lunedì 12 dicembre 2016

Massimiliano Felli, La carrozza di Priapo



Massimiliano Felli, La carrozza di Priapo, Napoli, Stamperia del Valentino, 2016, pp. 238, € 16,00
Ciò che attira subito l’attenzione del lettore è la lingua. Un italiano sapientemente letterario, rielaborato da bocca napoletana, modellato comunque sulla lingua parlata. Non è, però, l’italiano letterario corrente, quella lingua media buona per tutti gli usi, e che nessuno parla, ma non è nemmeno un italiano vernacolizzato, e sia pure in modo inventivo, come potrebbe essere, in parte, quello di Camilleri. Se mai, si avvicina alla lingua di Gadda, e non solo del Pasticciaccio. Ma non in senso plurilinguistico, quanto invece monolinguistico o, più precisamente, una lingua parlata e scritta di una stessa area geografica. Si potrebbe pensare, allora, al Gadda dell’Adalgisa.  Alla lontana vi si potrebbe intravedere, anche, l’operazione di Verga che trasferisce nell’italiano letterario il calco del parlare siciliano. Ma non è così. Si potrebbe perfino individuare, alla lontana, un influsso di Brancati, del Bell’Antonio (comune, il tema dell’impotenza virile), ma soprattutto del Don Giovanni in Sicilia, o addirittura del giovanile Gli anni perduti. Ma cercare modelli, influssi, calchi più o meno illustri in un romanzo d’oggi è operazione sterile. Ho evitato apposta di citare scrittori napoletani. Tra l’altro, non è detto che lo scrittore ne possa essere consapevole. Certi comportamenti letterari si respirano nell’aria, restano sedimentati nella tradizione. Le affinità non mancano mai, a volerle cercare, ma più evidenti, però, risaltano sempre le differenze. Tanto più, poi, che Massimiliano Felli si misura con una sorta di personalissima e originale reinvenzione del genere poliziesco.  Anche qui, come si potrebbe definire poliziesco Delitto e castigo o I delitti della rue Morgue. Faccio, comunque, riguardo alla lingua, due esempi.
“Lasciò tutto e prese dalla credenza una caccavella coperta da uno straccio. piena a metà di pasta spezzata con i fagioli. La apparecchiò davanti a Cafasso e ci piantò nel mezzo un cucchiaio. Se il cucchiaio non rimane dritto, la potete pure buttare. Bella densa densa, dev’essere!” (pag. 161).
Non è solo l’introduzione di termini della parlata napoletana, come “caccavella”, pentola, scodella, il termine però può essere usato anche in senso traslato per pentola vecchia, vecchio marchingegno scadente, “quella nave è una caccavella”. Tuttavia la naturalezza con cui il termine s’inserisce nell’andamento della frase, la cui costruzione è inconfondibilmente napoletana, compreso il passaggio dal discorso indiretto al discorso diretto: “Se il cucchiaio non rimane dritto, la potete pure buttare”, dimostra l’estrema abilità dello scrittore nello scivolare attraverso più piani stilistici, facendoli apparire uno solo. O quest’altro passo, qualche pagina prima:
“Ma eccola lì, ne rise il Commissario, nessuno avrebbe potuto cadere nell’equivoco vedendola sbracciarsi dalla finestra come una vajassa che si sporga per ritirare su il canestrello, bello riempito dal casadduoglio abbasso al puntone del vico. Il naso un poco schiacciato e largo, gli occhi piccoli e ravvicinati, il mento pingue, anzi i menti: due” (pag. 156).
