Mariana
Enriquez, La hermana menor. Un retrato de Silvina Ocampo,
Barcelona, Editorial Angrama, 2018, “Biblioteca de la memoria”,
pagg. 187.
In
Italia non si riesce a immaginare che cosa fosse la vivacità
culturale di Buenos Aires nella prima metà del Novecento, e oltre.
Come New York, Buenos Aires concentra i suoi teatri in una sola
strada, Corrientes. Ma a differenza di New York, in quella strada
esistono anche molte librerie e alcune case editrici. Le librerie
restano aperte anche dopo la fine degli spettacoli. Così lo
spettatore al quale sia piaciuta la commedia, il dramma che ha appena
visto, può entrare nella libreria accanto al teatro, e comprarsi il
copione, e poi, magari, sbirciando qua e là, tra gli scaffali
stracolmi, anche altri libri. Intorno ci sono anche numerosi
ristoranti, qualcuno eccezionale. E taluni aperti fino alle 4 del
mattino. Nelle strade adiacenti a Corrientes sono ubicati i teatri
sperimentali, quelli che a New York sarebbero off, e off off. Durante
la terribile crisi, che mise l’Argentina in ginocchio, i settori
che non l’hanno sofferta furono non a caso i cinematografi, i
teatri e le librerie. I teatri e i cinematografi erano pieni, e i
libri si vendevano più di prima. Gli argentini rispondevano alla
crisi consumando più cultura. Anche adesso, che un’altra crisi
devasta il paese, mi dicono che succede lo stesso: i teatri sono
pieni. E così pure le librerie. Ma Buenos Aires è anche una città
internazionale, e non solo per la provenienza degli emigranti da
diversi paesi dell’Europa, moltissimi gli italiani, e molti anche
tedeschi ed ebrei dell’Est europeo, francesi e, naturalmente,
spagnoli. Oltre agli inglesi che nella prima metà del secolo scorso
detenevano il controllo dell’economia argentina. Pertanto,
soprattutto nelle famiglie benestanti, e quella degli Ocampo fu da
sempre ricchissima, era, ed è, naturale la conoscenza di più
lingue, oltre allo spagnolo, soprattutto inglese, italiano, francese,
ma non è rara la conoscenza del tedesco. La curiosità letteraria fa
inoltre parte della disposizione culturale degli argentini fin dal
secolo XIX, soprattutto dopo il 1810, anno della dichiarazione
d’indipendenza dalla Spagna. Alcuni scrittori sono diventati anche
presidenti della Repubblica, come Domingo Sarmiento (1811-1888) e
Bartolomé Mitre (1821-1906). Il modello a cui guardavano gli
scrittori romantici, prima, e naturalisti, dopo, era naturalmente la
Francia. Ma con più di un occhio aperto a quanto accadeva nelle
lettere britanniche. Nel 2016 è uscito per Anagrama il bellissimo
romanzo Echeverría
di Martín Caparrós, scrittore argentino nato a Buenos Aires nel
1957. Esteban Echeverría
è il poeta e
narratore che ha dato l’avvio a una letteratura nazionale,
orgogliosamente argentina, autonoma rispetto alla letteratura della
madrepatria spagnola, e che guardava ai
modelli più moderni della Francia. Il romanzo comincia con il
giovane che guarda la pistola con cui vuole suicidarsi. Ha letto il
Werther di
Goethe e crede che il suicidio sia la
soluzione per finirla con la sua infelicità. Il
monologo interiore del poeta dura per decine di pagine, la pistola
sempre in pugno. Per sua e nostra fortuna
non si uccide. E scrive, anzi,
due capolavori: La cautiva,
la prigioniera, romanzo in versi come l’Evegenij
Onegin di Puškin, e El
matadero, il mattatotio, straordinario
racconto della feroce e sanguinaria dittatura di Rosas, sorta di
saggio su come s’impone e come funziona una dittatura. L’Argentina
ne ha fatto prova più di una volta. Echeverría,
nato a Buenos Aires nel 1805, morì in
esilio a Montevideo nel 1851.
Ma
veniamo al secolo di questa ”hermana menor”, sorella minore. E’
Silvina Ocampo, sorella di Victoria,
la fondatrice della rivista Sur,
sud, focolaio vivacissimo della cultura argentina del Novecento.
