Miguel Ángel
Hernández, Intento de escapada,
Barcelona, Editorial Anagrama, 2013. Esiste una traduzione italiana di
Elisa Tramontin per le edizioni e/o, 2015, con il titolo Tentativi di Fuga.
Uno studente di arte contemporanea, Marcos, allievo di
un’affascinante professoressa, Helena (pronunciare Eléna), col suo appoggio
diventa segretario di un artista rinomato, Jacobo (pronunciare Jacóbo, con la
gutturale aspirata iniziale) Montes, che conduce ai gradi estremi l’esperimento
di far coincidere contemporaneità e rappresentazione, arte e vita, di abolire
la linea che divide la realtà dalla rappresentazione della realtà. E si spinge
fino a sfiorare l’illecito, a osare, sembra, il crimine. Per rappresentare la
fuga dei migranti, il problema della fuga dei migranti, rinchiude in una cassa
uno di loro, Omar (pronunciare Omár), chiedendogli di restarvi senza mangiare e
bere fin che può. Escrementi, urine dovrà lasciarseli uscire addosso, restarne
impiastricciato fino alla fuga dalla cassa. Potrà uscirne, certo quando vorrà,
quando non sopporterà più di restarvi rinchiuso. Il patto è che vi resti dentro
una settimana. Ma se ne esce prima, non guadagnerà la grande somma promessa. Omar
vi si rinchiude dentro. Splendida la pagina che descrive il suo scivolare e
scomparire dentro la cassa, come altri suoi compagni nel deserto, nel mare, in
qualunque angolo del mondo. La cassa, però, dopo un po’, comincia a emettere un
odore nauseante, anzi un fetore insopportabile, di putredine, di cadavere. Quando
viene esposta, il giorno dell’inaugurazione, il puzzo fa venire il vomito. Si
pensa al peggio. Lo pensa Marcos, che si ribella all’artista. Non rivelo la
soluzione dell’intreccio, per non togliere al lettore la sorpresa della
conclusione del romanzo. Succedono molte altre cose. Si discute anche se questa
sia o non sia arte. Se ne sono sentite di simili all’installazione del ponte
sul lago d’Iseo realizzata da Christo. L’installazione è il processo terminale
di una certa idea di arte, concettuale e comportamentale insieme. Ma le etichette
non chiariscono di che si tratta. A volere essere sottili ne faceva già Lorenzo
Bernini, quando innalzava davanti a Palazzo Farnese, a Roma, una facciata copia
perfetta della facciata del palazzo, ma di legno, e poi le dava fuoco, per
realizzare alla vista di tutti un incendio del palazzo. E’ l’idea barocca della
sorpresa, dell’arte che imita la vita. Ma nel novecento s’introduce un’altra
idea, che configura anche una sconfitta dell’arte, l’incapacità di
rappresentare davvero la realtà. Il primo ad averne l’idea, a immaginare questo
tipo di installazioni, non fu un artista, ma un compositore, Iannis Xenakis,
che era anche , o forse sopratutto, architetto. E’ suo, infatti, il padiglione
Philips dell’Esposizione Internazionale di Bruxelles del 1958, e non di Le
Corbusier, che pure firmò il progetto. Xenakis, queste installazioni le chiama
Polytopi, ebbe l’idea di installarne uno a Persepoli, l’antica capitale
achemenide dell’Impero Persiano, il 26 agosto 1971, nel Palazzo di Dario,
“quello bruciato da Alessandro Magno” ripeteva. Fari militari, laser, suoni
elettronici si mescolavano per più di un’ora, dopo il tramonto, sulle rovine
del palazzo. Ciò creava un corto circuito storico tra il passato e il presente.
E’ proprio questo corto circuito che cerca di attuare Montes, ma non tra il
passato e il presente, bensì tra l’attualità vissuta con imbarazzo, angoscia,
respingimento, delle migrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente, e la
condizione privilegiata del museo, dell’arte, della contemplazione dell’oggetto,
che però non è più una scultura, un quadro, ma un avvenimento. In rete il
lettore trova le fotografie sia del Padiglione Philips che del Polytope di
Persepolis. Possono dare un’idea della realtà alla quale si riferisce il
romanzo. Ma, naturalmente, tale realtà è esasperata dalla brutalità del mondo
di oggi, dal gigantesco traffico umano di miseria e di sciacallaggio
speculativo che ruota intorno al fenomeno delle migrazioni. “Puoi morire” dice
Montes ad Omar. “Non m’importa! Ho bisogno di quei soldi. Potevo morire anche
venendo fino a qui. Posso morire di fame se non mi fanno lavorare”. La morte,
per Omar, non è uno spettro lontano, ma la realtà quotidiana che vive nel campo
dei rifugiati. E allora l’arte, lui che sa che cos’è l’arte, lui che disegna, che
scrive un diario, l’arte potrebbe essere la linea di spartizione che dalla
morte lo riconduce alla vita. A un certo punto Marcos vuole sottrarsi al gioco.
