Massimiliano Felli, La
carrozza di Priapo, Napoli, Stamperia del Valentino, 2016, pp. 238, € 16,00
Ciò che attira subito
l’attenzione del lettore è la lingua. Un italiano sapientemente letterario, rielaborato
da bocca napoletana, modellato comunque sulla lingua parlata. Non è, però,
l’italiano letterario corrente, quella lingua media buona per tutti gli usi, e
che nessuno parla, ma non è nemmeno un italiano vernacolizzato, e sia pure in
modo inventivo, come potrebbe essere, in parte, quello di Camilleri. Se mai, si
avvicina alla lingua di Gadda, e non solo del Pasticciaccio. Ma non in senso plurilinguistico, quanto invece
monolinguistico o, più precisamente, una lingua parlata e scritta di una stessa
area geografica. Si potrebbe pensare, allora, al Gadda dell’Adalgisa. Alla lontana vi si potrebbe intravedere,
anche, l’operazione di Verga che trasferisce nell’italiano letterario il calco
del parlare siciliano. Ma non è così. Si potrebbe perfino individuare, alla
lontana, un influsso di Brancati, del Bell’Antonio
(comune, il tema dell’impotenza virile), ma soprattutto del Don Giovanni in Sicilia, o addirittura
del giovanile Gli anni perduti. Ma
cercare modelli, influssi, calchi più o meno illustri in un romanzo d’oggi è
operazione sterile. Ho evitato apposta di citare scrittori napoletani. Tra
l’altro, non è detto che lo scrittore ne possa essere consapevole. Certi
comportamenti letterari si respirano nell’aria, restano sedimentati nella
tradizione. Le affinità non mancano mai, a volerle cercare, ma più evidenti,
però, risaltano sempre le differenze. Tanto più, poi, che Massimiliano Felli si
misura con una sorta di personalissima e originale reinvenzione del genere
poliziesco. Anche qui, come si potrebbe
definire poliziesco Delitto e castigo
o I delitti della rue Morgue. Faccio,
comunque, riguardo alla lingua, due esempi.
“Lasciò tutto e prese dalla
credenza una caccavella coperta da uno straccio. piena a metà di pasta spezzata
con i fagioli. La apparecchiò davanti a Cafasso e ci piantò nel mezzo un cucchiaio.
Se il cucchiaio non rimane dritto, la potete pure buttare. Bella densa densa,
dev’essere!” (pag. 161).
Non è solo l’introduzione di
termini della parlata napoletana, come “caccavella”, pentola, scodella, il
termine però può essere usato anche in senso traslato per pentola vecchia,
vecchio marchingegno scadente, “quella nave è una caccavella”. Tuttavia la
naturalezza con cui il termine s’inserisce nell’andamento della frase, la cui
costruzione è inconfondibilmente napoletana, compreso il passaggio dal discorso
indiretto al discorso diretto: “Se il cucchiaio non rimane dritto, la potete
pure buttare”, dimostra l’estrema abilità dello scrittore nello scivolare
attraverso più piani stilistici, facendoli apparire uno solo. O quest’altro
passo, qualche pagina prima:
“Ma eccola lì, ne rise il
Commissario, nessuno avrebbe potuto cadere nell’equivoco vedendola sbracciarsi
dalla finestra come una vajassa che si sporga per ritirare su il canestrello,
bello riempito dal casadduoglio abbasso al puntone del vico. Il naso un poco
schiacciato e largo, gli occhi piccoli e ravvicinati, il mento pingue, anzi i
menti: due” (pag. 156).
