DINO VILLATICO
APPUNTI
PER UN’ANALISI DELLE STRATEGIE COMPOSITIVE DI BEETHOVEN
“Beethoven è nel contempo intransigente e transigente. Deve essere
così, ma si dà pane e acqua al prigioniero. Non si può più
comporre come Beethoven, ma si deve pensare nel modo in cui
egli componeva”.
Adorno, Beethoven1
“La musica parla il linguaggio dell’arcaismo, dei bambini, dei
selvaggi e di Dio ma non quello dell’individuo. Tutte le categorie
dell’ultimo Beethoven sono sfide all’idealismo - quasi allo
‘spirito’. Non esiste più autonomia”.
Adorno, Beethoven2
La percezione della musica di Beethoven, ancora prima che si possa
parlare della sua comprensione, è oggi deformata, distorta, deviata
da una serie incalcolabile di miti, di leggende, di pre-giudizi
teorici, soprattutto riguardo alle forme, e di pigrizie
interpretative. Per Beethoven, come del resto per tutti i grandi
compositori (ma anche per gli scrittori, i pittori, ecc., in genere
per tutti gli artisti e - perché no? - per i filosofi, gli storici,
ecc.) è necessaria, anzi indispensabile, un’operazione di
pulitura, di rifondazione metodologica dell’impatto d’ascolto,
prima ancora che dell’indagine conoscitiva.
Cominciamo subito col mettere in campo e in discussione il
significato di un termine che proprio per la sua musica si dà invece
per scontato: il tema. Si dà, cioè, per scontato che un tema
sia il profilo melodico che percepisce l’ascoltatore. Ora, se
questo può essere in parte (ma solo in parte) valido per i musicisti
romantici, a esclusione di Schubert, che comunque avvia la
trasformazione del nucleo tematico tardosettecentesco (classico)
in tema melodico, non regge all’analisi di qualsiasi composizione
non solo di Beethoven, ma anche di Haydn e di Mozart. In Haydn, come
poi in Beethoven, e in maniera più articolata in Mozart, il tema non
è una melodia, ma un complesso intreccio di forze in azione: campo
armonico, impulso ritmico, cellule tematiche e motivi, sia principali
che secondari, spesso del resto presentati simultaneamente, giocano
un gioco assolutamente complementare di suggerimenti, di interazioni,
di stimolo, di sorpresa in cui si configurano il piano di partenza
dell’opera e il destino del suo percorso. Il profilo melodico,
tanto dell’idea principale che del suo accompagnamento, è
sottoposto a tutti i procedimenti dell’elaborazione
contrappuntistica. Il ritmo s’impone subito come principio
caratterizzante del tema, al punto che talora, soprattutto in Haydn e
in Beethoven, ma non è raro nemmeno in Mozart, un motivo diverso,
magari nuovo, che se ne appropri, viene percepito non già come un
tema diverso, bensì come una variante del tema, e questo perché nel
ritmo è determinata l’individuazione tematica del motivo. Anche il
ritmo, tuttavia, può risultare non già da un’unica cellula che
s’imponga uguale a tutte le voci, ma dalla combinazione di due o
più cellule ritmiche differenti, come, per esempio, nell’attacco
della Sinfonia in sol minore K. 550 di Mozart (per questo è
un crimine ridurre il bellissimo tema, la cui tensione nasce proprio
dai ritmi contrastanti della melodia e del suo accompagnamento, al
solo profilo della melodia superiore, come si ode fare perfino nelle
suonerie di certi telefoni cellulari e come decenni fa faceva il mai
troppo deprecato Valdo de los Rios). Quanto alla tonalità che si fa
udire per prima nell’attacco del pezzo, essa imposta il campo
tonale di riferimento rispetto al quale le altre tonalità si
presentano più che come contrapposte, come dissonanti. E’ infatti
la dissonanza, e la sua risoluzione, che governa l’andamento di un