Sospetta un crimine. Helena, preoccupata che possa mandare a monte tutto il
progetto, per convincerlo a desistere dal proposito di denunciarli, gli pratica
un pompino. Eiaculando, Marcos si sente uscire da sé stesso. E afferra in un
attimo quale sia la fuga di tutti, di Omar, di Montes, di Helena, dalla vita,
come se proprio la vita fosse il male, e il confronto fosse sempre con la
morte, una morte che c’è, alla quale non ci si può sottrarre, prima o dopo, ci
arriva addosso, ci coglie, ci toglie di mezzo. La condizione di Omar è la
condizione di tutti. Don Chisciotte conosce la realtà del suo sogno quando
capisce che la Morte è venuta a visitarlo. E’ un tema assai caro alla
tradizione letteraria e figurativa spagnola. “Mirad que vais a morir, / si está
en Diós que muráis” (Guardate che morirete / se Dio ha stabilito che moriate) dice
Clarín, il “gracioso”, il jolly del teatro elisabettiano, il buffone delle
Corti rinascimentali e barocche, l’Arlecchino della Commedia dell’Arte, nella Vita è sogno di Calderón de la Barca. Ed
è giusto che a dirlo non sia un personaggio tragico, ma un buffone. Oppure il
povero, l’escluso. Nel Gran teatro del
mondo, sempre di Calderón, al “gracioso”, al giullare viene affidata la
parte del povero. E ti pareva, protesta costui. Sempre a me l’ultima parte,
quella del derelitto, dello scacciato. La tensione del romanzo è estrema. Una
prosa nervosa, articolatissima, s’insinua nelle pieghe insospettate, nascoste
di ogni personaggio. Lo scontro è tra
esserci o non esserci. Di nuovo un dilemma già esposto dal teatro, ricordate il
monologo di Amleto? Ecco, tutta l’azione del romanzo ha qualcosa di teatrale, o
di cinematografico. Il ritmo asseconda il procedere dell’azione ora con
studiata lentezza ora con frenetica furia. In somma, un capolavoro, di
concezione e di scrittura. Ed è il suo primo romanzo. In Spagna è già uscito il
secondo, El instante de peligro,
l’istante di pericolo, sempre per Anagrama. E simultaneamente esce una
riflessione sulla scrittura del romanzo, Presente
continuo, un po’ come fece Thomas Mann, quando scrisse Romanzo di un romanzo, per raccontare la scrittura del Doktor Faustus. Lì c’era Schoenberg e
l’invenzione della scrittura seriale, il nazismo, il suicidio della Germania e
dell’Europa. Qui c’è Walter Benjamin. E una riflessione sul significato, il
destino, il contenuto dell’arte, oggi. Ma soprattutto, sul senso della vita, e
dell’eterno confronto con la morte. Che non è solo quella individuale di
ciascuno. Ma può essere di un paese, di un continente, di una civiltà. Come dice bene Julian Barnes: The Sense of an Ending (New York, Vintage International, 2011). “La
muerte es lo más real. Pero por
todos los medios buscamos maneras de
tapar esa realidad. El discurso del cura, el ritual, la caja ..., maneras de
barnizar lo más terrible. Pensé entonces que en el fondo, todo eran forma de
iconostasis, maneras de poner distancia
ante lo inevitable. Y tuve claro que el arte de Montes pretendía precisamente
lo contrario de eso, quitar distancia, romper el ritual, llegar a lo más real,
aunque nunca pudiera conseguirlo del todo. Porque la única realidad real
es la muerte. La última frontera, la última barrera. Ahí es donde todo acaba. Lo más real, lo más abyecto, el fin de la
representación. Si Montes pretendía llegar a lo real, la muerte era la única
solción” (La morte è il massimo di realtà. Ma con ogni mezzo cerchiamo maniere
di coprire questa realtà. Il discorso del prete, il rituale, la cassa ...,
maniere di verniciare ciò ch’è più terribile. Pensai allora che nel fondo,
tutto erano forme di iconostasi, maniere di porre distanze davanti
all’inevitabile. E mi fu chiaro che l’arte di Montes pretendeva precisamente il
contrario di ciò, togliere distanza, rompere il rituale, arrivare a ciò che c’è
di più reale, anche se mai avrebbe potuto conseguirlo del tutto. Perché l’unica
realtà reale è la morte. L’ultima frontiera, l’ultima barriera. Lì è dove tutto
finisce. Ciò che c’è di più reale, di più abietto, la fine della rappresentazione.
Se Montes pretendeva arrivare alla realtà, la morte era l’unica soluzione). Miguel Ángel Hernández, nato nel 1977, è
professore di Storia dell’Arte
all’Università di Murcia. E tiene corsi di storia dell’arte all’Università di
Ithaca, negli USA. Niente di straordinario, dunque, che attraverso la figura di
un artista, ci racconti l’oggi. Ma più straordinario è che l’oggi così
raccontato non ci appaia la nicchia di un’élite intellettuale, bensì metta in
discussione proprio il ruolo di interprete del mondo, di guida esperta, che
quell’élite pretende di assumersi, mentre anch’essa è succube, come il resto
del mondo, di un disorientamento, di una perdita di realtà, non solo
intellettuale, ma prima ancora esistenziale, della vita di oggi, in tutte le parti
del mondo. E che ce lo racconti uno spagnolo non è forse casuale, se proprio la
letteratura spagnola, forse come nessun’altra letteratura del mondo, ci ha
abituati, fin dalle origini, fin dal Poema
de mio Cid (la Chanson de Rollant spagnola),
a non fidarci di ciò che vediamo, che sentiamo, che viviamo. El engaño, l’inganno,
e perciò l’inevitabile desengaño, il disinganno, non è mai del mondo, ma sempre
del nostro modo di stare al mondo.
Fiano Romano, 22 luglio 2016
Nessun commento:
Posta un commento