Venezia,
Biennale Musica, Crossing
the Atlantic,
62° Festival Internazionale di Musica Contemporanea. 29 settembre
2018. ARSENALE – TEATRO ALLE TESE. Elliott
Carter.
Elliott
Carter, nato e vissuto per 104 anni, dal 1908 al 2012, a New York, è
una figura centrale del XX secolo, non solo dell’America. Come
Henry James o Thomas Stern Eliot, anch’essi nati negli USA, nel
romanzo e nella poesia raccolgono la complessa eredità narrativa e
poetica dell’Europa e dell’America, così Carter sintentizza
magnificamente, nella sua opera, la cultura musicale (e non solo
musicale) americana ed europea. La Biennale Musica veneziana di
quest’anno, che non a caso s’intitola Crossing the Atlantic,
ha voluto dedicargli un omaggio con musiche che vanno dal 1987 al
2003. Quindi occupano l’ultimo stadio dell’attività di Carter,
stadio in cui si avverte un progressivo prosciugamento dei
riferimenti a una sapienza artigianale del far musica che va da Ives
a Schoenberg, da Petrassi, di cui era molto amico, alle astrazioni di
Stiockhausen. Accademia dell’avanguardia? Ce ne fossero accademici
come lui così poco accademici! I grandi compositori del Novecento
tutto sono stati tranne che accademici, o intolleranti, propulsori di
muri e di steccati, artistiche o ideologiche che fossero le chiusure
e le esclusioni. Riascoltare oggi la loro musica ci mostra invece un
atteggiamento verso la pagina scritta di grande libertà.
Imprevedibili gli esiti da un’opera all’altra, pur nella
riconoscibilità di un’impronta stilistica, o meglio: di uno stigma
strutturale, di un modo di costruire la partitura. Il concerto
procedeva a ritroso: dal 2003, Dialogues per pianoforte e
ensemble, all’eleganza astratta di Luimen per sei strumenti
(tre strumenti a pizzico: chitarra, mandolino e arpa; ai quali si
aggiungo una tromba, un trombone e un’arpa), del 1997, e infine al
Concerto per oboe e orchestra, del 1986-1987. Il gioco
contrappuntistico è sottile, intricato, raffinatissimo. Per certi
versi possono evocare i Contrasti di Bartók.
Ma c’è un’assciutezza del gesto, una poetica del togliere che ci
trasferisce in zone lontane dal caos quotidiano dell’oggi. E’
come se alla crisi della avanguardie Carter non rispondesse con
soluzioni semplificatrici
e tanto meno alternative, sotto certi aspetti restaurative – ma il
termine è fuorviante -, come
proprio in America era avvenuto con i cosiddetti minimalisti. E
nemmeno vuole ricorrere a una integrale ridiscussione dei parametri,
come aveva fatto Cage. Carter prosegue per la sua strada. Come
alcuni, grandissimi, poeti suoi contemporanei, che reintroducono, o
non hanno mai abbandonato, la metrica classica della poesia inglese:
Stevens, Strand, in qualche modo Heaney, che
però appartiene a un’altra tradizione, quella irlandese, ma
soprattutto Anthony Hecht, nel quale il mondo classico, e non solo
inglese, ma antico, greco e latino, ha un immenso spazio – come
avveniva già con Shelley. Carter, al passato musicale, americano ed
europeo, non vuole rinunciare. Non vuole rinunciare a una musica
nella quale l’operazione di costruzione della forma copra un ruolo
essenziale, determinante. Una torre d’avorio? Può darsi. Voi
vivete pure nel caos di un oggi che sembra avere perduto ogni senso
di una direzione qualsiasi, ogni volontà di radicarsi a un punto di
riferimento (titolo, non a caso, di una bellissima raccolta di saggi,
scritti
in vari momenti e raccolti
in
volume
da Boulez). Io i miei punti di riferimento li mantengo ben chiari e
