REATE
FESTIVAL
Claudio
Monteverdi
Il
ritorno di Ulisse in patria
Libretto
di Giacomo Badoero
(Prima
rappresentazione a Roma e a Rieti)
Enrico
Torre Humana Fragilità, Pisandro, Feace
Piero
Facci Tempo, Nettuno,
Vittoria
Giacobazzi Fortuna, Giunone
Sabrina
Cortese Amore, Minerva
Gianluca
Bocchino Giove
Mauro
Borgioni Ulisse
Lucia
Napoli Penelope
Roberto
Manuel Zangari Telemaco
Giacomo
Nanni Antinoo, Feace
Luca
Cervoni Anfinomo, Feace
Antonio
Sapio Eurimaco
Michela
Guarrera Melanto
Andrés
Montilla-Acurero Eumete
Alessio
Tosi Iro
Tonia
Lucariello Ericlea
Attori Alessio
Arzilli
Alessandro
Meringolo
Andrea
Sorrentino
Direttore Alessandro
Quarta
Regia Cesare
Scarton
Scene Michele
Della Cioppa
Costumi Anna
Biagiotti
Luci Andrea
Tocchio
Reate
Festival Baroque Ensemble
Sopratitoli
a cura di Prescott Studio, Firenze
In
collaborazione con Fondazione Alberto Sordi per i giovani, Accademia
Filarmonica Romana, Teatro dell’Opera di Roma.
Roma,
Teatro di Villa Torlonia: 5, 6, 7 ottobre 2018
Rieti,
Teatro Flavio Vespasiano: 10 ottobre 2018
Strano,
inaudito, ma è la prima volta che a Roma si rappresenta Il
ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi. A Venezia c’è
voluta l’impresa di Eliot Gardiner per portarle sulla scena della
Fenice tutte e tre le opere di Monteverdi che ci sono rimaste, La
favola di Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e
L’incoronazione di Poppea. Alla Scala sono state messe in
scena una alla volta, una per anno, dirette da Rinaldo Alessandrini,
con la regia di Robert Wilson, La favola d’Orfeo nel 2009,
Il ritorno di Ulisse in patria nel 2011, e L’incoronazione
di Poppea nel 2015. Altrove, in Europa, in molti teatri sono di
repertorio. Eppure Claudio Monteverdi è il più grande compositore e
drammaturgo di tutta la nostra storia musicale e teatrale. E’, in
qualche modo, il nostro Shakespeare: il teatro tragico che, fino
all’Alfieri, l’Italia non è mai riuscita a portare sulle scene
con un respiro che eguagli il teatro elisabettiano, spagnolo del
“siglo de oro” e francese classico. Salvo, appunto, Monteverdi. E
Francesco Cavalli, suo allievo e successore a Venezia, sia nella
Cappella Ducale che in teatro. Proust scriveva che l’Italia è il
paese più inestetico del mondo, perché un paese estetico non è un
paese con tante opere d’arte, ma un paese che sa preservarle,
custodirle e valorizzarle. E in quest’ultimo affare noi siamo un
vero disastro. Opportunamente, dunque, il festival di Rieti, Reate
Festival, che però s’inaugura al Teatro di Villa Torlonia di
Roma, ha sfidato l’insipienza e la scellerataggine di una
tradizione votata allo scempio del nostro patrimonio artistico e
culturale, e ha messo in scena proprio la meno fortunata, la meno
nota, e famosa, delle tre opere monteverdiane, ma non certo la meno
bella, perché sono tre insuperati capolavori. Alla nobile impresa
hanno collaborato, oltre al festival reatino, la Fondazione Alberto
Sordi, l’Accademia Filarmonica Romana e il Teatro dell’Opera di
Roma. Impresa da far tremare le vene e i polsi. Il trionfo e il
diffondersi del melodramma romantico, infatti, e poi di quello
cosiddetto veristico, ha fatto perdere la consapevolezza di che tipo
di teatro e di canto fosse quello del melodramma italiano
seicentesco. Teatro, appunto, prima ancora che canto. Non a caso ho
sopra citato Shakespeare.
Nell’intenzione dei compositori romani
Giulio Caccini e Jacopo Peri, ai quali per primi venne l’idea e,
sostenuti dalla fiorentina camerata de’ Bardi, ne sperimentarono
l’impostazione musicale a Firenze nel 1600, doveva essere una
restaurazione dell’antico teatro tragico greco. Poeta del gruppo,
il fiorentino Ottavio Rinuccini. L’opera messa in scena s’intitolò
Euridice. E, fino a Monteverdi, vissero nell’equivoco di avere
risuscitato la tragedia greca. Ma un vero e proprio teatro musicale,
nel senso moderno del termine, nasce solo sette anni dopo, nel 1607.
