ROMA.
TEATRO DELL’OPERA. DIE ZAUBERFLÖTE (IL FLAUTO MAGICO) di
Wolfgang Amadé Mozart. Libretto di Emanuel Schikaneder.
Pamina Amanda
Forsyte
Tamino Juan
Francisco Gatell
La
Regina della Notte Christina Poulitsi
Sarastro Gianluca
Buratto
Monostatos Marcello
Nardis
Papageno Alessio
Arduini
Papagena Julia
Giebel
Prima
Dama Louise Kwong*
Seconda
Dama Irida Dragoti*
Tyerza
Dama Sara Rocchi*
L’Oratore Andrij
Ganchuk*
Primo
Armigero Domingo Pellicola*
Secondo
Armigero Timofei Baranov*
Primo
Genietto Giulia Peverelli**
Secondo
Genietto Ercole Cortone**
Terzo
Genietto Agnese Funari**
Direttore
e concertatore Henrik Nánási
Regia Barrie
Kosky e Suzanne Andrade
Maestro
del Coro Roberto Gabbiani
Video Paul
Barrit
Ideazione “1927”
(Suzanne Andrade e Paul Barrit)
e
Barrie Kosky
Scene
e costumi Esther Bialas
Drammaturgia Ulrich
Lenz
Luci Diego
Leetz
Orchestra
e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con
la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera
di Roma
Allestimento
della Komische Oper di Berlino
Prima
rappresentazione: 9 ottobre 2018
Repliche:
10, 11,12,13,14, 16, 17 ottobre
* Dal progetto "Fabbrica" Young Artist Program del Teatro dell'Opera di Roma
** Scuola di Canto Corale del Teatro dell'Opera di Roma
Giustamente
Ulrich Lenz, il “drammaturgo” dello spettacolo (figura essenziale
del teatro tedesco, inesistente sulle nostre scene), nelle note sul
programma di sala, smonta la tradizionale ma sbagliata opinione che
il libretto del Flauto Magico sia uno scombinato, pasticciato
montaggio di suggestioni diverse e contrastanti, e che risulti
pertanto lo scombiccherato copione di un teatrante sprovveduto.
Piacque invece subito al pubblico, e non solo per la musica, ma
proprio per la vicenda così piena di colpi di scena e per i
significati ad essa associati, che non sono solo quelli della
massoneria, alla quale sia Mozart sia Schikaneder erano affiliati.
Piacque immensamente a Goethe, anche lui massone, che ne scrisse
quello che oggi diremmo il sequel. Immaginò
che la Regina della Notte rapisca il figlio di Tamino e Pamina, che
poi è liberato dalle forze del Bene, tra le quali l’Ouroboros, il
serpente che si morde la coda, simbolo del ripetersi ciclico delle
cose. La casa editrice di Palermo, Novecento, nel 1983 ne ha
pubblicato la traduzione italiana, a cura di Maria Teresa Galluzzo.
Goethe aveva colto nel segno, perché di fatti Il flauto magico
è innanzi tutto una fiaba, e come tutte le fiabe non ambisce alla
coerenza narrativa e soprattutto non imposta psicologicamente i
personaggi dell’azione. Tamino è l’eroe che deve superare alcune
prove per raggiungere l’amata. Lo affianca un socio “comico”,
Papageno, come Sancio Panza affianca Don Chisciotte, I simboli, e
qui nel caso anche massonici, fanno parte del racconto, di qualunque
racconto fiabesco, ne costituiscono anzi, spesso, il nucleo da cui
parte la storia, va comunque cercato in essi il significato più
profondo della narrazione. Attraverso i simboli sono suscitate in
ciascuno, ascoltatore, lettore, spettatore, le associazioni di idee,
di fantasie, di sentimenti che giacciono inconsci nell’animo. Da
qui la fortuna che fin dalla prima sera arride fino ad oggi
all’opera, tra le più rappresentate e preferite dal pubblico di
tutto il mondo. Lo spettacolo che si è visto al Teatro dell’Opera
di Roma è affascinante, coinvolgente, e viene dalla Komische Oper di
Berlino. Paul Barrit e Suzanne Andrade, i registi, sono anche gli
ideatori e animatori di “1927”, un’istituzione e insieme
un’idea di teatro che riacquisisce tecniche figurative del cinema
muto. Il 1927 è l’anno in cui fu girato il primo film sonoro, Il
cantante di Jazz, con Al Jolson. Ma nessuno, allora, credette
che l’invenzione del cinema sonoro avesse un futuro. Ciò, perché
il cinema muto era arrivato a un grado di sperimentazione di sempre
nuove tecniche strabiliante. Soprattutto nell’indagare gli abissi
del male, della cattiveria: tre capolavori indimenticabili, Il
gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, nel 1920, e nel
1922 Il dottor Mabuse di Fritz Lang e Nosferatu di
Friedrich Wilhelm Murnau. Kosky e Andrade rievocano, con mezzi
moderni, senza volerne imitare lo stile, ma se mai l’idea, la
concezione di un cinema che indaga i lati oscuri dell’uomo,
immaginano la scena come uno schermo sul quale si proiettano le
figurazioni di un mondo cupo e fantastico. La Regina della Notte è
un teschio, uno scheletro in forma di grande Ragno malefico che
attira nella sua rete tutti i personaggi che entrano in contatto con
lei. Il soprano Christina Poulitsi, impeccabile e precisa, ma
piuttosto gelida, e forse così accresce il terrore che incute,
appare incapsulata come una crisalide nel fuoco dell’iperbole
costituita dalla sua tela di ragno. Solo le zampe si agitano
minacciose sul pavimento.
