non il conoscere”. Le “orde degli anni” li hanno mutati. Eppure l’unica cosa che non è mutata è proprio l’attesa, di un ritorno, di una confidenza perduta. E’ quasi meglio la certezza della morte, del non ritorno, almeno si sa che non c’è spazio per nessun’attesa. Ma è così? “La morte era per te un antico vizio , / o magari un gioco d’azzardo – “ Se fosse morte, se ci fosse certezza della morte. Ma c’è, inoltre, l’orrore dello sterminio dei pretendenti: “Non credermi acquietata. / Rassegnata nemmeno. / Li hai uccisi tutti. Nessun uomo / è rimasto sull’isola”. Omero indugia sull’incertezza del destino di Ulisse nella mente di Penelope. Ma qui, adesso, il gioco d’azzardo si ripete. “Scrivo per te. Scrivo per il poema del Non / Ritorno perché non c’è fine al Non Ritorno”.  E si ripete, dopo le grida di una strage, le mura del palazzo lordate di sangue, si ripete non già il gesto del riconoscimento che scioglie le ginocchia, ma la distanza di desideri divergenti, di attese non reciproche, lui del mare aperto, lei delle notti perdute, come se di nuovo si vedesse costretta a tessere e distessere la tela nuziale. Come se lo sterminio fosse la vocazione dell’uomo, la premonizione del distacco quello della donna.
Poi arriva un mercante da Knosso. “E tu chi hai aspettato per venti anni, /potnia basilissa? mi chiede / Occhichiaridilupo. / Nessuno, gli rispondo e rido / nascondendo il capo nello scialle”. Poi Occhichiaridilupo parte. “Vi lega un amore di acqua e di cielo, di tempeste / e naufragi, e attese e pensieri raccolti dalle stelle / come solo agli uccelli e agli dei”. Vengono in mente i Dialoghi con Leucò di Pavese.  Si pensa a Schiuma d’onda, Saffo. Il mare dei miti greci, “tutto intriso di lacrime e di sperma”.  Il mercante le regala una statuetta, una donna che regge nelle mani due serpenti. “E’ il tuo dominio, basilissa senza sposo. / Pòtnia Theròn, signora delle fiere e dei serpenti ...” Penelope diventa, o forse è sempre stata, come Persefone, una dea ctonia. Il mercante si rivela.  “Nel salutarmi / agitava il sottile bastone con le due serpi / intrecciate, e rideva con la complicità della luce / e con l’oscurità dei lupi e chi guida le ombre”. All’uomo lontano, lo sposo che non c’è, Penelope rivolge, allora, il suo ultimo pensiero: “niente che valga più la pena di dirti, / affaccendato come sarai / a ingannare le ombre”. Ecco, Hermes le ombre le conduce al loro ultimo destino, Ulisse le inganna. perché per lui tutto il mondo non è abitato che da ombre. Si chiude l’ultima pagina. Resta nella mente l’immagine di questa donna che aspetta, la cui vita è solo attesa (nell’Odissea, anche del figlio Telemaco). E si resta turbati. Molte domande salgono alla mente. Una fra tutte, la più angosciosa, quella che non ha risposta: e se tutta la vita non fosse altro che questo, l’attesa di un abbandono, fino all’ultimo, quando noi stessi abbandoniamo noi stessi?
Resta nella memoria, però, la musica di questa domanda, di quest’angoscia. Ed è una musica dolcissima, fluida, i versi scorrono con la naturalezza di un discorso a sé stessi, come un discorso tra amici. Le figure del mito, uomini, eroi, dei, sono uomini di tutti i giorni, li incontri nella tua vita fin dal primo giorno.  Sono tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli, gli amici, i mariti,le mogli, gli amanti. E c’è per tutti una partenza, un abbandono, una scomparsa.  Come tutti i dolori profondi della vita, il dolore dell’assenza non è devastatore, non è selvaggio, ma s’insinua, persistente, inesorabile, negli attimi della tua giornata.  Non è guaribile. Ma nessuno è più presente, più dolorosamente presente, di chi ci manca. Pascoli lo dice in maniera inequivocabile alla conclusione dell’ultimo “canto”, il XXIV, dell’Ultimo viaggio, che fa parte dei Poemi conviviali. E’, anche questa, la storia di Ulisse, divisa in XXIV piccoli canti, lo stesso numero dell’Odissea. L’ultimo s’intitola Calypso. Ulisse è partito per il suo ultimo viaggio, naufraga e muore. Il mare porta il suo cadavere sull’isola di Calypso. La dea lo riconosce. Lo avvolge “nella nube / dei suoi capelli; ed ululò sul flutto / sterile, dove non l’udia nessuno: / - Non esser mai! non esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!” Avevo di proposito, prima, taciuto il nome di Pascoli. Ma è forse il poeta italiano che più di altri sa reinventare con libertà la tradizione classica. Il più moderno, almeno.  Su quella scia, ancora più libero, e più moderno, si colloca il bellissimo poemetto di Maria Clelia Cardona. Viene alla mente un’ultima riflessione. E’ dedicato a Ulisse anche il romanzo che ha inaugurato la scrittura moderna del romanzo, l’Ulysses di Joyce. Un trionfo, entusiasmante, di libertà fantastica e linguistica. Non è questo, comunque, il primo impatto di Cardona con il mondo classico. Esistono anche preziosi racconti tra storie augustee, discordie fraterne d’imperatori  romani (Marco Aurelio e Lucio Vero), storie del tardo Impero che riecheggiano Rutilio Namanziano. Ma di questo un’altra volta.
Fiano Romano, 23 luglio2016

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