Anche qui, non è solo
l’introduzione di termini della parlata locale, vajassa, alla lettera serva, ma
anche donna volgare, di bassa estrazione, e “casadduoglio”, salumaio,
dall’inglese “cheese and oil”, napoletanizzato (cheese, cacio, caso, e oil,
uoglio), alla stessa maniera del termine “zantraglia”, sinonimo e peggiorativo
di vajassa, dal francese “les entrailles”, le interiora, che le donnette di
Napoli dicevano “zantraglie” : mandate dai mariti, dai padri, dai fratelli,
all’epoca di Murat, sotto le finestre del Palazzo Reale, in occasione di una
festa, queste “donnette” lo gridavano in alto alle finestre di sopra, per farsi
gettare giù le interiora di maiali, buoi, agnelli e della selvaggina eviscerata
del banchetto: “Le zantraglie, le zantraglie”. I francesismi napoletani,
soprattutto culinari, sono una legione, eredità antica degli Angioini (le
testimonia già il Boccaccio, che anzi ci regala un primo esperimento di parlata
napoletana) e poi, tra la fine del Settecento e l’Ottocento, durante il dominio napoleonico, e
postnapoleonico, di Gioacchino Murat. Per esempio “sartù”, etimo incerto, il
ricchissimo, e buonissimo timballo di riso, ripieno di carne e affogato nel
sugo di un elaboratissimo “ragù” (altro francesismo, ragoût)), che non ha
niente a che spartire con quello bolognese, oggi più conosciuto in Italia e nel
mondo. Tornando al romanzo di Felli, anche in questa frase, però, non sono solo
i termini della parlata napoletana a caratterizzare l’andamento del discorso,
ma per esempio anche l’uso dell’ausiliare avere invece di essere associato al
verbo cadere, che in italiano vorrebbe invece l’ausiliare essere. E così, quasi
sempre nel corso del racconto, il verbo “tenere” sostituisce il verbo avere,
come sempre accade in napoletano quando ci si riferisce a un possesso: tengo
famiglia. Ma Felli compie il miracolo, come si è detto, di non vernacolizzare
la sua prosa. La patina napoletana della sua lingua non è ricerca di colore
locale, bensì artificio stilistico che ricostruisce una geografia storica. Non
solo quella è la lingua che si parla ancora oggi a Napoli, ma lo era ancora di
più prima dell’Unità d’Italia. Introduco, a esemplificazione, due ricordi
autobiografici. Mio padre era napoletano. Ma per parte di madre la mia famiglia
è veneziana. Altri parenti erano di Parma. Questo ha significato che fin da
bambino ho acquistato familiarità con diverse parlate italiane. Una parte
dell’infanzia e dell’adolescenza, poi, l’ho trascorsa in Argentina. E
l’esperienza di un’altra lingua, lo spagnolo, diventata poi una sorta di
seconda lingua madre, ha disposto la mia mente al plurilinguismo. Come diceva
un poeta latino, in ogni lingua c’è un’anima e dunque chi conosce più lingue possiede
più anime. E’ verissimo! Non riesco, infatti, oggi più a leggere, che so,
Baudelaire o Borges ,in una lingua che non sia quella in cui hanno scritto.
Ebbene, ricordo che quando andavamo in Veneto, a trovare amici o parenti, mio
padre mi chiedeva di fare da interprete, se accadeva di dover parlare con la
gente del luogo, perché mio padre non li capiva. Un’altra volta, invece, ero andato con un
amico in un ristorante allora assai noto di Napoli, e nella tavola accanto una
signora con pretese di apparire chic, ma con accento napoletano smaccato, sedeva
a tavola con ospiti americani, e parlavano ora in italiano ora in inglese. La
donna, però, a un certo punto, quando il cameriere portò un vassoio di fritti, se
ne uscì: “Questi qua a Napoli li chiamano supplì, ma il loro vero nome in
italiano è cròket!” L’accento, indietro, sulla o, come piazza “Càvur”. Facile
ironizzare. Ma è quello che invece uno scrittore non fa. Adotta la parlata come
materiale grezzo sul quale rielaborare il proprio stile. Non che non possa
ironizzare. Ma non fa ironia sullo sbaglio o sulla bizzarria linguistici, se
mai fa ironia sulla pretesa sociale di chi parla, se il personaggio non è uno
del popolo, o sui tic del soggetto popolare che parla. Ecco, ciò che attrae
subito il lettore della prosa di Felli è proprio questa rielaborazione
stilistica di una parlata viva. Che non è un calco, l’imitazione, il che
farebbe appunto uno scrittore macchiettistico, vernacolare, ma la
rielaborazione artificiosa di una parlata, talmente artificiosa da farla
diventare una nuova lingua, che però ha tutta la naturalezza della lingua viva.