sono la guida del mio scrivere. Se sbaglio io, e avete ragione voi,
scomparirò. Ma temo che ciò che ora chiamate molteplicità dei
punti di vista, sia, più miseramente, meno nobilmente, una rinuncia
alle scelte, alla prese di posizione, al posizionarsi in una
prospettiva della visione invece che in un’altra. Per
l’avvento del terzo millennio, Daniel Barenboim, direttore della
Staatsoper di Berlino Unter
den
Linden, commissionò a Carter un’opera, What
next?,
che andò in scena il 16 settembre 1999 a Berlino, e negli USA il 24
febbraio del 2000, a Chicago, sempre sotto la concertazione di
Barenboim. Paul Griffiths, musicologo inglese e critico musicale del
Times,
scrittore, drammaturgo, ha scritto il libretto. C’è un incidente
stradale. Sono morti tutti, ma nessuno sa di essere morto. Aspettano
i soccorsi. Arrivano i becchini che li infagottano in ruvide tele e
gli spazzini spazzano il sangue sull’asfalto e i segni
dell’incidente. Una voce si alza dall’orchestra, che grida: what
next? Sipario! E’ un’opera bellissima. Ero a quella prima
berlinese. Fu un trionfo. Ma uscii dal teatro con un senso profondo
di angoscia: il futuro, noi, siamo quei cadaveri infagottati
frettolosamente. Siamo morti, il nostro mondo non c’è più. Ma non
ce ne accorgiamo. L’opera è costruita, come il Fidelio,
o il Wozzeck
-
le
citazioni
non sono
casuali
-,
con numeri chiusi, per lo più di forme strumentali, ma che inglobano
tutta la tradizione musicale occidentale dal madrigale al jazz in
un’unica cifra stilistica, tenuta insieme da una capillare
rielaborazione contrappuntistica, che
sottopone
ogni idea
musicale (non amo il termine abusato di “materiale”, che ritengo
offensivo per l’intelligenza del musicista) a
radicali trasformazioni.
Ecco,
questa sapienza contrappuntistica è la cifra costante della
scrittura di Carter, il segno, o lo stigma, del suo volersi collocare
su
un piano alto, riservato, se si vuole privilegiato ed esclusivo,
ristretto, del fare musica. Musica, prima di tutto, come sapienza di
scrittura, alla Bach, per non indurre in equivoci. Ma senza
rinunciare a una sua severa godibilità: la godibilità
dell’intelligenza, che sottopone anche il piacere del suono a una
rigorosa architettura. In un’epoca ossessionata dal primato del
timbro, del suono, questo privilegio della struttura, della scrittura
sull’effetto, può sembrare retrivo. Ma attenti: Carter non esclude
timbro, suono, effetto, la rivoluzione debussiana e di Ives non è
dimenticata. Con maggiore complessità Carter non rinuncia
all’articolazione simultanea di tutti i parametri musicali, senza
privilegiarne nessuno, e anzi, collocando l’astrazione della
scrittura contrappuntistica sullo stesso piano del suono, del timbro,
del ritmo, dell’effetto sonoro, nel senso ch’è proprio
l’elaborazione contrappuntistica a individuare il posto assegnato
di volta in volta, nella costruzione musicale, al timbro,
all’intervallo, al suono. Insomma, se si vuole, la scrittura
prevale sull’effetto, ma solo nel senso che l’effetto è il
risultato della scrittura, non in quello che sia l’effetto a
determinare il modo della scrittura. Se
proprio vogliamo trovare un modello, sarà il trobar clus dei
trovatori, la musica reservata, l’esercizio individuale di un
indicibile che prova a farsi dicibile. Il magistero di un Orazio
nella poesia, il privatissimo, ed escludente esercizio stilistico di
un Proust o di un Queneau, la solipsistica architettura di un Benn.
Elitario? Aristocratico? Ebbene sì. E allora? E’ forse proibito?
