domenica 24 luglio 2016

Marco Minà, italians



Marco Minà, guitar, italians. Musiche di Paganini, Giuliani, Castelnuovo-Tedesco, Bettinelli, e una rielaborazione dell’Inno d’Italia scritta dallo stesso Minà. guitarevolution. office4music.

La chitarra, strumento strapazzatissimo da tutti coloro che pensano basti strappare qualche accordo, e canticchiarvi sopra senza voce, è invece uno strumento nobile e più antico di quanto si pensi.  Non solo. Ma si è adattata a tutti i luoghi e le culture in cui si è insediata e inserita. E’ uno strumento a corde pizzicate, come il liuto e come il clavicembalo e la spinetta. Non introduco a caso questi confronti. La terminologia della classificazione italiana degli strumenti è, infatti, fuorviante. Il clavicembalo è definito strumento a tastiera. Ma con l’organo, il pianoforte e il clavicordo, ha pochissime affinità, se si esclude l’uso di una tastiera per individuare il suono da far vibrare. Ma mentre sul liuto e sulla chitarra, strumenti a corde, le corde sono pizzicate direttamente dalle dita, sul clavicembalo il pizzico è affidato ai saltarelli, e al loro plettro, la tastiera dell’organo apre le canne da cui escono i suoni, ed è pertanto uno strumento a fiato, il pianoforte, infine, e il clavicordo, usano la tastiera per muovere dei martelletti che percuotono le corde, e potrebbero considerarsi strumenti a percussione, come lo xilofono, per esempio. Non è qui il caso di entrare nei particolari. Ma la vaghezza di questa terminologia crea qualche problema quando si passa da una lingua all’altra. Gli italiani, per esempio, intendono per strumenti a corda soprattutto, se non esclusivamente, quelli che chiamano archi. Così un’opera come il Concerto per corde, percussioni e celesta di Béla Bartók in italiano diventa Concerto per archi, celesta e percussioni. Si trascura il fatto che tra le code Bartók preveda anche l’uso di un’arpa. Nel titolo italiano, fuorviante, dell’arpa non resta invece nessuna traccia. Non è il solo caso di approssimazione fallace di titoli tradotti in italiano da altre lingue. Il più famoso, e davvero deviante, è quello che traduce il Wohltemperierte Klavier di Johann Sebastian Bach con Clavicembalo ben temperato. La cattiva traduzione è dovuta a una prima cattiva traduzione francese, da cui si è tratta la traduzione in italiano. Klavier in tedesco significa tastiera e non clavicembalo, clavicembalo si dice Cembalo, dunque il titolo significa La tastiera ben temperata. Ciò taglia la testa a tante inutili controversie sull’uso dello strumento adatto. Per Bach, qualsiasi strumento che si serva di una tastiera. Anzi, dato il limite rispettato di quattro ottave, è probabile che pensasse al clavicordo, che appunto non supera le quattro ottave. Era lo strumento di studio, e l’opera è soprattutto un’opera di studio. Non solo, ma essendo il clavicordo uno strumento sensibile al tocco, come il pianoforte, è probabile che Bach lo preferisse proprio per questa ragione. E’ del resto una leggenda metropolitana che Bach non amasse il pianoforte. Non amava i primi esemplari di Cristofori. Ma quando Sielber a Berlino gli fece conoscere i suoi nuovi modelli, ne ordinò quattro che si fece trasportare a Lipsia, per la sua personale collezioni di strumenti. Ed è probabile che li usasse per i concerti nel Café Zimmermann, luogo che sarebbe diventato il Gewandhaus. Tutto questo per riordinare un po’ le idee intorno all’uso degli strumenti, dal barocco al romanticismo.  E proprio dal romanticismo parte Marco Minà, che riunisce in questo bel cd musiche da Paganini al Novecento. Non c’è ancora l’uso “popolare” della chitarra, essa è ancora uno strumento polifonico. La tradizione italiana mette in risalto più la costruzione di melodie che l’intricarsi dei ritmi, come avviene nella tradizione spagnola. Ma sarebbe fuorviante intendere la cantabilità per esteriore sfoggio melodico. Paganini, oltre che virtuoso di violino lo era anche della chitarra. Come prima di lui Boccherini, virtuoso di violoncello, ma che spesso associa nei suoi quintetti una chitarra. Da questo quadro storico emergono, tuttavia, caratteri comuni di chiarezza formale, pulizia della scrittura contrappuntistica, mai esasperata, nemmeno nelle pagine più contortamente moderne di Castelnuovo-Tedesco e Bettinelli. L’ascoltatore può seguire senza difficoltà il formarsi delle melodie, il loro intrecciarsi, il procedere fluido delle armonie. Il canto è quasi spudoratamente esibito da Paganini. Più introverso in Giuliani. Si avvertono gli influssi di una cultura controllata e severa come quella viennese. Sospeso tra la crisi delle forme romantiche e l’inseguimento di nuovi modelli formali, Castelnuovo-Tedesco si prefigge tuttavia di non rinunciare mai alla gradevolezza dell’ascolto, assolutamente delizioso e godibile il suo Tempo di minuetto. Più intricato Bettinelli, più asciutte le sinfonie contrappuntistiche, meno abituale l’armonia. La secchezza, la spigolosità delle poetiche novecentesche ispira pagine più ascetiche, alla ricerca di una nuova cantabilità che non risulti prevedibile. Ma è mirabile la proprietà strumentale della scrittura, nessun punto che appaia nemico della chitarra. Una sorpresa assai intrigante la rielaborazione di Fratelli d’Italia scritta dallo stesso Minà. La musica, confessiamolo, banalotta, del nostro inno nazionale, sembra acquistare qui una nobiltà che l’associa ad altre sfere, meno popolari, della scrittura musicale. Proprio l’asciuttezza del fraseggiare, la precisione del contrappunto, la morbidezza dell’armonia, conferiscono alle letture di Marco Minà una sorta di rivelazione del senso di queste musiche. Liberate dagli orpelli e dagli esibizionismi virtuosistici che ne deturpano la chiarezza ed eleganza stilistica, riemergono con la freschezza di musiche godibili non solo per la bellezza del canto, ma anche, e forse soprattutto, per l’intelligenza e sobrietà della scrittura. Un capitolo imprescindibile della musica per chitarra italiana. L’Inno d’Italia finisce così per costituirne, più che la coda, il simbolo d’identità.
Fiano Romano, 24 luglio 2016

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