Nello scrivere non c’è via di mezzo. L’altra via, infatti, sarebbe stata di
usare, pari pari, la lingua locale. E il napoletano ha una ricchissima
letteratura, che sarebbe sbagliato chiamare dialettale, perché si tratta di una
vera e propria lingua letteraria. Un esempio nobile di questa lingua è quella
parlata e cantata nell’opera buffa del Settecento. Discorso analogo va fatto
per la lingua di Venezia o di Milano. Ma il romanzo di Felli si svolge a
Napoli, e dunque a essere rielaborata è la lingua che si parla a Napoli, dai
napoletani che non vogliono parlare la lingua dei “bassi”. E siamo così venuti
ad altri termini napoletani della frase: “abbasso dal puntone del vico”. Vico è
il vicolo, ma insieme non lo è, è la stradina dei Quartieri Spagnoli o di
Spaccanapoli. Abbasso è giù, puntone è l’angolo. E tutta la frase significa più
o meno: “tutto riempito dal salumaio giù
in fondo al vicolo”. Ma la differenza espressiva, tra il parlato e la sua
traduzione in italiano, è abissale: nella scrittura originale la frase
rappresenta dal vivo una scena, esplicitata nell’italiano comune non
rappresenta niente, spiega soltanto il senso di un’azione. Felli, però, non
rifugge nemmeno dal citare di peso la lingua locale, se serve a chiarire lo
spessore di un gesto, di un personaggio. Ma inserisce la lingua locale in una
lingua a più livelli, dall’alto in basso, in modo che proprio l’accostamento
del livello alto con quello basso faccia scattare l’evidenza particolare del
gesto.
“Trovato, finalmente! Don Luigi
bofonchiava formule incomprensibili e brandiva l’amuleto che stava cercando: un
cazzillo di bronzo, antico – un altro reperto pompeiano, intuì Cafasso, mezzo
basito e mezzo divertito, paonazzo per la risata repressa – “Perdonatemi”,
diceva il Principe, che intanto si strusciava il cazzillo sul petto, sulle
spalle, “devo assentarmi ... Io te
sciopero ra capa a pere / Chi t’ha fatt’ male, te pozz’ fa’ bbene ...
scusate ... Torno subito ... Uocchie,
contruocchie, mittancell’all’uocchio ... Torno subito ... “ (pag. 82).
Il dialetto, o meglio la parlata
bassa, anche se è un principe a parlare, definisce il personaggio. Si parla di
una iettatrice, una Janara. E il
principe è superstizioso. Il solo nominarla gli scatena una paura primordiale,
irrefrenabile e smoccola tutti gli scongiuri del caso. Non diversamente
dall’ultimo facchino del porto. Anzi, quella lingua – e quella superstizione –
lega l’aristocrazia alla plebe, le accomuna in un’unica identità culturale. E’
il borghese, se mai, e ancora di più il piccolo borghese, che ama distinguersi,
staccarsi dalla plebe, proclamare il proprio rango elevato, evitando di parlare
in “dialetto”. Ma il nobiluomo, la nobildonna, parlano la stessa lingua del
carrettiere, dello stalliere. In un bello spettacolo di Roberto De Simone, L’opera buffa del giovedì santo, parla a
un certo punto Luigia Sanfelice, che racconta la Rivoluzione del 1799, e la
nobildonna grida che ha vinto la borghesia contro i privilegi della nobiltà. Un
plebeo (Peppe Barra, sublime!) la guarda esterrefatto ed esclama: “Qua nun ce
stanno borghesi. Simm’ solo nobbili e pezzenti”. Nella Dolce
Vita di Fellini, la notte della festa nobiliare, questo aspetto del parlare
popolare dei nobili è ben rappresentato.
Napoli, Roma, ma anche Venezia, Milano, Torino, il fenomeno è sempre lo
stesso. Sembra che entrando a Roma, il 20 febbraio 1870, Vittorio Emanuele II,
abbia esclamato, in piemontese: “I suma e i resteruma”. Ci siamo e ci
resteremo. Il Conte Vittorio Alfieri, irritato dalle critiche del tempo contro
la durezza della sua lingua teatrale, si sfoga con due velenosissimi sonetti in
dialetto astigiano. L’efficacia del brano di Felli citato sopra sta proprio in
quest’abile mescolamento di livelli linguistici. E’ un entrare e un uscire dal
personaggio, la lingua narrativa, già omologata al parlare “alto” dei
napoletani, lo guarda da fuori – con gli occhi del Commissario Cafasso -, la
lingua nella quale esplode la paura irrazionale del principe è la lingua del
suo inconscio, dei suoi avi, della plebe con la quale condivide quelle
irrefrenabili paure. Ma poi la lingua del romanzo tocca anche altri livelli,
più alti, o più pensosi. Come il bellissimo attacco del capitolo 8:
“L’apparato funebre fu sfarzoso
come non se ne vedevano da tempo. Il sagrato del Duomo era talmente ingombro di
corone da non poter quasi riuscire a entrare in chiese, e a momenti sarebbe
giunto il corteo: come il brontolio di tuoni lontani previene al navigante una
tempesta all’orizzonte, così lo stormire di preci sussurrate da una folla
unisona annunciava l’arrivo della processione” (pag. 169).
