Amélie de Bourbon Parme, Le secret de l’empereur, Paris,
Gallimard, 2015, pp. 320, € 20 (in Francia).
Amélie de
Bourbon Parme discende in linea diretta dall’Imperatore Carlo V d’Asburgo e dai
Capeto di Francia. Ho acquistato il suo romanzo per caso. Nemmeno ne conoscevo
l’esistenza. Né della scrittrice né del romanzo. Per curiosità. Ho sbirciato il
libro in uno scaffale del settore francese della libreria Feltrinelli di Via
Orlando a Roma. Vediamo che cosa scrive questa nobildonna, mi sono detto. E se
hanno pubblicato il libro appunto solo perché l’ha scritto una Borbone Parma.
Gallimard, poi, forse la casa editrice più importante di Francia. Nel risvolto
di copertina ho scoperto che Le secret de
l’empereur è il suo secondo romanzo. Il primo, del 2003,
s’intitola Le sacre del Louis XVII.
Sempre per Gallimard. E sempre una
questione familiare che la riguarda. Come se volesse scavare nell’inconscio
della propria ascendenza, per chiarire il dominio del proprio (come è stato
scritto su “Le Monde”). Nella rete si trovano, inoltre, parecchi pettegolezzi
sulla sua figura. Pasto goloso di Paris Match. Ha sposato Igor Bogdanoff,
divulgatore scientifico assai noto ai francesi attraverso la televisione. Ma
subito dopo le prime righe mi sono reso conto che nobiltà e pettegolezzi non
c’entra per niente con la sua scrittura. O meglio: essere una Borbone Parma
l’aiuta a comprendere i meccanismi della vita nobiliare dei tempi passati. Ma
niente di più. Come la vasta rete di relazioni della famiglia Proust ha aiutato
Marcel a raccontare l’alta società della Francia tra Otto e Novecento. Il confronto non è casuale. Niente tra Proust
e lei di comune, e tanto meno lo stile. Ma sì l’indagine sui segreti degli
impulsi che spingono a vivere una vita invece che un’altra. Il segreto indagato
in questo bellissimo romanzo è quello che avvolge la decisione di Carlo V di
abdicare, per cedere l’Impero al fratello Ferdinando e il Regno di Spagna al figlio
Filippo. Le ultime righe del romanzo
sono rivelatrici del senso che la storia ha per la scrittrice. Dodici anni dopo
la morte del padre, Filippo va nel Monastero di Yuste, nell’Estremadura, dove l’Imperatore
si era ritirato, dopo l’abdicazione. Ci va per liquidare quanto resta di suo
padre, ch’era stato il monarca più potente del mondo. Entra nel laboratorio degli orologi, dove
Carlo V custodiva la sua preziosa e amatissima collezione. « Il n’avait jamais compris l’intérêt de son
père pour de tels objets. Et cette incompréhension était un motif d’éloignement
supplémentaire entre eux ». « Tels objets » sono gli
orologi. Carlo V ne collezionava, infatti, di tutti i tipi, di ogni epoca e di
tutte le parti del mondo. Intorno a questi orologi si sviluppa la narrazione
del romanzo, e in particolare intorno a uno in particolare, una pendola tutta
nera, con rilievi di bronzo. Era stato fabbricato, sembra, da un misterioso
orologiaio di Cordova, che Carlo V cerca invano d’incontrare. Sul suo quadrante
è raffigurato il sistema solare, per calcolare i movimenti degli astri e dei
pianeti. Ma con una particolarità che l’Imperatore non riesce a cogliere e che
gli si rivelerà solo in punto di morte: il sistema dei pianeti e dei loro
movimenti ellittici non ruota intorno alla Terra, bensì intorno al Sole. Perciò
l’Inquisitore di Siviglia ne diffidava e anzi vuole indagare sugli stessi
interessi dell’Imperatore per un simile oggetto, ma Carlo V abilmente se ne
svincola, e lo elude. Poche righe dopo quelle citate sopra, Filippo, che è
rimasto quasi inorridito per quella strana collezione, ha un moto di ripulsa. « Il
n’avait pas lieu de conserver cette relique sans valeur, dernier témoin des obsessions inutiles de son
père ». Ordina, perciò, di regalare gli orologi a chi li vorrà o di
buttarli via. « Il quitta le
monastère de Yuste chargé de quelques objets, avec toujours au creux de son
front ce pli de contrariété impossible à effacer ». Ma proprio quell’inutile ossessione
aveva spinto, invece, Carlo V ad abdicare. Interrogare la propria collezione di
orologi per investigare il segreto del tempo. E qui fa capolino un’ossessione
costante della letteratura francese, non solo di Proust, se si pensa alla Ballade des dames
du temps jadis di Villon:
« mais où sont les
neiges d’antan? ». L’ossessione
di carpire il segreto del tempo. Arriva
Carlo V ad afferrarne il segreto? No si sa. Nell’orologio nero paiono nascosti
i peccati della Chiesa: la cupidigia e la venalità dei suoi preti. Nel suo
incomprensibile quadrante s’intravedeva anche l’origine dello scisma luterano,
e lo si vedeva posato sulla scrivania del laboratorio dell’Imperatore.
