martedì 20 dicembre 2016

Lo stile



In musica, in letteratura, mi dilungo spesso sulla necessità di uno stile (NIetzsche direbbe “di un grande stile”), sulla cura della costruzione, sulla scelta degli elementi che la fondano (un ritmo, un intervallo, in musica, una parola, i suoi echi, in una poesia). Ma forse non a  tutti riesco a far penetrare questa necessità. In fondo la cultura italiana che s’impara nelle scuole è contenutistica, psicologistica, una poesia la si giudica per ciò che rivela del sentimento del poeta, una musica per le emozioni che suscita. Cose legittime, ma che non riguardano che cosa la poesia sia, che cosa sia la musica, al di là delle suggestioni che provocano nel lettore, nell’ascoltatore. Il poeta è certo un uomo che sente come gli altri uomini , ma solo lui di questi sentimenti fa materia di poesia. Quanti da ragazzi si sono innamorati di una ragazza appena intravista, e mai veramente conosciuta? Ma solo Leopardi scrive A Silvia. Quanti hanno conosciuto l’abbandono, il desiderio inappagato che prostra, e ci concede a un’immedicabile solitudine? Ma solo Saffo ha espresso questo in pochi versi: La luna è tramontata, / sono tramontate le Pleiadi, / e io sola giaccio (nel mio letto). “Giaccio nel mio letto” è un’approssimazione del verbo greco κατεύδω (katéudo), intraducibile: giacere, stare a letto, disporsi a un incontro, unito all’attributo μόνα (mona), sola: μόνα κατεύδω, sola giaccio. Tutto insieme. E proprio nella sintesi folgorante di un solo verbo, unito a un solo attributo, sta la forza della poesia. Ecco, questo è lo stile. C’è un aforisma di Nietzsche, folgorante, al riguardo, nei frammenti postumi: “Si è artisti al prezzo di sentire come contenuto ciò che i non artisti chiamano forma. Certo, in tal modo si vive in una sorta di mondo capovolto, nel senso che tutto diventa forma, anche la propria vita”. Terribile. Ma è questo l’arte. A chiarire ancora meglio la mia concezione di stile faccio qui sotto due esempi. Uno, di Dante. L’altro di un poeta italiano del Novecento, Vittorio Sereni. L’inizio e la modernità della poesia italiana.
Ecco Dante. E’ la prima stanza di una canzone bellissima, elaboratissima. Dante è poeta che può emozionare profondamente. Ma non è per tutti. Richiede dal lettore un bagaglio culturale piuttosto nutrito, anche filosofico, e una conoscenza assai più che dilettantesca della lingua (naturalmente il fiorentino del tardo Duecento e del Trecento). Chi non possegga questi requisiti se ne tenga alla larga. Fraintenderebbe tutto. Il famosissimo sonetto “Tanto gentile e tanto honesta pare”, per esempio, contiene parole che si usano ancora oggi, ma che oggi non significano ciò che significavano nel Duecento. Gentile è sinonimo di nobile, honesta non significa virtuosa, ma degna di onore, e pare non è presente di parere ma di apparire, e significa dunque appare. La lingua degli altri tredici versi presenta uguali differenze con la lingua di oggi. Oltretutto, una volta compreso nel suo esatto significato, il sonetto non solo si rivela più comprensibile, ma anche più bello ed emozionante, e soprattutto più complesso. La poesia non è mai semplice, ma sempre complessa, perché vi si possono leggere stratificati diversi livelli di significati e di comprensione. Tra l’altro, i poeti del Due-Trecento lo sapevano benissimo, e codificavano questi livelli in differenti stati di significato: letterale, allegorico, anagogico. Nessuno di questi significati nega l’altro, ma tutti appaiono simultaneamente presenti nella poesia. Che Beatrice nel Paradiso possa significare la Teologia non cancella il fatto che sia, anche, la donna amata da Dante, anzi è proprio perché essa è la donna amata che è anche la donna che conduce alla salvezza (Dante dice salute, e il saluto è un segno di questa salvezza). Ma veniamo alla stanza della canzone: nell’edizione Barbi la LXVII, in Contini la 20, in De Robertis la 10, e nella bellissima edizione dei Meridiani, a cura di Claudio Giunta, la 19

 E’ m’incresce di me sì duramente,
ch’altrettanto di doglia
mi reca la pietà quanto ‘l martiro,
lasso, però che dolorosamente
sento contro mia voglia
raccoglier l’aire del sezza’ sospiro
entro ‘n quel cor che ‘ belli occhi feriro
quando li aperse Amor con le sue mani
per conducermi al tempo che mi sface.
Oimè, quanto piani,
soavi e dolci ver’ me si levaro
quand’elli incominciaro
la morte mia, che tanto mi dispiace,
dicendo: “Nostro lume porta pace”.