pezzo del tardo settecento e del primo ottocento (Rossini compreso: e
ciò spiega la sua affinità con Haydn e Mozart). Ciò implica che le
figure dell’accompagnamento, o piuttosto del cosiddetto
accompagnamento, non sono affatto figure secondarie, ma formano parte
integrante del tema, al punto che talora, perfino nel Mozart
giovanile, prima che il tema vero e proprio si affermi, soprattutto
negli adagi, ma non solo, riesce difficile capire se la
configurazione melodica ascoltata sia l’inizio di un tema o
l’accompagnamento (meglio sarebbe dire il controsoggetto)
del tema. Esemplare al riguardo (ma è il Mozart maturo ad offrircene
il modello) l’attacco dell’ouverture delle Nozze di
Figaro. La musica sembra colta a metà del suo percorso, come se
l’ascoltatore fosse entrato in ritardo a teatro, e l’ouverture
fosse già cominciata da un pezzo. Ebbene, quella figura ritmica
d’attacco è sì una figura complementare della melodia del tema,
ma è parte integrante del tema stesso, nel senso che il tema non è
la melodia che si ode nel registro acuto, ma quella melodia insieme
alla figura ritmica complementare. Questo procedimento viene da
Beethoven radicalizzato, proseguendo e sviluppando una sollecitazione
già presente in maniera addirittura prepotente in Haydn. Questo, tra
l’altro, fa piazza pulita della corbelleria che ancora si sente
dire e, ahimè! si vede scrivere, sull’opera giovanile di
Beethoven, che imiterebbe Haydn e Mozart. Si dà il caso che
per Beethoven Haydn e Mozart non fossero affatto compositori
precedenti, ma assolutamente contemporanei (quando Mozart muore,
Beethoven ha 21 anni e quando muore Haydn ne ha 39!). Non solo: ma i
più moderni tra i contemporanei. E il provinciale renano coglie
immediatamente questa modernità. Accusarlo dunque d’imitare Haydn
sarebbe come rimproverare a un giovane compositore degli anni 70 del
secolo scorso di tenere presenti i modelli formali di Boulez e di
Stockhausen. Tra l’altro, Beethoven già fin dalle sue prime opere
dimostra una spericolata e sperimentale autonomia, per esempio nella
ricerca, che sarà la tortura della sua vita, di un’alternativa
tonale all’obbligo della dominante per la parte dell’esposizione
contrapposta (dissonante) alla tonica di partenza. Alternativa che
già individua nella mediante e nella sottomediante (non gli sarà
stato estraneo, può darsi, l’influsso della Fantasia in do
minore di Mozart, nella quale il tema contrapposto appare in re
maggiore). Vari i motivi di questa ricerca. In Mozart è determinata
dal cromatismo accentuato del tema d’attacco, il che farebbe
apparire banale l’apparizione della tonalità della dominante, ma
per Beethoven, che ha un orecchio essenzialmente diatonico, come
Haydn, il che non vuol dire povero armonicamente, anzi! l’impulso è
avviato dal fatto che la contrapposizione tonica-dominante è già
attuata dalla prima apparizione del tema, ne costituisce anzi il
nucleo armonico tematico, si confronti l’attacco del Terzo
Concerto per pianoforte, con l’attacco simile del Concerto
mozartiano nella stessa tonalità, che costituisce indubbiamente il
modello del concerto beethoveniano, ma mentre Mozart devia il
percorso sul sesto grado, toccando il quinto solo come grado di
passaggio, Beethoven insiste sul ribattere V-I, V-I, quasi in forma
di cadenza, e non gli basta, il pianoforte, quando entra, espone
aggressivo per tre ottave l’intera scala di do minore. Dopo di che
si possono spalancare le porte a tutte le avventure armoniche, che
non mancano, compreso il prediletto ricorso alla sesta napoletana.