Anche qui, non è solo l’introduzione di termini della parlata locale, vajassa, alla lettera serva, ma anche donna volgare, di bassa estrazione, e “casadduoglio”, salumaio, dall’inglese “cheese and oil”, napoletanizzato (cheese, cacio, caso, e oil, uoglio), alla stessa maniera del termine “zantraglia”, sinonimo e peggiorativo di vajassa, dal francese “les entrailles”, le interiora, che le donnette di Napoli dicevano “zantraglie” : mandate dai mariti, dai padri, dai fratelli, all’epoca di Murat, sotto le finestre del Palazzo Reale, in occasione di una festa, queste “donnette” lo gridavano in alto alle finestre di sopra, per farsi gettare giù le interiora di maiali, buoi, agnelli e della selvaggina eviscerata del banchetto: “Le zantraglie, le zantraglie”. I francesismi napoletani, soprattutto culinari, sono una legione, eredità antica degli Angioini (le testimonia già il Boccaccio, che anzi ci regala un primo esperimento di parlata napoletana) e poi, tra la fine del Settecento e l’Ottocento,  durante il dominio napoleonico, e postnapoleonico, di Gioacchino Murat. Per esempio “sartù”, etimo incerto, il ricchissimo, e buonissimo timballo di riso, ripieno di carne e affogato nel sugo di un elaboratissimo “ragù” (altro francesismo, ragoût)), che non ha niente a che spartire con quello bolognese, oggi più conosciuto in Italia e nel mondo. Tornando al romanzo di Felli, anche in questa frase, però, non sono solo i termini della parlata napoletana a caratterizzare l’andamento del discorso, ma per esempio anche l’uso dell’ausiliare avere invece di essere associato al verbo cadere, che in italiano vorrebbe invece l’ausiliare essere. E così, quasi sempre nel corso del racconto, il verbo “tenere” sostituisce il verbo avere, come sempre accade in napoletano quando ci si riferisce a un possesso: tengo famiglia. Ma Felli compie il miracolo, come si è detto, di non vernacolizzare la sua prosa. La patina napoletana della sua lingua non è ricerca di colore locale, bensì artificio stilistico che ricostruisce una geografia storica. Non solo quella è la lingua che si parla ancora oggi a Napoli, ma lo era ancora di più prima dell’Unità d’Italia. Introduco, a esemplificazione, due ricordi autobiografici. Mio padre era napoletano. Ma per parte di madre la mia famiglia è veneziana. Altri parenti erano di Parma. Questo ha significato che fin da bambino ho acquistato familiarità con diverse parlate italiane. Una parte dell’infanzia e dell’adolescenza, poi, l’ho trascorsa in Argentina. E l’esperienza di un’altra lingua, lo spagnolo, diventata poi una sorta di seconda lingua madre, ha disposto la mia mente al plurilinguismo. Come diceva un poeta latino, in ogni lingua c’è un’anima e dunque chi conosce più lingue possiede più anime. E’ verissimo! Non riesco, infatti, oggi più a leggere, che so, Baudelaire o Borges ,in una lingua che non sia quella in cui hanno scritto. Ebbene, ricordo che quando andavamo in Veneto, a trovare amici o parenti, mio padre mi chiedeva di fare da interprete, se accadeva di dover parlare con la gente del luogo, perché mio padre non li capiva.  Un’altra volta, invece, ero andato con un amico in un ristorante allora assai noto di Napoli, e nella tavola accanto una signora con pretese di apparire chic, ma con accento napoletano smaccato, sedeva a tavola con ospiti americani, e parlavano ora in italiano ora in inglese. La donna, però, a un certo punto, quando il cameriere portò un vassoio di fritti, se ne uscì: “Questi qua a Napoli li chiamano supplì, ma il loro vero nome in italiano è cròket!” L’accento, indietro, sulla o, come piazza “Càvur”. Facile ironizzare. Ma è quello che invece uno scrittore non fa. Adotta la parlata come materiale grezzo sul quale rielaborare il proprio stile. Non che non possa ironizzare. Ma non fa ironia sullo sbaglio o sulla bizzarria linguistici, se mai fa ironia sulla pretesa sociale di chi parla, se il personaggio non è uno del popolo, o sui tic del soggetto popolare che parla. Ecco, ciò che attrae subito il lettore della prosa di Felli è proprio questa rielaborazione stilistica di una parlata viva. Che non è un calco, l’imitazione, il che farebbe appunto uno scrittore macchiettistico, vernacolare, ma la rielaborazione artificiosa di una parlata, talmente artificiosa da farla diventare una nuova lingua, che però ha tutta la naturalezza della lingua viva. Nello scrivere non c’è via di mezzo. L’altra via, infatti, sarebbe stata di usare, pari pari, la lingua locale. E il napoletano ha una ricchissima letteratura, che sarebbe sbagliato chiamare dialettale, perché si tratta di una vera e propria lingua letteraria. Un esempio nobile di questa lingua è quella parlata e cantata nell’opera buffa del Settecento. Discorso analogo va fatto per la lingua di Venezia o di Milano. Ma il romanzo di Felli si svolge a Napoli, e dunque a essere rielaborata è la lingua che si parla a Napoli, dai napoletani che non vogliono parlare la lingua dei “bassi”. E siamo così venuti ad altri termini napoletani della frase: “abbasso dal puntone del vico”. Vico è il vicolo, ma insieme non lo è, è la stradina dei Quartieri Spagnoli o di Spaccanapoli. Abbasso è giù, puntone è l’angolo. E tutta la frase significa più o meno:  “tutto riempito dal salumaio giù in fondo al vicolo”. Ma la differenza espressiva, tra il parlato e la sua traduzione in italiano, è abissale: nella scrittura originale la frase rappresenta dal vivo una scena, esplicitata nell’italiano comune non rappresenta niente, spiega soltanto il senso di un’azione. Felli, però, non rifugge nemmeno dal citare di peso la lingua locale, se serve a chiarire lo spessore di un gesto, di un personaggio. Ma inserisce la lingua locale in una lingua a più livelli, dall’alto in basso, in modo che proprio l’accostamento del livello alto con quello basso faccia scattare l’evidenza particolare del gesto.