Si pensa addirittura a un passo famoso del
Purgatorio – era già l’ora che volge il disio / e ai naviganti intenerisce ‘l
cuore – ma l’atmosfera è tutta un’altra. Per niente malinconica, o nostalgica.
Ma cupa.,un’esibizione trionfale del lutto. Com’è tradizione di Napoli. Ed è
anche paradossalmente comica. Si cominciano a individuare le debolezze di una
grandezza principesca più vantata che reale. Ma non si può dire di più, pena lo
svelamento della soluzione del poliziesco, la rivelazione dell’assassino, anzi
degli assassini. Perché poi tutta la storia è un’investigazione –
scrupolosissima – del Commissario Aniello Cafasso, che riesce a farsi amico perfino Alexandre
Dumas, visitatore segreto del Regno e ospite del Principe don Luigi del Dentice
dei Pesci. Ma “carbonaro” e dunque passibile d’incarceramento. La morte di due
donne, una lavandaia e una Marchesa, moglie del Principe, è il motore di tutta
la vicenda. Da Torre Annunziata a Spaccanapoli, ai Quartieri Spagnoli, alla
Vicaria, la vita della Napoli ottocentesca sotto i Borboni è narrata con
incredibile naturalezza. Indimenticabile Nelly, la maîtresse del bordello, la
“vajassa” citata sopra. Compare solo due volte, ma resta impressa nella memoria
del lettore. E c’è pure un prezioso cameo. Man mano che leggevo, mi chiedevo,
ma questi sono gli anni in cui a Napoli vive anche Leopardi. Possibile che il
Commissario, goloso come lui, di sorbetti, non lo incontri mai? E invece, verso
la fine, lo incontra. Ed è una pagina mirabile. Andrebbe citata tutta. Ne cito
l’attacco, qualche passo mediano, e una riflessione che sintetizza acutamente
il pensiero del poeta.
“Lo scartellato, per esempio. Stava seduto due tavoli più avanti. Che
meraviglioso oggetto di studio!
“Ogni volta che andava, a quel gobbetto se lo ritrovava là. Si vede
che frequentava assiduamente il Due Sicilie, né c’era da stupirsene, data la
sua ghiottoneria. Come al solito, aveva davanti a sé due coppe di sorbetto alte
così, di due gusti diversi, mai gli stessi. Piluccava di qua e di là, di qua e
di là. ...
“Indossava un soprabito
turchino, liso, e portava calze rattoppate. In compenso aveva un bel fazzoletto
al collo: memore di una ricchezza ormai trascorsa? O una tale trascuratezza nel
vestire – forse di questo si trattava, più che di reale indigenza – era il
segno di un’indole inquieta, ribelle, o magari dell’ascetismo tipico di certi
artisti moderni? ...
Gli altri avventori lo
salutavano ed egli rispondeva sempre cordialmente, con il sorriso di chi
conosce tanto a fondo gli uomini da essere giunto dapprima a disprezzarli per
le loro manchevolezze, per l’inadeguatezza al ruolo di somma responsabilità
affidato loro dall’Eterno, poi, per quella stessa inadeguatezza e quelle stesse
manchevolezze, a compiangerli, e quasi a giustificarli. (pagg, 196-98)
Con finta inavvertenza qualcuno
gli tocca la gobba. Leopardi non si scompone. Anzi dà i numeri da giocare al
lotto. Li gioca anche il Commissario Cafasso. Ma perde.
In quel gioco sembra
racchiudersi anche il gioco della vita che chi più chi meno tutti perdono. Si
trovano gli assassini, ma nessuno restituisce la vita alle povere donne
ammazzate. Sembra questa l’amara riflessione finale del romanzo. O almeno le
riflessioni suggerite nelle “Noterelle
in appendice”, compreso il poemetto, o la poesia, I nuovi credenti, che Leopardi scrive rivolgendosi all’amico
Antonio Ranieri, come in un’epistola, e che Felli, giustamente, cita per
intero. La verità, una volta svelata, fa male. Ma il non saperla, fa stare
meglio? Fa condannare qualche innocente, ammazza, per egoismo, per puntiglio,
per vanagloria una donna. Davvero è questo il migliore dei mondi possibili,
dove si ammazza perché non si sa o non si vuole fare sapere?
Fiano Romano, 12 dicembre 2016
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