Sulla tonalità, inoltre, c’è da dire che non sempre il pezzo
attacca con la tonica: talora il compositore devia astutamente il
percorso della triade, come fa appunto Mozart, nel citato concerto in
do minore o attacca con un altro grado, per esempio la mediante, come
fa Beethoven nell’adagio dell’op. 106, trattandosi
in entrambi i casi di un’enunciazione omofona, l’accordo spezzato
mozartiano sembrerebbe il primo rivolto di la bemolle maggiore, e
solo l’intonazione della dominante sol con la sua sensibile fa
diesis ci fa sentire do minore, quello beethoveniano, una successione
la do diesis, farebbe pensare a un la maggiore, ma subito il fa
diesis propone la vera tonica. Non è escluso che qui Beethoven
tragga profitto dalla lezione mozartiana. Del resto l’ultimo
Beethoven sembra spesso riflettere su certi procedimenti di Mozart,
sulla leggerezza di suggerire, deviare, introdurre a poco a poco:
vedi l’attacco della Sonata in sol maggiore op. 96 per
violino e pianoforte. A distinguerlo però da Mozart sta quasi sempre
l’affermazione di un impulso ritmico singolare, insolito, anche se
semplicissimo: un anapesto nell’op. 96 e un giambo nella
Nona.
Ciò che caratterizza da subito, infatti, l’opera di Beethoven è
l’individuazione ritmica del tema, o piuttosto la scansione ritmica
di un campo armonico, che funge da cellula generatrice del tema e da
funzione propulsiva della forma. Se l’esempio della Quinta
Sinfonia o quello dell’Allegretto della Settima
possono apparire abusati (ma e la Seconda e la bellissima
Quarta?), impressionante è la singolarità della Nona,
sia per l’estrema povertà dei mezzi impiegati (una quinta vuota e
un giambo) che per la quasi insostenibile tensione che con questi
ascetici mezzi la musica raggiunge. Ma partiamo da un’opera
giovanile, proprio per mettere in risalto il fatto che il
procedimento non riguarda solo il Beethoven maturo e tardo, bensì
l’intera opera. Il Primo Concerto op.l5 per pianoforte,
sotto molti punti di vista, è già un’opera esemplare. Il ritmo
dattilico di attacco è il modello dell’intera costruzione tematica
del concerto, con una essenzialità, una scarna coerenza, che
ritroviamo per esempio nel maturissimo, e perfetto, Concerto op.
61 per violino, in questo caso un ritmo di cinque semiminime
percosse dai timpani soli all’inizio (interessante la somiglianza o
piuttosto l’identità con la cellula tematica del Quartetto in
fa maggiore op. 59 n.1, segno che Beethoven, come Haydn e Mozart,
del resto, lavora su poche cellule ritmiche, armoniche e melodiche di
base, sbalorditive in tal senso le affinità tematiche degli ultimi
quartetti) o nell’ouverture del Coriolano op. 62,
un trocheo, con la prima durata aumentata, e la sua inversione
giambica (al riguardo c’è da osservare che Beethoven tratta
contrappuntisticamente anche i ritmi, sottoponendoli a processi di
variazione, inversione o retrogradazione - ritmicamente sono la
stessa cosa -, come farà poi Stravinsky, ma Beethoven lo impara da
Haydn). Tra l’altro il ritmo dattilico del primo tempo del
concerto, con la variante dell’aggiunta spondaica nella battuta
successiva, al posto dell’arresto sul primo quarto (come anche nel
Concerto per violino), e pertanto dattilo + spondeo, sarà
anche il ritmo base dell’Allegretto della Settima. Ma
osserva bene Adorno, negli appunti per il libro mai scritto su
Beethoven, che è tipico di Beethoven lavorare su elementi semplici,
quasi convenzionali, quando non addirittura pure formule
tradizionali: l’individuazione, e la caratterizzazione singola non
sono dati dall’invenzione tematica, bensì dalle funzioni che per
associazione o per contrasto i temi sviluppano tra loro e con se
stessi, al punto che talvolta, e sempre più spesso nelle opere
tarde, la riapparizione del tema nella ripresa illumina di una luce
del tutto nuovo la sua prima enunciazione che allora si rivela non
già come l’enunciazione completa del tema, bensì come la sua
proposta e il tema appare finalmente integrale, evidente, solo
all’atto della riproposta. A ciò spesso si accompagna, nella
sezione dello sviluppo, e dunque in una sezione precedente,
l’apparire di un tema nuovo o che sembra nuovo (1° tempo