Non è forse poeta un Mallarmé perché non immediatamente
comprensibile? Non è musica, ma matematica, un Boulez, come qualcuno
ha detto e scritto e ancora si scrive, perché pretende
dall’ascoltatore la cultura specifica per comprenderlo? Non è
poesia Arnaut Daniel perché di difficilissima e talora impossibile
comprensione? Tanto più che poi gli “effetti”
possono essere la cadenza del pianoforte nei Dialogues
(strepitoso
Lucio Perotti!),
o
i ricami timbrici degli strumenti a pizzico in Luimen,
la cui lontana origine sembra essere la cadenza di flauto e corno
alla fine del primo tempo della Nona
di Mahler.
Ma
ancora nell’Oboe
Concerto
(questa
è la dicitura inglese, interprete formidabile Fabio Bagnoli, all'oboe: affronta una parte irta, complicatissima)
del 1986-1987
invece
si ascolta una scrittura più
compatta. Un pannello denso, in cui l’elaborazione quasi tematica
delle idee musicali persiste come fedeltà a una tradizione che non
si vuole abbandonare. E tuttavia si sbaglierebbe a interpretare la
riconoscibilità delle idee come nostalgia di un’elaborazione
tematica. In realtà ciò che sembra teme, o suggerimento di un tema,
è un gesto, un tentativo di canto conoscendone l’inattuabilità,
oltre che l’inattualità. E dentro questa lotta per non dire ciò
che si amerebbe dire, Carter commuove, ci chiede aiuto, preannuncia
la nostra empasse di sopravvissuti all’epoca in cui non era colpa
dimostrarsi cantabili, espressivi. Qualcosa di analogo, ma in maniera
più esplicita, la si ritrova nel Concerto
in
re,
detto
Concerto
di Basilea,
di Stravinskij. Ma lì la melodia è dichiarata, spudoratamente
intonata dagli archi. Qui, come in una sorta di
dhvanyāloka,
l’arte indiana del non detto, la melodia è il rimosso, l’assente,
che si conosce indicibile, ma al quale ci riferisce. E chi sa che in
questo messaggio – terminale? - Carter non ci parli come un antico
sapiente. Il detto è solo l’apparenza, la superficie esprimibile
del non detto, ch’è la vera sostanza di ogni dire. In qualche
modo, lontanissimi l’uno dall’altro, qui, Carter e Cage, entrambi
americani,
finiscono per comunicarci lo stesso messaggio: che l’arte è un
gioco di iniziati. Ma pericoloso, perché la tessera giocata è la
nostra vita. E forse, più che all’India, bisogna pensare alla
Cina: a I Ching, per Cage, al Tao per Carter. “L’Essere
e il Non-Essere si generano l’un l’altro; il difficile e il
facile si completano l’un l’altro; il lungo e il corto si formano
l’uno dall’altro; l’alto e il basso si invertono l’un
l’altro; i suoni e la voce si armonizzano l’un l’altro; il
prima e il dopo si seguono l’un l’altro”. Perché “la Via è
vuota: nonostante l’uso non si riempie mai”. A introdurci in
questo mondo così pieno di significati ch’è la musica di Elliott
Carter è stato il PMCE, Parco della Musica Contemporanea Ensemble,
diretto da Tonino Battista.
E
migliore introduzione non si poteva dare. Il complesso è formato da
straordinari e sensibilissimi, giovani musicisti, ciascuno un solista
formidabile, ma insieme un organismo vivente di grande musica. La
serata sarebbe bello poterla
riascoltare anche altrove, fuori della Biennale, a Roma, a Milano,
dovunque ci sia qualcuno disposto a confrontarsi con la complessità
e la problematicità dell’oggi, che restano complesse e
problematiche anche nella musica. Alla faccia di chi vuole
nascondersi, non vedere la realtà, e chiede perciò semplicità, o
meglio, semplificazione, e linearità,
vie senza problemi. Che
non esistono. Da nessuna parte. Non sono, anzi, mai esistite.
Venezia,
Biennale Musica, Crossing the Atlantic, 62° Festival Internazionale
di Musica Contemporanea. 29 settembre 2018. ARSENALE – TEATRO ALLE
TESE. Elliott
Carter.
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