Tamino, uno straordinario, intenso Juan
Francisco Gatell, così come Pamina, una dolcissima Amanda Forsyte,
bravissima nel passare dalla gioia al dolore, nel rappresentare,
cantando, i mutevoli stati d’animo del personaggio, e Papageno,
Alessio Arduini, disinvolto, un clown perfetto, Papagena, Julia
Giebel, che gli tiene banda, Sarastro, Gianluca Buratto, solenne ma
anche inquietante, ambiguo, sfuggente, il mostruoso Monostatos di
Marcello Nardis, con un candido cranio abnorme, e il nero del suo
cuore tutto assorbito dall’ampio mantello, e tutti gli altri
personaggi, sbucano da fenditure della parete, poggiati su
piedistalli aerei, che si muovono come tornelli, e tra di loro le
parole delle parti parlate (Il Flauto Magico ha per modello
teatrale, anche se lo oltrepassa e stravolge, il Singspiel, alterna
cioè parti cantate e parti parlate) i dialoghi, insomma, sono
scagliati visivamente in diverse dimensioni e creano quasi un effetto
di fumetto, più che di vera e propria didascalia di cinema muto.
I
personaggi cantano, ma quando devono parlare compaiono i fumetti. Si
vedono, inoltre, elefanti che volano, lupi che aggrediscono Tamino
quando vuole avvicinarsi a Pamina, un simpatico gatto nero che
Papageno accarezza sulla testa, un enorme démone che sputa fuoco,
durante le prove di Tamino e Pamina, e si fa sorridente quando i due
giovani superano la prova.
Il flauto magico è un folletto, una
femmina nuda, una sorta di Campanellino da Peter Pan che circola e
svolazza nell’aria. Il glockenspiel, la scatola di campanelli, di
Papageno, un pacco di cartone bianco dal quale sbucano, disegnate, le
note della musica. E’ tutto un furore d’immagini che sembrano la
visualizzazione della musica che si ascolta dall’orchestra. A
tenere insieme tutte le complesse e variegate fila musicali della
partitura, Mozart passa dal popolare del Volkslied viennese in bocca
a Papageno, al sublime da opera serie della Regina della Notte o di
Sarastro, di Tamino, o degli Armigeri – in mezzo la vacanza dei tre
genietti, il divertissement delle tre Dame, sorta di aerea
prefigurazione delle fanciulle fiore del Parsifal – a
costruire la cattedrale musicale che dalla buca e dalla scena arriva
al pubblico, con mano esperta, con una lettura lucida e intensa, c’è
l’ungherese Henrik Nánási.
Lo assecondano con duttilità ed
efficacia tutti gli interpreti. E perciò alla fine esplode
entusiastico l’applauso del pubblico. Solo dal loggione si ode
qualche sparuto dissenso, qualche timido “buu”. Subito zittito
dal fragore degli applausi. Evidentemente non mancano mai in teatro i
disinformati illusi che credono tradizione solo ciò che sono
abituati a vedere. Il Theater auf der Wieden, dove Il flauto
magico di Mozart fu dato per la prima volta, nel 1791, era un
teatro famoso per i suoi fantasiosi e surreali effetti di scena. Sono
sicuro che a Volfango questo spettacolo sarebbe piaciuto da morire.
Perché è un teatro tutto fondato sulla fantasia e sul gioco. In
tedesco recitare si dice spielen, giocare. Se ne facciano una ragione
gli italiani che storcono il naso appena arriva in Italia uno
spettacolo tedesco. Ma ce ne fossero di più! O imparassimo noi a
farne di altrettanto fantasiosi e giocosi (in realtà ce ne sono, per
fortuna, e non pochi!).
Dino
Villatico
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