LA VIA DI SANTIAGO
A Maria Clelia
Aeneadum genetrix hominum divomque
voluptas[1]
...
Lucrezio
Lo schiavo che lasciò su pietra
scritto
a Delfi ἐλευθερίαν[2],
scorciatoia
tra il desiderio e l’atto che
l’appaga,
ci avvicina gli dei, più di ogni
tempio.
Altri occhi hanno gli dei, ma non li
vede
lo sguardo dei felici, agl’infelici
è dato, invece, indovinarli. Guardo
il tratto della Via che mi conduce
a Santiago di Compostela. Guardo
lo spiazzo che davanti all’imponente
Cattedrale si schiude al visitante.
Penso che siamo figli dello schiavo
di Delfi o suoi fratelli. Ma nessuno
conosce più l’astuzia di sottrarsi
al sorriso di Circe o l’arte apprende
di udire il canto di Sirene, senza
farsene catturare e ritrovarsi
condannati al silenzio. Voglio udire
quel canto da lontano, come fosse
di stanchi Pellegrini, che a Santiago
vengono libertà cercando, cara
più della vita, per scambiarla forse
non con la morte, ma con altra vita.
E tramutare in cielo la soffitta
dei propri quotidiani affanni, il buio
delle povere case spalancarlo
Da quale casa, io, per quali campi,
la libertà che invoco andrò cercando?
Se guardo queste strade, se l’orecchio
tendo alle voci ch’esultano in festa,
ancora c’è qualcuno, chiedo, ancora
qualche voce che riconosca il senso
del proprio canto? o, come i
Pellegrini,
che cantino l’adempimento atteso
di un rito di ritorno? O spensierati.
inefficaci, cantano soltanto
perché l’hanno imparato, il canto, e
un canto
vale l’altro? Poeta di che cosa
chi dice, non importa se dolore
o se gioia? Vorrei che le parole
avessero la musica di un senso
del mondo, anzi di un senso che lo
spieghi.
Non è detto che senso di parole.
Ma musica che ha senso di parole.
M’interrogo sul tempo che ho trascorso
fino ad oggi. E m’assale con un morso
rabbioso il senso degli anni, dei
giorni,
che non ritorneranno. E’ questa, è
questa,
dico, la libertà che fugge, il tempo
che s’annienta, ritorno sempre al
punto
da cui parto, a quegli anni perduti,
all’irreversibiltà del tempo.
Un’altra vita per le strade tutte
del mondo cerca chi verso Santiago
muove il suo piede, chi con un bastone
nella sua mano e con lo zaino in
spalla,
e con una conchiglia appesa al collo.
Il passo s’interrompe sullo spiazzo.
S’arresta l’occhio e guarda. Ma che cerca,
se non la vita che non ha? che chiede,
se non il tempo mai vissuto? che
vuole,
se non il senso che non sa, la voce
che non ha? Fortunato se s’illude
di trovarli, se non quei giorni, almeno
più vivi e nuovi quelli che verranno.
Fortunato se l’illusione ignora
che l’inganna. Ma chi fugare tenta
l’inganno invano, intorbidare il
flusso
dei ricordi, di quale peso sgombra
lo sosterrà la mente? Tutto scorre,
tranne il rimpianto di ciò ch’è
trascorso.
Inacerbita dolcezza, la calma
che si ricorda del tempo felice.
Non è dolore, ma nemmeno gioia.
Il termine fissato è là che aspetta.
Dimenticarlo, o fingere una tregua,
che l’attesa oltrepassi il suo
confine,
può alleggerire il giorno, ma non
sposta
il termine fissato. Il buio è buio,
accesa
da qualcuno non vedrai
nessuna luce, ma ti mancheranno
gli occhi, ti mancherà la voce, il
fiato,
per invocarla. E non ne sentirai
nemmeno la mancanza. Guardo il tratto
di strada che mi sbriciola la vista,
prima di entrare nello spiazzo. L’alto
fusto del campanile mi sogguarda
quasi con irrisione. Entra, ma entra
almeno
nella chiesa. Non s’ode che il
bisbiglio
dei visitanti. Solo un italiano
grida da una navata all’altra: Aurora,
vieni a vedere. Ma il silenzio torna
subito tra le arcate a sesto intero
della chiesa. Giù in fondo, s’apre
acuta,
nell’abside, la volta. Con furore
barocco t’aggrediscono gli altari.
E il mondo si dipana in mille forme.
La cupa Addolorata col mantello
nero. Il Cristo che giace morto sotto
l’altare, il corpo livido e svuotato.
Un dio che muore, ti sussurri, piano.
Ma come morto, in questo luogo, sento
anche io il mio corpo: ἐλευθερίαν,
mi viene da gridare. Ἐλευθερίαν,
selvaggio dio dall’arco che guarisce,
tu che sai anche uccidere. Se morto,
io ti sembro più tuo, non mi colpire.
Basto da me. Quel termine mi aspetta.
Non è l’uscire, né l’entrare, il
senso.
Chi sa, forse il restare. O la domanda
che perdura: dormire, o anche sognare,
e dirsi che ogni affanno della vita
finisce. Oggi il divieto non ha forza
più come l’ebbe un tempo. E che
nessuna
voluptas il perpetuo generarsi
delle cose conduce al godimento
di un arresto. Misura del mutarsi
e muoversi dei corpi, il ciclo breve
degli anni, breve per chi lo subisce,
ma per sé solo il battito di un ciglio,
nell’incommensurabile durata
di ciò che esiste, fosse pure il botto
di un’esplosione che non è finita.
Posso sentire il volo di una mosca
sul mio naso, saprò così che sono
stato e che non sarò mai più chi sono.
Ma poi, in fondo, che cos’è la vita?
un’ombra, una finzione, un’illusione,
e il più grande dei beni è ancora
niente,
perché tutta la vita è sogno, e i
sogni
non sono altro che sogni. Noi ci
stiamo
in mezzo, e non sappiamo di sognarci.
Sulla scena del mondo c’è qualcuno
che gioca a dadi con i nostri ruoli,
ma la fine del dramma mette a posto
tutte le cose. E il gioco si conclude.
Io mi sono sentito dalla testa
strappare i miei capelli. Ho visto a
un tratto
cadermi a terra tutti i miei vestiti.
E così nudo, in faccia al dio che
tace,
non sapere chi sono. Fosse pure,
invece, proprio quel silenzio, il vero
significato di me stesso, il senso
di qualche identità, più che segreta,
non disposta alla scambio, tutta mia,
solo mia. Quel terribile silenzio,
che, come una voragine, minaccia,
da sempre, d’inghiottire le parole.
Santiago di Compostela, 2 gennaio –
Fiano Romano, 6 gennaio 2017
[1]
Degli Eneadi genitrice, degli uomini e degli dei voluptas (intraducibile!
piacere in italiano ha senso più ristretto), Lucrezio, De rerum natura, I, 1.
[2]
eleutherían, accusativo di eleuthería, libertà, sottinteso θέλω, thélô, voglio, o forse, addirittura un
ottativo θέλοιμι, théloimi, vorrei,
se non addirittura λύομι, lýomi,
che io possa sciogliere. In ogni caso un voto di libertà.
Nessun commento:
Posta un commento