con la rappresentazione a Mantova della Favola di Orfeo:
Alessandro Striggio ne scrive il testo, Monteverdi la musica. E alla
Musica, che si presenta come Personaggio nel Prologo, è affidata
l’esposizione della nuova concezione teatrale, in cui la musica si
fa carico di rappresentare gli affetti – oggi diremmo le passioni,
i sentimenti – del dramma. Ma sempre di dramma si tratta. Che si
fonda su due presupposti. Il fondamentale, esposto con l’affermazione
che la musica debba essere “serva dell’orazione”, vale a dire
della parola, significa che la musica può servirsi dell’arte
retorica così come se ne servono l’oratoria, la poesia e il
teatro. E ciò perché – e qui entra l’altro presupposto –
perché musica e poesia si servono della stessa materia: il suono. Il
che non vuol dire dunque, come da molte parti si continua a
sostenere, che la musica debba seguire fedelmente i concetti e le
immagini del testo, ma più profondamente che deve organizzarsi in
forme retoriche riconoscibili allo stesso modo della poesia, trarre
cioè dalle parole quella musica che esse già contengono. Il
pensiero corre subito all’idea del “levare” di Michelangelo,
alla scultura, come forma della statua già contenuta nel marmo da
cui lo scultore la scolpisce. C’è molto neoplatonismo in questa
idea. E del resto L’Orfeo è un dramma profondamente
neoplatonico, sia nel testo che nella musica. Il potere che ha la
musica di ammansire gli dei inferi è dovuto alla sua capacità di
estrarre dalla parola l’idea che la fa significare: la parola è
solo la forma esteriore dell’idea che la musica estrae dalla sua
forma, come la noce dal suo guscio. C’è in ciò anche un influsso
cabalistico: il cuore della noce è il nodo in cui si contatta il
divino. Questa concezione del rapporto tra la parola e la musica
determina profondamente il tipo di canto, che nasce dunque dalla
dizione del testo, la melodia è cioè già insita nelle parole, non
sovrapposta ad esse. Il musicista non fa che estrarla, manifestarla,
renderla evidente, e in tal modo potrà anche distribuirne le
successioni, le combinazioni, l’organizzazione generale del
percorso musicale, così come la retorica organizza un discorso,
predispone e dispone l’ordine delle parti. Una tale concezione
arriva fino a Bach, che anch’egli sostiene di organizzare le parti
musicali come le parti di un discorso. E’ una nuova concezione
della forma musicale, che solo superficialmente sembra dipendere dal
testo, mentre in realtà costruisce architetture che corrispondono
analogicamente alle architetture del discorso retorico. In pratica,
questo canto deve rendere udibile il suono significante delle parole,
partire dalla dizione, e non invece, come sarà pratica successiva,
imporre una melodia al testo: il cantante non è cantante, ma attore.
Per l’Arianna, opera di cui ci è rimasto solo il Lamento,
morta la Romanina, la giovanissima cantate romana che Monteverdi
aveva educato al suo tipo di “parlar cantando” (e non “recitar
cantando”, come per i fiorentini), il compositore rifiutò
l’offerta della cantante Giulia Caccini, figlia di Giulio, e
ingaggiò un’attrice, Virginia Andreini. Questo dovrebbe far capire
in che direzione si muovesse la drammaturgia musicale di Monteverdi.
Ebbene, di tutti gli interpreti di questa rappresentazione romana il
solo Mauro Borgioni, nel ruolo di Ulisse, sembra aver capito fino in
fondo una tale drammaturgia musicale. La sua dizione ha reso
comprensibile il testo sempre, e sempre, cosa più importante, il
senso della sua intonazione musicale. Mirabile, la recitazione,
intensa, veramente drammatica. Splendida la scena del riconoscimento
di Telemaco, suo figlio.