dell’Eroica e della Sonata op. 10. n. 1, dunque in
un’opera giovanile!), ma che poi l’analisi rivela provenire da
elementi esposti precedentemente, magari non proprio dalle figure
tematiche, ma dalle figure secondarie dei ponti modulanti o delle
transizioni (anche se in Beethoven risulta difficile, e nelle opere
tarde difficilissimo, individuare zone secondarie o di transizione,
non perché manchino, ma perché svolgono una funzione importante,
anzi decisiva, nell’individuazione dei contrasti tematici,
costituendo spesso o l’anticipazione di ciò che viene dopo o la
conferma di ciò che si è udito o la sua brutale negazione per
opposizione o la digressione spiazzante - in quest’ultimo caso, un
po’ come il divertimento nella fuga e del resto
l’elaborazione perpetua alla quale Beethoven sottopone le idee
musicali nasce da una concezione contrappuntistica dell’esposizione
tematica, anche se contrappunto non vuol dire per Beethoven
necessariamente polifonia: di fatto è concepita
contrappuntisticamente anche la monodia, nel senso che è strutturata
in modo da potersi prestare a elaborazioni contrappuntistiche).
Esaminiamo per ordine alcune opere, dalla cui analisi si ricaveranno
indicazioni sul pensiero musicale di Beethoven, in particole sulle
strategie compositive.
1. Sonata in do minore op. 10 n.1
“Ascoltare e capire la musica è tanto difficile appunto perché
tutto è completamente trasformato in musica e bisogna trovare la
chiave per penetrarvi”.
Josef Rufer3
La programmazione del ritmo e l’organizzazione del profilo melodico
dei temi non bastano a far comprendere la complessità delle funzioni
messe in atto in una pagina beethoveniana e spesso il riconoscimento
delle derivazioni tematiche da una cellula originaria, anche se è un
buon principio di analisi, non basta a riconoscere il processo che dà
luogo alla generazione di una forma, anche perché le forme in
Beethoven sono assai poco schematiche, non ubbidiscono mai a uno
schema astratto di forma, ma generano dal proprio interno, di volta
in volta, lo schema della propria forma. Pertanto ragionare solo
introducendo schemi più o meno adeguati di primo tema, secondo tema,
ponti modulanti, tema principale, temi secondari, è fuorviante. Così
come risulterebbe una via senza uscita cercare rapporti tonali
standardizzati: il percorso tonale di un brano è infatti determinato
già dall’articolazione del tema d’attacco, che talora però,
soprattutto in Beethoven non è ancora il tema nella sua interezza,
ma solo una prima impostazione degli elementi in tensione tra loro o
per opposizione o per sviluppo che gli daranno corpo nel corso del
brano. Quando poi il brano ha anche un’introduzione più o meno
sviluppata, come accade in molte sinfonie di Haydn e di Mozart e in
maniera ancora più ampia in alcune di Beethoven, è qui che bisogna
cercare quali campi tonali, e in che direzione, il compositore abbia
voglia di attivare. Ma non è detto che l’introduzione debba
svolgersi in un brano musicale di articolata complessità: può anche
consistere di due sole note (come nell’adagio della 106)
o nella scansione di due accordi (Eroica).
Come nell’elaborazione letteraria esistono strutture aperte, la
prosa, il dramma elisabettiano e barocco, il romanzo, e strutture
chiuse, il verso, il sonetto, la canzone, le forme poetiche strofiche
(che tuttavia restano aperte quanto al numero di strofe), il dramma
classico, così in musica si danno temi in sé conclusi e temi
aperti, forme simmetriche (la cosiddetta forma di Lied o
l’aria col da capo) e forme asimmetriche,
principalmente la forma-sonata, ma anche altre, il poema
sinfonico, il rondò, ecc., ma l’opposizione delle
strutture non è così radicale come si potrebbe pensare a un primo
sommario esame. Per esempio, pur in una struttura essenzialmente
aperta come quella del recitativo, le figure cadenzali introducono
una scansione formale delimitante. In Verdi la fraseologia tende
sempre a chiudere il percorso armonico, anche nel periodo tardo, in
Wagner invece la conclusione armonica, soprattutto dopo il Lohengrin
è sospesa, rinviata, ciò dà alla sua musica il carattere di una
prosa4.