Tutta la stanza è composta di due sole frasi. All’interno delle quali l’articolazione è ricchissima. E’ questa una peculiarità dello stile di Dante: abbracciare in una sola frase fenomeni complessi.  L’argomento è presto intuibile: Dante parla della propria morte. Nel seguito della canzone veniamo a sapere che da bambino fu sul punto di morire per una malattia, e nello stesso periodo in cui si infiammò per Beatrice. Amore e morte, direbbero i romantici. Ma qui l’accostamento non è sentimentale, ma filosofico. L’amore è una forma del morire, un morire a sé stessi. L’originalità di Dante è di dare concretezza biografica a questa idea. Non solo da bambino sente di morire nello stesso tempo in cui s’innamora, ma l’angelo che lo uccide infiammandolo d’amore, verrà tolto presto dalla terra, morirà,e questa morte dell’amata parrà all’amante una figura (nel senso che attribuisce a questo termine l’esegesi medievale), cioè un’allegoria, un significato altro, anche mistico, del distacco, che non è solo distacco della donna dall’uomo che l’ama, ma della donna da sé stessa e dell’uomo da sé stesso.  Si osservi l’intricarsi di rime e assonanze, allitterazioni e rinvii simbolici da una parola all’altra: duramente fa rima con dolorosamente e le due parole cominciano con la stessa dentale sonora d.  Doglia fa rima con voglia, ed è proprio il desiderio deluso a generare dolore, così come l’ultimo (sezza’, sezzaio) sospiro d’amore si confonde col rantolo della morte (incomiciaro la morte mia). Questi sono solo cenni. Un’analisi più particolareggiata si trova nell’edizione citata dei Meridiani. Queste brevi note vogliono solo suggerire la complessità della costruzione fantastica e del pensiero filosofico che la sottende, e la perfetta realizzazione stilistica di questa complessità. Ma è Dante, direte. Certo, la densità di pensiero e di emozione nella poesia di Dante conosce pochi confronti. Ma non sarebbe stata più semplice la lettura di un sonetto del Petrarca o di un canto di Leopardi.
Veniamo ora a Sereni. E’ l’ultima poesia della raccolta intitolata Gli strumenti umani (1965).

La spiaggia

Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: - Non torneranno più. –

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari ... Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
                                                                  Non
dubitare, - m’investe della sua forza il mare –
parleranno.

Già a una prima lettura balza subito all’orecchio una certa regolarità ritmica. L’analisi farà scoprire che tale regolarità è dovuta a una sapiente dosatura di metri tradizionali: la prima strofa è composta da un settenario, da un doppio settenario e da un quinario seguito da un settenario.  Con la seconda strofa compare un frammento ritmico diverso: Ma oggi. Tre sillabe, tra ma e oggi c’è iato. Ritornano  in Segnali e si contraggono in una sola sillaba alla terza strofa: Non, che però un enjambement lega al verso successivo: Non / dubitare. Tolto l’ottonario, irregolare (accento sulla seconda invece che sulla terza sillaba), nel resto tornano i settenari, e perfino un endecasillabo (e zitti quelli al tuo voltarti, come), e lacerti di altri ritmi, tutti variazione dell’inciso Ma oggi. Un lacerto, la conclusione: parleranno. Come a lasciare aperto il discorso, alla voce dei morti. Perché anche qui, di morte si parla, anzi si canta. Ma non c’è salvezza.  La durezza del distacco è già espressa dall’urto sintattico di un plurale seguito da una terza persona singolare, la copula è: I morti non è. I morti diventano un mucchio, un solo fenomeno, e ciò che del mucchio fa male non è l’assenza, ma la presenza ostinata, ossessiva della loro assenza, di qualcosa che ne denuncia l’assenza, le toppe d’inesistenza. Sono toppe di qualcosa che non c’è, che non c’è più. Ma stanno lì, a mostrarti questo non esserci più. Vengono in mente i versi finali di un poemetto pascoliano:  Non esser mai, più nulla, / ma meno morte che non esser più. Qui, il ricordo va all’altra raccolta di Sereni, il Diario d’Algeria.  Quei morti sulla spiaggia del campo di concentramento diventano tutti i morti, tutti i distacchi incolmabili della vita. Ciascuno potrà continuare da sé l’analisi di questa bellissima poesia. Avevo ventiquattro anni quando la lessi per la prima volta. E preso dall’entusiasmo per avere scoperto un grande poeta, gli scrissi. Nessun atto, nessun gesto definisce meglio chi fu Vittorio Sereni, che un fatto: mi rispose. E m’invitò a conoscerlo di persona. Il grande poeta, consulente della Mondadori,  volle conoscere il ragazzo che aveva dimostrato tanto entusiasmo per la sua poesia.  E passammo momenti bellissimi, a Roma, come a Milano, a parlare di poesia.

Fiano Romano, 20 dicembre 2016

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