“Trovato, finalmente! Don Luigi bofonchiava formule incomprensibili e brandiva l’amuleto che stava cercando: un cazzillo di bronzo, antico – un altro reperto pompeiano, intuì Cafasso, mezzo basito e mezzo divertito, paonazzo per la risata repressa – “Perdonatemi”, diceva il Principe, che intanto si strusciava il cazzillo sul petto, sulle spalle, “devo assentarmi ... Io te sciopero ra capa a pere / Chi t’ha fatt’ male, te pozz’ fa’ bbene ... scusate ... Torno subito ... Uocchie, contruocchie, mittancell’all’uocchio ... Torno subito ... “ (pag. 82).
Il dialetto, o meglio la parlata bassa, anche se è un principe a parlare, definisce il personaggio. Si parla di una iettatrice, una Janara. E il principe è superstizioso. Il solo nominarla gli scatena una paura primordiale, irrefrenabile e smoccola tutti gli scongiuri del caso. Non diversamente dall’ultimo facchino del porto. Anzi, quella lingua – e quella superstizione – lega l’aristocrazia alla plebe, le accomuna in un’unica identità culturale. E’ il borghese, se mai, e ancora di più il piccolo borghese, che ama distinguersi, staccarsi dalla plebe, proclamare il proprio rango elevato, evitando di parlare in “dialetto”. Ma il nobiluomo, la nobildonna, parlano la stessa lingua del carrettiere, dello stalliere. In un bello spettacolo di Roberto De Simone, L’opera buffa del giovedì santo, parla a un certo punto Luigia Sanfelice, che racconta la Rivoluzione del 1799, e la nobildonna grida che ha vinto la borghesia contro i privilegi della nobiltà. Un plebeo (Peppe Barra, sublime!) la guarda esterrefatto ed esclama: “Qua nun ce stanno borghesi. Simm’ solo nobbili e pezzenti”.  Nella Dolce Vita di Fellini, la notte della festa nobiliare, questo aspetto del parlare popolare dei nobili è ben rappresentato.  Napoli, Roma, ma anche Venezia, Milano, Torino, il fenomeno è sempre lo stesso. Sembra che entrando a Roma, il 20 febbraio 1870, Vittorio Emanuele II, abbia esclamato, in piemontese: “I suma e i resteruma”. Ci siamo e ci resteremo. Il Conte Vittorio Alfieri, irritato dalle critiche del tempo contro la durezza della sua lingua teatrale, si sfoga con due velenosissimi sonetti in dialetto astigiano. L’efficacia del brano di Felli citato sopra sta proprio in quest’abile mescolamento di livelli linguistici. E’ un entrare e un uscire dal personaggio, la lingua narrativa, già omologata al parlare “alto” dei napoletani, lo guarda da fuori – con gli occhi del Commissario Cafasso -, la lingua nella quale esplode la paura irrazionale del principe è la lingua del suo inconscio, dei suoi avi, della plebe con la quale condivide quelle irrefrenabili paure. Ma poi la lingua del romanzo tocca anche altri livelli, più alti, o più pensosi. Come il bellissimo attacco del capitolo 8:
“L’apparato funebre fu sfarzoso come non se ne vedevano da tempo. Il sagrato del Duomo era talmente ingombro di corone da non poter quasi riuscire a entrare in chiese, e a momenti sarebbe giunto il corteo: come il brontolio di tuoni lontani previene al navigante una tempesta all’orizzonte, così lo stormire di preci sussurrate da una folla unisona annunciava l’arrivo della processione” (pag. 169).