La conquista tonale da una parte, favorita dalla pratica del basso
continuo, e il modello della danza nella musica strumentale, avevano
via via introdotto, nel corso del XVII secolo, una strutturazione
simmetrica delle frasi musicali, sia dal punto di vista delle figure
melodiche che dal punto di vista armonico. Il processo trova la sua
massima e definitiva realizzazione nella musica galante e nell’opera
buffa. Bach era stato un gigantesco e riuscitissimo sforzo di
conciliare il libero svolgersi cromatico e contrappuntistico del
discorso musicale e la sua rigida scansione tonale, anche lui però
senza mai più recuperare la sovrana libertà di un Monteverdi o di
un Frescobaldi, salvo che nei sublimi recitativi delle Passioni,
degli Oratori e delle Cantate. La novità della musica
di Haydn consisté nel reintrodurre la libertà, la scorrevolezza del
contrappunto all’interno di strutture rigidamente simmetriche
com’erano quelle della musica galante e dell’opera buffa, da lui
adottate come modelli di partenza. Beethoven porta il processo alle
estreme conseguenze, soprattutto nel periodo tardo, quando rimedita a
fondo la scorrevolezza e la fluidità della musica di Mozart. In
musicisti romantici, in tal senso, sembrano fare un passo indietro
(sembrano!) e ritornare, almeno in parte, all’andamento simmetrico
della canzone e dell’aria. Ma proprio Schubert, poi, offre modelli
liederistici di una sovrana libertà. Tuttavia è vero che solo
Wagner, e ancora più Mahler (più intricato il caso di Brahms)
intuirono e svilupparono le potenzialità discorsive dei procedimenti
beethoveniani, la sua capacità di contemperare il rigore deduttivo
delle figure tematiche con una apparentemente disordinata libertà
armonica e melodica.
Come già osservava Schoenberg, in musica si danno solo due
possibilità di organizzazione formale: la ripetizione e la
variazione. Beethoven cerca, in tutto il suo percorso di compositore,
di attuare una sintesi, una commistione dei due tipi di procedimento.
La ripetizione non si presenta quasi mai come pura e semplice
ripetizione, nemmeno quando viene riproposto tale e quale un tema,
come accade alla fine dell’op.109, in cui il tema, ripetuto
dopo sei sconvolgenti (alla lettera: sconvolgono tutto) variazioni,
assume, solo per il fatto di succedere a quel cataclisma, un
carattere totalmente nuovo, di illusorio ristabilimento dell’ordine:
è, questo, tra i momenti più commoventi, più dolorosi e struggenti
di Beethoven, di una dolcezza disarmata, come un’accettazione della
sconfitta, proprio nel punto in cui invece la maestria del
compositore domina tutti i procedimenti, ma li domina appunto per
dichiarare che non salvano dal dolore, viene da pensare alla
meravigliosa Elegia di Marienbad di Goehte, anche lì la
maestria del poeta non cela la sconfitta: “fehlt am Begriff”,
manca il concetto. Quanto allo sviluppo e alla variazione, essi
rammentano sempre qualche aspetto di ciò che stanno cambiando.
Riassumendo, e schematizzando, nel costruire i propri temi il
compositore può procedere in tre modi, e tutti e tre consistono
nella congiunzione di una figura fondamentale con la sua ripetizione
variata:
a) in maniera fraseologica, vale a dire sviluppando e variando l’idea
di partenza senza mai ripeterla esattamente come la prima volta;
b) in maniera periodica, e cioè la figura iniziale si congiunge
nell’antecedente con una sua variante o variazione per poi
riproporsi tale e quale nel conseguente5.