Silvina nasce e muore a Buenos Aires, 1903 – 1994. Percorre dunque
l’intero secolo. Sposa Adolfo Bioy Casares, l’autore
dell’Invenzione di Morel,
uomo affascinante e inguaribilmente attratto
da tutte le donne che gli capita d’incontrare.
Silvina si vedrà così le
amanti del marito gironzolare
per casa, senza nascondersi, senza
vergogna. Di qualcuna diventa, si dice,
anche lei l’amante. Quasi certamente lo fu della madre di Adolfo,
che anzi fu proprio lei a buttarle tra le braccia il figlio. Si
racconta anche che si sarebbe portata a letto la nipote, Silvia
Angélica, Genca, già amante del marito, un ménage
à trois di allegra disinvoltura. Certo, la
società in cui viveva era spregiudicata, libera, ignorava i problemi
di genere, un po’ come il circolo di Bloomsbury che ruotava intorno
a Virginia Woolf. Gli Ocampo, si
è detto, erano ricchissimi, straricchi.
Una privilegiata? Sì, e allora? Lo sapeva
e usava il privilegio per guardare disincantata la realtà. Era anche
appassionatamente antiperonista. Quando
viaggiavano in nave verso l’Europa (Silvina
aveva paura dell’aereo), e
andavano soprattutto
Parigi, i genitori si portavano dietro una vacca, perché ai bambini
non mancasse il latte fresco ogni giorno. Profondamente radicati
nella società argentina, o meglio nella società dell’alta
borghesia di Buenos Aires, ma internazionali, poliglotti, aperti alla
modernità. Le case, enormi, appartamenti di 800 metri quadrati nel
centro di Buenos Aires, e le ville, nella
periferia chic della capitale,
e a Mar del
Plata, venivano arredate da Le Corbusier e
da Gropius. L’inglese, del resto, è la
lingua quasi materna di Silvina, che l’apprende
prima ancora dello spagnolo. Si aggiungerà il francese, ma anche
l’italiano. L’ambiente letterario di Buenos Aires era
internazionale e poliglotta, certamente di
più che quello di New York. Diventa
l’amica inseparabile di Borges, che andava a cena da lei quasi
tutte le sere. Borges era già amico di Bioy Casares, e dunque
entrava in qualche modo in un ambiente familiare. Silvina conosce
Cortázar e Puig, Sábato, Rodolfo
Wilcock e
altri intellettuali argentini. Ma anche
stranieri. Amava la pittura, dipingeva lei
stessa. Anzi, da bambina pensava di fare la
pittrice. A Parigi chiede a Picasso di
darle lezioni di disegno. Ma Picasso rifiuta. Non amava dare lezioni
di pittura. Allora si rivolse
a Léger, che ammirava molto. Ma anche Lèger si tira indietro. Alla
fine prende lezioni da De Chirico. Non simpatizzarono. Ma da de
Chrico apprese la capcità di uscire dal reale, d’immaginare e
raccontare storie trasversali, anche crudeli, quel fantastico, o
surreale, così tipico della narrativa latinoamericana. Carlos
Fuentes, straordinario scrittore messicano,
di cui Silvina fu amica, si avvicina al mondo visionario della
scrittrice argentina in un romanzo enigmatico, fantastico, e feroce,
come La silla del Águila,
Il seggio dell’Aquila, malamente tradotto in italiano con Il
trono dell’Aquila che distorce il
senso del titolo, perché non si tratta di un trono, ma del seggio
del Presidente della Repubblica Messicana. Ma
la dimensione del romanzo non è quella della scrittura di Silvina
Ocampo: la sua misura è il racconto, spesso breve,
come per Borges. Ma Silvina è anche poeta.
Qualche settimana fa ho pubblicato qui, su
questo sito, otto poesie. E un breve
commento. Il libro di Mariana Enriquez ha per sottotitolo “un
retrato de Silvina Ocampo”. Un ritratto, non una biografia, né
tanto meno un saggio critico. La scrittrice, nata anche lei a Buenos
Aires nel 1973, raccoglie diverse testimonianze,
tra cui anche quella del marito Bioy
Casares, grafomane impenitente, che teneva un diario in cui annotava
tutto, giorno per giorno,
ma proprio tutto, scrivendo
migliaia di pagine, ciò che accadeva
nella sua casa, gli incontri, le
discussioni, gli amori, le amicizie. Era
assai più giovane di Silvina, ma le restò attaccato tutta la vita,
a suo modo, l’amava profondamente, la malattia che negli ultimi
anni precipitò Silvina nella demenza, e poi la sua morte, lo
sconvolsero, distrussero la sua tranquillità per sempre.
