In musica,
in letteratura, mi dilungo spesso sulla necessità di uno stile (NIetzsche
direbbe “di un grande stile”), sulla cura della costruzione, sulla scelta degli
elementi che la fondano (un ritmo, un intervallo, in musica, una parola, i suoi
echi, in una poesia). Ma forse non a
tutti riesco a far penetrare questa necessità. In fondo la cultura
italiana che s’impara nelle scuole è contenutistica, psicologistica, una poesia
la si giudica per ciò che rivela del sentimento del poeta, una musica per le
emozioni che suscita. Cose legittime, ma che non riguardano che cosa la poesia
sia, che cosa sia la musica, al di là delle suggestioni che provocano nel
lettore, nell’ascoltatore. Il poeta è certo un uomo che sente come gli altri
uomini , ma solo lui di questi sentimenti fa materia di poesia. Quanti da
ragazzi si sono innamorati di una ragazza appena intravista, e mai veramente
conosciuta? Ma solo Leopardi scrive A Silvia. Quanti hanno conosciuto
l’abbandono, il desiderio inappagato che prostra, e ci concede a un’immedicabile
solitudine? Ma solo Saffo ha espresso questo in pochi versi: La luna è
tramontata, / sono tramontate le Pleiadi, / e io sola giaccio (nel mio letto).
“Giaccio nel mio letto” è un’approssimazione del verbo greco κατεύδω (katéudo),
intraducibile: giacere, stare a letto, disporsi a un incontro, unito all’attributo
μόνα (mona),
sola: μόνα κατεύδω, sola giaccio. Tutto
insieme. E proprio nella sintesi folgorante di un solo verbo, unito a un solo attributo,
sta la forza della poesia. Ecco, questo è lo stile. C’è un aforisma di
Nietzsche, folgorante, al riguardo, nei frammenti postumi: “Si è artisti al
prezzo di sentire come contenuto ciò che i non artisti chiamano forma. Certo,
in tal modo si vive in una sorta di mondo capovolto, nel senso che tutto
diventa forma, anche la propria vita”. Terribile. Ma è questo l’arte. A
chiarire ancora meglio la mia concezione di stile faccio qui sotto due esempi.
Uno, di Dante. L’altro di un poeta italiano del Novecento, Vittorio Sereni.
L’inizio e la modernità della poesia italiana.
Ecco Dante.
E’ la prima stanza di una canzone bellissima, elaboratissima. Dante è poeta che
può emozionare profondamente. Ma non è per tutti. Richiede dal lettore un
bagaglio culturale piuttosto nutrito, anche filosofico, e una conoscenza assai più
che dilettantesca della lingua (naturalmente il fiorentino del tardo Duecento e
del Trecento). Chi non possegga questi requisiti se ne tenga alla larga.
Fraintenderebbe tutto. Il famosissimo sonetto “Tanto gentile e tanto honesta
pare”, per esempio, contiene parole che si usano ancora oggi, ma che oggi non
significano ciò che significavano nel Duecento. Gentile è sinonimo di nobile,
honesta non significa virtuosa, ma degna di onore, e pare non è presente di
parere ma di apparire, e significa dunque appare. La lingua degli altri tredici
versi presenta uguali differenze con la lingua di oggi. Oltretutto, una volta
compreso nel suo esatto significato, il sonetto non solo si rivela più
comprensibile, ma anche più bello ed emozionante, e soprattutto più complesso. La
poesia non è mai semplice, ma sempre complessa, perché vi si possono leggere
stratificati diversi livelli di significati e di comprensione. Tra l’altro, i
poeti del Due-Trecento lo sapevano benissimo, e codificavano questi livelli in
differenti stati di significato: letterale, allegorico, anagogico. Nessuno di
questi significati nega l’altro, ma tutti appaiono simultaneamente presenti
nella poesia. Che Beatrice nel Paradiso possa significare la Teologia non
cancella il fatto che sia, anche, la donna amata da Dante, anzi è proprio
perché essa è la donna amata che è anche la donna che conduce alla salvezza (Dante
dice salute, e il saluto è un segno di questa salvezza). Ma veniamo alla stanza
della canzone: nell’edizione Barbi la LXVII, in Contini la 20, in De Robertis
la 10, e nella bellissima edizione dei Meridiani, a cura di Claudio Giunta, la
19
E’ m’incresce di me sì duramente,
ch’altrettanto di doglia
mi reca la pietà quanto ‘l martiro,
lasso, però che dolorosamente
sento contro mia voglia
raccoglier l’aire del sezza’ sospiro
entro ‘n quel cor che ‘ belli occhi
feriro
quando li aperse Amor con le sue mani
per conducermi al tempo che mi sface.
Oimè, quanto piani,
soavi e dolci ver’ me si levaro
quand’elli incominciaro
la morte mia, che tanto mi dispiace,
dicendo: “Nostro lume porta pace”.