 Si pensa addirittura a un passo famoso del Purgatorio – era già l’ora che volge il disio / e ai naviganti intenerisce ‘l cuore – ma l’atmosfera è tutta un’altra. Per niente malinconica, o nostalgica. Ma cupa.,un’esibizione trionfale del lutto. Com’è tradizione di Napoli. Ed è anche paradossalmente comica. Si cominciano a individuare le debolezze di una grandezza principesca più vantata che reale. Ma non si può dire di più, pena lo svelamento della soluzione del poliziesco, la rivelazione dell’assassino, anzi degli assassini. Perché poi tutta la storia è un’investigazione – scrupolosissima – del Commissario Aniello Cafasso,  che riesce a farsi amico perfino Alexandre Dumas, visitatore segreto del Regno e ospite del Principe don Luigi del Dentice dei Pesci. Ma “carbonaro” e dunque passibile d’incarceramento. La morte di due donne, una lavandaia e una Marchesa, moglie del Principe, è il motore di tutta la vicenda. Da Torre Annunziata a Spaccanapoli, ai Quartieri Spagnoli, alla Vicaria, la vita della Napoli ottocentesca sotto i Borboni è narrata con incredibile naturalezza. Indimenticabile Nelly, la maîtresse del bordello, la “vajassa” citata sopra. Compare solo due volte, ma resta impressa nella memoria del lettore. E c’è pure un prezioso cameo. Man mano che leggevo, mi chiedevo, ma questi sono gli anni in cui a Napoli vive anche Leopardi. Possibile che il Commissario, goloso come lui, di sorbetti, non lo incontri mai? E invece, verso la fine, lo incontra. Ed è una pagina mirabile. Andrebbe citata tutta. Ne cito l’attacco, qualche passo mediano, e una riflessione che sintetizza acutamente il pensiero del poeta.
“Lo scartellato, per esempio. Stava seduto due tavoli più avanti. Che meraviglioso oggetto di studio!
“Ogni volta che andava, a quel gobbetto se lo ritrovava là. Si vede che frequentava assiduamente il Due Sicilie, né c’era da stupirsene, data la sua ghiottoneria. Come al solito, aveva davanti a sé due coppe di sorbetto alte così, di due gusti diversi, mai gli stessi. Piluccava di qua e di là, di qua e di là. ...
“Indossava  un soprabito turchino, liso, e portava calze rattoppate. In compenso aveva un bel fazzoletto al collo: memore di una ricchezza ormai trascorsa? O una tale trascuratezza nel vestire – forse di questo si trattava, più che di reale indigenza – era il segno di un’indole inquieta, ribelle, o magari dell’ascetismo tipico di certi artisti moderni? ...
Gli altri avventori lo salutavano ed egli rispondeva sempre cordialmente, con il sorriso di chi conosce tanto a fondo gli uomini da essere giunto dapprima a disprezzarli per le loro manchevolezze, per l’inadeguatezza al ruolo di somma responsabilità affidato loro dall’Eterno, poi, per quella stessa inadeguatezza e quelle stesse manchevolezze, a compiangerli, e quasi a giustificarli. (pagg, 196-98)
Con finta inavvertenza qualcuno gli tocca la gobba. Leopardi non si scompone. Anzi dà i numeri da giocare al lotto. Li gioca anche il Commissario Cafasso. Ma perde.
In quel gioco sembra racchiudersi anche il gioco della vita che chi più chi meno tutti perdono. Si trovano gli assassini, ma nessuno restituisce la vita alle povere donne ammazzate. Sembra questa l’amara riflessione finale del romanzo. O almeno le riflessioni  suggerite nelle “Noterelle in appendice”, compreso il poemetto, o la poesia, I nuovi credenti, che Leopardi scrive rivolgendosi all’amico Antonio Ranieri, come in un’epistola, e che Felli, giustamente, cita per intero. La verità, una volta svelata, fa male. Ma il non saperla, fa stare meglio? Fa condannare qualche innocente, ammazza, per egoismo, per puntiglio, per vanagloria una donna. Davvero è questo il migliore dei mondi possibili, dove si ammazza perché non si sa o non si vuole fare sapere?

Fiano Romano, 12 dicembre 2016


Nessun commento:

Posta un commento