Si tratta dunque di una forma simmetrica, come del resto la seguente;
c) il Lied tripartito (forma A B A). La differenza con la forma
precedente consiste nel fatto che la parte intermedia è contrastante
rispetto alle parti estreme.
Quest’ultima è, per quanto riguarda la strutturazione di un intero
brano, la forma preferita da Schubert per i suoi Improvvisi e
da Chopin per i suoi Studi. Ciò che s’è detto, dunque, per
la struttura della frase, vale anche per la struttura della forma.
La Sonata in do minore op 10 n. 1, composta tra il 1796 e il
1798 (Beethoven ha 26 e poi 28 anni), appartiene al periodo
giovanile, a quello che si è soliti chiamare primo stile. Ma
in realtà mostra già tutti i caratteri non già del suo stile
tardo o terzo stile, bensì del suo modo di pensare la
composizione, che rimane lo stesso dall’inizio alla fine, come già
del resto riconosceva Liszt, furibondo per l’invenzione che il Lenz
avanzò di dividere l’opera beethoveniana in tre periodi distinti,
Vincent D’Indy parlerà addirittura di apprendistato, transizione e
maturità: la Patetica apprendistato! e l’Appassionata
o la Pastorale transizione!
Intanto sono già calcolate con precisione le proporzioni tra i tempi
e tra le parti di un tempo al suo interno. L’esposizione comprende
105 battute, che vanno raddoppiate a 210, perché alla fine ci sono i
puntini di replica. Il tema principale è esposto fino alla battuta
22, poi abbiamo una transizione o ponte modulante diviso in due
parti, una prima, battute 23-31, che liquida il tema principale, una
seconda, battute 32-55, che prepara il secondo tema, il quale copre
le battute 56-76. Dalla battuta 77 alla battuta 105 si liquida il
secondo tema e una coda, in cui riappare un inciso del primo tema,
chiude l’esposizione. Come si può osservare i due temi hanno
dimensioni pressoché uguali, 22 battute il primo, 21 il secondo. La
transizione è più ampia: 34 battute, suddivise però in una prima
parte di 10 battute e in una seconda di 24. La prima parte è però
all’ascolto intesa come conclusione del primo tema e la seconda,
per il suo carattere spiccatamente melodico, come avvio del secondo
tema, che si tratti invece di una transizione ce lo fa intendere
l’irrequietezza armonica. Di fatto, la transizione, con le sue 34
battute si propone come una sezione che controbilancia il peso dei
due temi. La sua seconda sezione, inoltre, sembra suggerire
l’apparire di un nuovo tema: è solo la fluidità armonica ad
avvertirci che il vero e proprio secondo tema deve ancora arrivare.
L’ambiguità non è casuale, né vuole depistare l’ascoltatore,
che anzi lo prepara al carattere mobile, perpetuamente variabile e
variato, di tutto il tempo. Ma qui si rivela subito un carattere
tipico del procedere di Beethoven: le parti secondarie, o di
transizione, non sono affatto secondarie nel senso scolastico del
termine (lo sono invece quanto alla loro dipendenza dalle idee
musicali precedenti che sviluppano o seguenti che introducono), ma
presentano già aspetti della variazione, dell’elaborazione
tematica, che costituiranno il nucleo dello sviluppo o si
riascolteranno con altra funzione nello sviluppo o addirittura
genereranno all’interno dello sviluppo idee, si starebbe per dire
veri e propri temi nuovi, mai ascoltati prima (come accade nello
sviluppo del primo tempo dell’Eroica). Questo modo di
procedere verrà da Beethoven adottato via via con sempre maggiore
frequenza, fino a condurlo a modellare un tema sempre in maniera
diversa, con un processo di variazione perpetua o di successione di
varianti dell’idea di partenza. Negli ultimi quartetti il
procedimento si estende addirittura da un quartetto all’altro,
quasi che i cinque quartetti, dall’op.127 all’op.135 formassero
un unico gigantesco monumento musicale (ma non è così per l’Arte
della Fuga o per l’Offerta musicale?). Ma che un simile
modo di scrivere lo si riscontri già in un’opera relativamente
giovanile è sintomatico dell’unità di pensiero che innerva tutta
l’opera di Beethoven.