Tutta la
stanza è composta di due sole frasi. All’interno delle quali l’articolazione è
ricchissima. E’ questa una peculiarità dello stile di Dante: abbracciare in una
sola frase fenomeni complessi.
L’argomento è presto intuibile: Dante parla della propria morte. Nel
seguito della canzone veniamo a sapere che da bambino fu sul punto di morire
per una malattia, e nello stesso periodo in cui si infiammò per Beatrice. Amore
e morte, direbbero i romantici. Ma qui l’accostamento non è sentimentale, ma
filosofico. L’amore è una forma del morire, un morire a sé stessi. L’originalità
di Dante è di dare concretezza biografica a questa idea. Non solo da bambino
sente di morire nello stesso tempo in cui s’innamora, ma l’angelo che lo uccide
infiammandolo d’amore, verrà tolto presto dalla terra, morirà,e questa morte
dell’amata parrà all’amante una figura (nel senso che attribuisce a questo
termine l’esegesi medievale), cioè un’allegoria, un significato altro, anche
mistico, del distacco, che non è solo distacco della donna dall’uomo che l’ama,
ma della donna da sé stessa e dell’uomo da sé stesso. Si osservi l’intricarsi di rime e assonanze,
allitterazioni e rinvii simbolici da una parola all’altra: duramente fa rima
con dolorosamente e le due parole cominciano con la stessa dentale sonora d. Doglia fa rima con voglia, ed è proprio il
desiderio deluso a generare dolore, così come l’ultimo (sezza’, sezzaio)
sospiro d’amore si confonde col rantolo della morte (incomiciaro la morte mia).
Questi sono solo cenni. Un’analisi più particolareggiata si trova nell’edizione
citata dei Meridiani. Queste brevi note vogliono solo suggerire la complessità
della costruzione fantastica e del pensiero filosofico che la sottende, e la
perfetta realizzazione stilistica di questa complessità. Ma è Dante, direte.
Certo, la densità di pensiero e di emozione nella poesia di Dante conosce pochi
confronti. Ma non sarebbe stata più semplice la lettura di un sonetto del
Petrarca o di un canto di Leopardi.
Veniamo ora
a Sereni. E’ l’ultima poesia della raccolta intitolata Gli strumenti umani
(1965).
La spiaggia
Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il
ricevitore.
E poi, saputa: - Non torneranno più. –
Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima
visitato
quelle toppe solari ... Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come
niente fosse.
I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, - m’investe della sua forza
il mare –
parleranno.
Già a una
prima lettura balza subito all’orecchio una certa regolarità ritmica. L’analisi
farà scoprire che tale regolarità è dovuta a una sapiente dosatura di metri tradizionali:
la prima strofa è composta da un settenario, da un doppio settenario e da un
quinario seguito da un settenario. Con
la seconda strofa compare un frammento ritmico diverso: Ma oggi. Tre sillabe,
tra ma e oggi c’è iato. Ritornano in
Segnali e si contraggono in una sola sillaba alla terza strofa: Non, che però
un enjambement lega al verso successivo: Non / dubitare. Tolto l’ottonario,
irregolare (accento sulla seconda invece che sulla terza sillaba), nel resto
tornano i settenari, e perfino un endecasillabo (e zitti quelli al tuo
voltarti, come), e lacerti di altri ritmi, tutti variazione dell’inciso Ma
oggi. Un lacerto, la conclusione: parleranno. Come a lasciare aperto il discorso,
alla voce dei morti. Perché anche qui, di morte si parla, anzi si canta. Ma non
c’è salvezza. La durezza del distacco è
già espressa dall’urto sintattico di un plurale seguito da una terza persona
singolare, la copula è: I morti non è. I morti diventano un mucchio, un solo
fenomeno, e ciò che del mucchio fa male non è l’assenza, ma la presenza
ostinata, ossessiva della loro assenza, di qualcosa che ne denuncia l’assenza,
le toppe d’inesistenza. Sono toppe di qualcosa che non c’è, che non c’è più. Ma
stanno lì, a mostrarti questo non esserci più. Vengono in mente i versi finali
di un poemetto pascoliano: Non esser
mai, più nulla, / ma meno morte che non esser più. Qui, il ricordo va all’altra
raccolta di Sereni, il Diario d’Algeria.
Quei morti sulla spiaggia del campo di concentramento diventano tutti i
morti, tutti i distacchi incolmabili della vita. Ciascuno potrà continuare da
sé l’analisi di questa bellissima poesia. Avevo ventiquattro anni quando la
lessi per la prima volta. E preso dall’entusiasmo per avere scoperto un grande
poeta, gli scrissi. Nessun atto, nessun gesto definisce meglio chi fu Vittorio
Sereni, che un fatto: mi rispose. E m’invitò a conoscerlo di persona. Il grande
poeta, consulente della Mondadori, volle
conoscere il ragazzo che aveva dimostrato tanto entusiasmo per la sua poesia. E passammo momenti bellissimi, a Roma, come a Milano,
a parlare di poesia.
Fiano Romano,
20 dicembre 2016
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