sabato 17 dicembre 2016

Lo Schubert di Luca Ciammarughi



ROMA, PALAZZO ALTIERI
FONDAZIONE DUCCI
LUCA CIAMMARUGHI esegue le musiche di
FRANZ PETER SCHUBERT
16 DICEMBRE 2016

“Il risveglio della coscienza, concerto contro la fame nel mondo”, s’intitolava la serata organizzata dalla Fondazione Ducci, a Palazzo Altieri, in Piazza del Gesù a Roma, venerdì scorso 16 dicembre.  C’erano l’Ambasciatore Manfredo Incisa di Camerana, già Direttore Generale Aggiunto della FAO, il Presidente della Fondazione Ducci, Paolo Ducci Ferraro di Castiglione.  Pierpaolo Bessio, “responsabile dei rapporti con enti e istituzioni del Banco Popolare”, che ha sede appunto nel Palazzo Altieri, ha salutato gl’intervenuti. Lascio perdere i discorsi d’introduzione, mi porterebbero lontano, a mettere in discussione l’efficienza e l’efficacia di un organismo come la FAO, come del resto ha fatto, all’inizio, presentando la serata, lo stesso Presidente della Fondazione. E vengo al concerto in cui Luca Ciammarughi ha interpretato alcune pagine tarde di Schubert, tra cui l’ultima, sublime, Sonata in si bemolle maggiore D 960. Presentando le musiche che avrebbe poi suonato, lo stesso Ciammarughi ha insistito sull’ambiguità del mondo musicale schubertiano, non nel senso che sia un mondo sfuggente, ma in quello, più profondo, che non sono definiti i confini del dolore e della gioia, dell’alto e del basso, del sublime e del volgare, rappresentato, quest’ultimo, dall’irruzione di motivi e ritmi dichiaratamente bassi, popolari, persino banali, come avverrà in Mahler, ma che acquistano un significato addirittura tragico proprio perché messi a contrasto, o a contatto, con un’elaborazione alta, raffinata della costruzione musicale. In Schubert perfino la caratterizzazione dei modi non è ovvia. Non è detto, infatti, che il modo minore esprima il dolore e quello maggiore la gioia. Anzi. Spesso il riemergere del modo maggiore, e magari con una melodia semplice, la stessa ascoltata all’inizio, conferisce alla pagina un sapore amaro, di rimpianto, come l’emergere di una gioia sparita, di una felicità perduta. Al solito, è la costruzione musicale a dare senso alle melodie, ai ritmi, e non il contrario. E’ l’accostamento delle frasi, il contrasto tra le sezioni, a chiarire il senso di ogni particolare. Evidentissimo, questo, nel secondo Klavierstück in mi bemolle maggiore, e ancora più, forse, nell’Improvviso in fa minore o in quello in la bemolle maggiore offerto come bis. Questa forse troppo lunga premessa per spiegare che cosa Ciammarughi voglia comunicare all’ascoltatore quando suona Schubert.  Di fatti colpisce subito il flusso ininterrotto del discorso, la continuità dell’intrecciarsi delle diverse sezioni di un movimento e dei movimenti in una pagina, sia essa un improvviso o una sonata. Le mani scorrono da un punto all’altro con fluida naturalezza, come se anche i contrasti più violenti raffigurino la mutevolezza ineludibile del percorso narrativo. Perché la musica si fa racconto, e un racconto che precipita, necessariamente, verso una catastrofe, anche quando questa si presenti con l’apparente calma di un risoluzione consolatrice. Illusione: quella calma può essere anche il silenzio finale. E’ questa l’ambiguità, in cui niente è stabile, niente è definito, e tutto sembra destinato inesorabilmente a scomparire.  Non a caso Schubert è attratto da ritmi ossessivi, ripetuti, di marcia o di danza, che conferiscono all’andamento musicale un carattere d’ineluttabilità. Tanto più miracolosa appare l’interpretazione di Ciammarughi, quanto più modeste erano le risorse del pianoforte (un quarto di coda!) a disposizione. Ma la sensibilità del tocco, la libertà del fraseggiare sono riusciti a superare l’insufficienza dello strumento, tra l’altro nemmeno perfettamente accordato. Queste brevi note per additare un musicista che meriterebbe maggiore attenzione da parte delle istituzioni musicali italiane, e di conseguenza anche dalla critica.

Fiano Romano, 17 dicembre 2016

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