domenica 4 dicembre 2016

Avventure di una recensione




Aggiornamento sulle vicende, tutto sommato comiche, della mia recensione di “Inedia prodigiosa”, opera di Lucia Ronchetti, eseguita il 26 novembre scorso alle Terme di Diocleziano. Sembra che il problema non sia tanto non avere messo in evidenza un discorso sull’anoressia, bensì il fatto che l’articolo sia “incomprensibile”. Sic! Per chi non avesse letto, domenica scorsa, la Repubblica, copio e incollo qui sotto l’articolo. Ditemi se vi sembra davvero, come affermano i curatori della nuova pagina “culturale” della Repubblica, Robinson, “incomprensibile”.
Fiano Romano, 3 dicembre 2016
FESTIVAL ROMAEUROPA 2016. AULA X DELLE TERME DI DIOCLEZIANO
INEDIA PRODIGIOSA Choral Opera for treble female voices ensemble, mixed Choir  and amateur female Choir, di Lucia Ronchetti. Libretto di Guido Barbieri.

Direttore                                                   Ciro Visco

Coro dell’Accademia di Santa Cecilia
Maestro del Coro                                  Ciro Visco
Chorus e Cantoria dell’Accademia di Santa Cecilia
Maestro del Coro                                  Massimiliano Tonsini

Commissione del Teatro Massimo di Palermo

Si entra in un luogo prodigioso, come recita il titolo dell’opera che vi s’interpreta e idealmente vi si rappresenta, Inedia prodigiosa, di Lucia Ronchetti, libretto di Guido Barbieri. “Teatro della mente”, come nel rinascimentale madrigale drammatico. Si percorre quasi un millennio di evocazione melodica del distacco dal mondo. Distacco è già il luogo, le Terme di Diocleziano, in cui si rappresenta, col solo canto, l’estasi dello svanire, del lasciarsi prosciugare, della fuga dalla vita. Diocleziano è l’ultimo difensore dell’universalità laica dell’Impero: i cristiani sono visti e sentiti come una minaccia dell’autonomia dello Stato nei confronti della religione. Roma aveva accolto nei suoi culti tutte le religioni, perché di fatto le asservisce al proprio dominio politico. I cristiani si rifiutano, proclamano unica verità la propria fede, e perciò i Romani, da sempre ostili a ogni forma di fondamentalismo, li sentono nemici, come oggi sentiamo nemici i terroristi. Diocleziano perde. Pochi anni dopo, Costantino accetta il compromesso di uno Stato che scende a patti con l’integralismo cristiano. Ma lo Stato abdicherà e cederà al fondamentalismo dei Cristiani tutto il potere. In Occidente l’Impero, corroso dalle invasioni, ma anche dai cristiani, finisce. In Oriente, la nuova Roma, Costantinopoli, istituisce di fatto una teocrazia, e dura altri mille anni. Guido Barbieri intesse un percorso vertiginoso di testi che proclamano la dissoluzione del corpo, la libertà dalla vita. Perché di questo si tratta: la pazzia estrema del desiderio di Dio, lo svuotamento della vita, l’anelito alla morte, per ricongiungersi con il Principio della Vita, sentito, furiosamente, in realtà, come trionfo della Morte. “Muero porque no muero”, muoio perché non muoio, scrive Santa Teresa d’Avila. E ascoltiamo sante mistiche, donne ansiose di annichilirsi, di consumarsi sono le voci di questa sorta di cantata tragica dell’estasi di estinguersi: chiamarla perciò anoressia è limitativo. Al solito, Leopardi mette a fuoco, e a nudo, in maniera definitiva, la situazione: “Insomma questa vita è una carneficina senza immaginazione e la sventura più estrema somiglia ad un vero inferno quando sei spogliato di quell’ombra di illusione”. Ecco allora che ci sfilano nelle orecchie le voci di Santa Caterina da Siena, Mollie Fancher, Anna  Garbero, Maria Maddalena de’ Pazzi, Christina Georgina Rossetti (sorella di Gabriele), Jeanny Ferry, e le polifonie che da Perotinus fino a Monteverdi, attraverso Pierre de la Rue, Ockeghem, Chardavoine, Cavalli, alle quali si affiancano le visioni sonore di Verdi, Rigoletto, Requiem, Macbeth, innalzano i canti del delirio. E’ uno sprofondare nel prosciugamento di sé stessi, le viscere delle digiunatrici emanano fetori insopportabili, ma il corpo si è affinato fino a scomparire. Il cibo è sentito come un elemento estraneo, distoglie dalla verità di sé stessi, anzi avvelena la mente, e la vita si allontana per sempre, come un ingombrante, colpevole, peccato di superbia. Tre cori, il Coro e la Cantoria dell’Accademia di Santa Cecilia, e un coro amatoriale femminile percorrono tutte le possibili intonazioni della voce, dal semplice parlato al borbottio ritmico, all’urlo, al canto, alla melopea liturgica.   Antiche melodie e antiche polifonie sono citate come in pittura le figure in un collage di Braque. Il tutto sotto la guida lucida e penetrante di Ciro Visco. Il magistero contrappuntistico di Lucia Ronchetti costruisce, per lui, una cattedrale polifonica d’effetto immediato. Le superfetazioni centenarie della sublime facciata della Cattedrale di Strasburgo ne potrebbero essere l’analogia visiva. Trionfo del gotico, del barocco, dell’ars subtilis esercitata dalle avanguardie novecentesche. E il pubblico n’è conquistato. Applaude tutti e applaude calorosamente.

Roma, 26 novembre 2016

Ho ricevuto, su Facebook, molti consensi e molti elogi per la chiarezza e comprensibilità della recensione. Qualcuno osserva, se mai, che non entro troppo nel merito della musica, né mi diffondo a descriverla e spiegarla. E’ vero. Ma v’immaginate il putiferio che avrebbe sollevato chi già così come l’ho scritto ha giudicato “incomprensibile il mio articolo? Prudentemente, nelle recensioni giornalistiche limito gli interventi propriamente musicali e letterari, proprio perché so che risulterebbero ostici a chi governa le pagine di un giornale. Al solito, costoro si rivelano più timidi del lettore. O forse la verità è più sgradevole: non è il lettore che non capirebbe, sono loro che non capiscono. Che non leggono. Che, salvo pochissimi, non vanno ai concerti, a teatro, al cinema. E misurano dalla loro ignoranza l’ignoranza del lettore.  Ma questa è l’Italia di oggi. Il paese con la più bassa percentuale di laureati, di lettori di libri, di frequentatori di teatro, in Europa.  Ma anche, il che è ancora peggio, quello, tra i paesi europei,  con la più bassa mobilità sociale, che appare, anzi, quasi inesistente. E forse quest’ultimo dato spiega molte cose.

Fiano Romano, 4 dicembre 3016

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