Gli altri interpreti, tutti bravissimi, va detto, e intonatissimi, non sempre però rendevano fedelmente questa impostazione vocale in cui la dizione precede il canto e non viceversa, vale a dire un canto che s’impone al testo. Non ci fossero stati i sopratitoli (ma perché solo in italiano e non almeno anche in inglese, per il pubblico non italiano?), non sempre sarebbe stato facile seguire lo svilupparsi dell’azione. In ogni caso si è comunque ammirata l’intensità espressiva e drammatica della Penelope di Lucia Napoli, il brio e la scioltezza di Michela Guarrera, Melanto, e di Antonio Sapio, Eurimaco, la nobiltà del Telemaco di Roberto Manuel Zangari, la compostezza dell’Ericlea di Tonia Lucariello, l’efficacia comica dell’Iro di Alessio Tosi, e tutti gli altri, tutti giovani, ammirevoli per l’entusiasmo visibile e udibile nella rappresentazione di un’opera così difficile e complessa. Il direttore e concertatore Alessandro Quarta ha condotto con rigore e intelligenza la lettura non semplice di un’opera che ancora oggi sorprende per la sua inaudita modernità. Avrebbe forse potuto concedere maggiore libertà alla recitazione, più fluidità ai ritmi danzanti, ma sarebbe cercare il pelo nell’uovo, e si capisce che invece il mantenersi in ben delimitati confini espressivi ha evitato sbavature e sbandamenti. Una matura compagnia di professionisti non avrebbe potuto agire meglio. L’interpretazione – con la riserva di una non ancora chiarissima e perfetta dizione – è ammirevole, questi giovani sono sulla strada giusta. Lo spettacolo non avrebbe sfigurato anche in un teatro di maggiore richiamo. Nel Prologo, bellissimo, si è ammirata l’Umana Fragilità di Enrico Torre, a cui si contrappongono il Tempo di Piero Facci, la volubile Fortuna di Vittoria Giacobazzi, l’Amore di Sabrina Cortese). La regia di Cesare Scarton, che si serve di scene funzionali, mobili, di Michele Della Cioppa, a raffigurare interni ed esterni di un palazzo miceneo, e dei sontuosi e bei costumi di Anna Biagiotti, ambienta l’azione in epoca indeterminata, abiti di oggi per gli umani, tra Otto e Novecento per gli dei (bravissimi, tutti! e in particolare il Giove di Gianluca Bocchino e Sabrina Cortese che ora impersona Minerva), supponendo il passaggio da un’epoca arcaica, aristocratica, fondata sul dovere, a una più giovane, democratica? fondata sulla ricerca del piacere (i Proci). Plausibile. Già Sofocle nel Filottete imposta un simile contrasto tra morale aristocratica, individualistica, e morale democratica, collettiva, utilitaristica. Ma il discorso qui si fa complesso. Al pubblico, comunque, il messaggio arriva. E i valorosi e coraggiosi interpreti sono tutti applauditi con fervore. Chi può, chi è ancora in tempo, tra Roma e Rieti per vedere lo spettacolo, si precipiti. Ne trarrà non solo godimento, come da qualsiasi cosa bella, ma ne uscirà con la sensazione di avere vissuto un’esperienza importante.
Gli altri interpreti, tutti bravissimi, va detto, e intonatissimi, non sempre però rendevano fedelmente questa impostazione vocale in cui la dizione precede il canto e non viceversa, vale a dire un canto che s’impone al testo. Non ci fossero stati i sopratitoli (ma perché solo in italiano e non almeno anche in inglese, per il pubblico non italiano?), non sempre sarebbe stato facile seguire lo svilupparsi dell’azione. In ogni caso si è comunque ammirata l’intensità espressiva e drammatica della Penelope di Lucia Napoli, il brio e la scioltezza di Michela Guarrera, Melanto, e di Antonio Sapio, Eurimaco, la nobiltà del Telemaco di Roberto Manuel Zangari, la compostezza dell’Ericlea di Tonia Lucariello, l’efficacia comica dell’Iro di Alessio Tosi, e tutti gli altri, tutti giovani, ammirevoli per l’entusiasmo visibile e udibile nella rappresentazione di un’opera così difficile e complessa. Il direttore e concertatore Alessandro Quarta ha condotto con rigore e intelligenza la lettura non semplice di un’opera che ancora oggi sorprende per la sua inaudita modernità. Avrebbe forse potuto concedere maggiore libertà alla recitazione, più fluidità ai ritmi danzanti, ma sarebbe cercare il pelo nell’uovo, e si capisce che invece il mantenersi in ben delimitati confini espressivi ha evitato sbavature e sbandamenti. Una matura compagnia di professionisti non avrebbe potuto agire meglio. L’interpretazione – con la riserva di una non ancora chiarissima e perfetta dizione – è ammirevole, questi giovani sono sulla strada giusta. Lo spettacolo non avrebbe sfigurato anche in un teatro di maggiore richiamo. Nel Prologo, bellissimo, si è ammirata l’Umana Fragilità di Enrico Torre, a cui si contrappongono il Tempo di Piero Facci, la volubile Fortuna di Vittoria Giacobazzi, l’Amore di Sabrina Cortese). La regia di Cesare Scarton, che si serve di scene funzionali, mobili, di Michele Della Cioppa, a raffigurare interni ed esterni di un palazzo miceneo, e dei sontuosi e bei costumi di Anna Biagiotti, ambienta l’azione in epoca indeterminata, abiti di oggi per gli umani, tra Otto e Novecento per gli dei (bravissimi, tutti! e in particolare il Giove di Gianluca Bocchino e Sabrina Cortese che ora impersona Minerva), supponendo il passaggio da un’epoca arcaica, aristocratica, fondata sul dovere, a una più giovane, democratica? fondata sulla ricerca del piacere (i Proci). Plausibile. Già Sofocle nel Filottete imposta un simile contrasto tra morale aristocratica, individualistica, e morale democratica, collettiva, utilitaristica. Ma il discorso qui si fa complesso. Al pubblico, comunque, il messaggio arriva. E i valorosi e coraggiosi interpreti sono tutti applauditi con fervore. Chi può, chi è ancora in tempo, tra Roma e Rieti per vedere lo spettacolo, si precipiti. Ne trarrà non solo godimento, come da qualsiasi cosa bella, ma ne uscirà con la sensazione di avere vissuto un’esperienza importante.
Fiano
Romano, 7 ottobre 2018
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