Nell’agonia Carlo V crederà d’intravedere l’ombra furtiva dell’orologiaio di
Cordova e d’indovinare quel segreto, di
vedere la mano dell’orologiaio misterioso regolare le lancette dell’orologio.
Ma non sappiamo se la visione sia frutto del suo delirio terminale o se
veramente qualcuno gli rivela, spostando le lancette sul quadrante, il
funzionamento del meccanismo che regola l’orologio e misura il movimento dell’universo.
La prosa del romanzo è fluida, scorrevole, ma anche densa, pensosa, piena
d’immagini ora fantastiche e più spesso concrete, quasi da toccarsi con le mani.
Il paesaggio della brumosa Bruxelles all’inizio, e poi della desertica Estremadura
dove si ritira l’Imperatore, ha un peso
decisivo nello sviluppo della narrazione. Come l’arrivo della nave nel porto di
Laredo, magistrale. Piove e sul molo non c’è nessuno ad attendere l’Imperatore.
La solitudine del monarca si proietta nel paesaggio. E si materializza, alla
fine, nella ruga di disappunto che deturpa la faccia di Filippo. I personaggi
escono dalla pagina come dallo schermo di un cinema. Fissati da un gesto, dal
disegno di una figura. Non è solo la ricostruzione di un’epoca, ma la
riflessione sull’oggi nato da quell’epoca, un oggi scosso dagli stessi
conflitti, reso instabile dalle stesse incomprensioni tra i potenti della terra
(come il rapporto tra Carlo V e Francesco I di Francia, il ritratto del re
francese appeso nella camera dell’Imperatore, anche nello spartano ritiro di Yuste)
e reso tragico dalla incolmabile distanza che rende insanabile il contrasto tra
potenti e gente comune. E dalla stessa diffidenza di potenti e di umili, per
diversi e spesso opposti motivi, verso chiunque voglia conoscere la realtà
delle cose, fosse anche costui l’uomo più potente del mondo, ma impotente a
sconfiggere la superstizione, l’ignoranza che generano quella diffidenza.
Meglio l’ideologia. Meglio la religione. Per le Chiese, ma anche per i popoli.
Non è vero che i potenti detengano le chiavi della storia. Ma non la detiene
nemmeno nessun popolo. Anzi, meno che mai i popoli del mondo, sempre oggetto, e
mai soggetto della storia. O almeno così sembra pensare, agonizzando, l’Imperatore.
Carlo, infatti, muore senza avere riappacificato il mondo. Il ritratto di
Francesco I sta lì, di fronte al letto dell’agonia, a dimostrarglielo. Suo
figlio, poi, sembra di un’altra stirpe, di un’altra epoca, di un altro mondo. Filippo,
in effetti, nonché pacificare, esaspererà anzi, dalla sua piccola Spagna,
piccola nonostante l’Impero delle Indie Occidentali, i conflitti del mondo. E
noi? Noi sembriamo eredi di quell’esasperazione. Il romanzo si legge d’un fiato. E la lettura
assomiglia a un viaggio nel tempo, senza per questo riuscire a strappare il
segreto che c’imprigiona dentro il tempo. Uscirne, potrebbe essere la risposta.
Ma nessuno rientra per raccontarlo.
Fiano
Romano, 8 dicembre 2016
Arrivederci a lettura compiuta. Intanto grazie della segnalazione, ma grazie soprattutto dovrebbe dirtelo l'autrice per la tua recensione che è un vero invito e stimolo alla lettura del libro.
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EliminaCome ho scritto, ho acquistato il libro con diffidenza. Invece è un bel romanzo e soprattutto è scritto bene, elegante, un francese ammirevole. Da tempo osservo un'abissale differenza tra l'accuratezza stilistica degli scrittori di lingua inglese, francese e spagnola e la generale sciattezza di quelli italiani. Salvo poche eccezioni, che però non figurano tra i nomi più strombazzati.
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