Ma la Enriquez introduce in questo ritratto
di Silvina anche le interviste,
fondamentale quella rilasciata all’amica
Noemí Ulla. Il
ritratto di Silvina disegnato dalla Enriquez procede per argomenti,
ci sono retrospettive, previsioni,
premonizioni, Silvina era una sensitiva, si
credeva d’indovinare il futuro, leggeva le carte, ma non i
Tarocchi, bensì i naipes spagnoli, il racconto è interrotto da
flash back, si intrecciano testimonianze di amici e di altri
scrittori e
scrittrici. Prosa scorrevole, stile accuratissimo, come quasi tutto
ciò che oggi si pubblica in spagnolo. Ecco un episodio che dipinge
assai bene il
carattere di Silvina. Racconta
María Esther Vázquez, donna di cui si innamorò
Borges, non ricambiato: “Vino a Buenos
Aires un periodista italiano joven, de un diario de Lecce, venía
a entrevistar a Borges, Bioy y Silvina. Se
alojaba en mi casa. Me pidió conocerla a
Silvina. Era un 9 de julio. La llamé
y nos invitó a
tomar el té. La mesa, como siempre en casa de los Bioy, era muy
parca, dos o tres biscochitos, alguna medialuna. Habìa tres
televisores. Le pregunté para qué. Es que cuando mis nietos comen
acá cada uno quiere ver un programa diferente, entonces les hemos
puesto un televisor a cada uno, me explicó. Ella miraba mucha
televisión. Le gustaban Los tres
chiflados, Benny
Hill y Laurel
y Hardy. La hacían reir a gritos. Con
sus nietos veían a Los Muppets.
Bueno. Ella enseguida quedó encantada con el italianito. Él me dice
por lo bajo ‘no hay azúcar’. Le digo ‘tenés azúcar’,
Silvina, con ese modo muy particular, dice ‘ay, voi a ver’.
Se levanta, se va, y al rato vuelve, se
apoya en la puerta que daba al comedor como se apoyan las divas del
cine mudo. Nos mira y nos dice: ‘Las hormigas se comieron todo el
azúcar’. Eso la define perfectamente. Creaba una especie de
misterio que no tenía que ver con ninguna lógica”. (Venne
a Buenos Aires un giovane giornalista italiano, di un giornale di
Lecce, veniva a intervistare Borges, Bioy e Silvina. Alloggiava da
me. Mi chiese di conoscere Silvina. Era un 9 di luglio – festa
nazionale argentina - , la chiamai
e c’invitò a prendere un tè. La tavola,
come sempre a casa dei Bioy, era molto parca, due o tre biscottini,
qualche cornetto. C’erano tre televisori. Le chiesi perché. E’
che quando i miei nipoti mangiano qui ciascuno vuole vedere un
programma differente. Allora gli abbiamo messo un televisore per
ciascuno, mi spiegò. Guardava molto la televisione. Le piacevano I
tre marmittoni, Benny
Hill e Stanlio
e Ollio. La facevano scoppiare dal
ridere. Con i suoi nipoti vedevano I
Muppets. Bene. Restò subito incantata
dall’italiananuccio.
Lui mi dice a bassa voce “non c’è
zucchero”. Le dico “hai lo zucchero”, Silvina, con quel modo
molto particolare, dice
“oh, vado a vedere”. Si alza, se ne va, e subito ritorna, si
appoggia alla porta che dava sulla sala da pranzo come si appoggiano
le dive del cinema muto. Ci guarda e ci dice: “Le formiche hanno
mangiato tutto lo zucchero”. Ciò la
definisce perfettamente. Creava una specie di mistero che non aveva a
che vedere con nessuna logica).
Scrive Borges: “Yo sospecho que para
Silvina Ocampo, Silvina Ocampo es una de tantas personas con las que
tiene que alternar durante su residencia en la tierra”. (Sospetto
che per Silvina Ocampo, Silvina Ocampo è
una delle tante persone con le quali deve alternarsi durante la sua
residenza sulla terra). E’ un ritratto,
nella sua brevità, perfetto, di una delle più grandi scrittrici
del Novecento, del
secolo breve, che per
lei fu
lunghissimo. Mi auguro che presto se ne
faccia e se ne pubblichi una traduzione italiana.
Fiano
Romano, 3 ottobre 2018
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