La figura principale del primo tema è composta da due motivi
contrastanti, di lunghezza disuguale: 3 battute, la prima, 1 battuta
la seconda. Tale figura viene presentata due volte, la prima alla
tonica, la seconda alla dominante. Qui si chiuderebbe l’antecedente
del primo tema, ma il conseguente entra con una cesura assai brusca,
riproponendo di nuovo la tonica con una figurazione che sembra nuova,
ma è derivata dalla battuta singola dell’antecedente, solo che qui
si dispiega in un largo movimento cantabile che prosegue per otto
battute, alle quali succedono quattro battute assai contrastanti,
aggressive, di chiusura, e comincia la transizione, ma riproponendo
la figura iniziale del tema e riaffermando decisamente la tonica.
Pertanto il tema è composto di due sezioni contrastanti a loro volta
divise in due segmenti anch’essi contrastanti. L’articolazione
non potrebbe essere più capillare. Non solo: ma la figura d’apertura
spazia nell’ambito di una decima, do mi bemolle, e dunque propone
la terza minore che caratterizza la triade di do minore. Nel primo
movimento la terza non è un intervallo caratterizzante, costruito
com’è, tematicamente, piuttosto sulla dissonanza dell’appoggiatura
suggerita dalla figura di una battuta del tema principale (battuta
4), un intervallo di seconda minore. La terza, però, gioca un ruolo
preponderante nell’adagio successivo, e nella strutturazione
armonica generale della sonata, perciò Beethoven sembra anticiparlo
già nelle battute di apertura. Ma la terza gioca, tuttavia, un ruolo
anche nel primo tempo, e nella distribuzione dei piani armonici della
sonata, un ruolo non propriamente tematico, bensì, come si è detto,
armonico (tuttavia anche le relazioni armoniche tra i temi e tra i
tempi della sonata hanno un valore tematico). Dato che il ruolo della
dominante è liquidato ad abundantiam già nell’esposizione
del primo tema, Beethoven ricorre, per il secondo tema, ad una
tonalità alternativa, e non va molto lontano, perché ricorre al
relativo maggiore di do minore, mi bemolle, e dunque resta nel campo
d’azione di do minore, in più è proprio il mi bemolle ascoltato
all’inizio e che configura l’intervallo di terza minore con il do
dell’attacco: anche il tempo lento non va lontano, ma propone,
secondo la tradizione, una sottodominante, come spesso in Haydn e
quasi sempre in Mozart, ma non la sottodominante di do, fa, bensì
quella di mi bemolle, la bemolle, la sottodominate, cioè, del
relarivo maggiore di do minore, mi bemolle, che è anche la tonalità
del secondo tema. Si viene a giocare così ancora una volta
l’intervallo di terza: la triade la bemolle do mi bemolle viene
udita, nella successione dei temi e dei tempi bella successione di do
mi bemolle do (1° tempo) la bemolle (2° tempo) do (3° tempo), la
terza è pertanto l’intervallo generatore sia dell’impianto
tematico che di quello armonico di tutta la sonata. L’interesse,
infatti, sta nel fatto che la tonalità di mi bemolle maggiore sembra
configurata, e anticipata, già nella configurazione del tema, non
come tonalità, ma come l’intervallo di terza minore, sia pure
presentato nell’aspetto di decima, che è anche l’intervallo
della modulazione da do minore a mi bemolle maggiore, come se a
Beethoven interessasse preannunciare nel movimento melodico del tema
il movimento armonico dell’esposizione, equiparando di fatto la
struttura lineare melodica a quella verticale armonica del brano. Ma
poi, passando da un tempo all’altro, la discesa di una terza,
questa volta maggiore, da do a la bemolle, impianta la sottodominante
di mi bemolle, la bemolle, che è la tonalità dell’adagio,
e un nuovo salto di terza maggiore, da la bemolle a do, riconduce
alla tonica di do minore, ch’è la tonalità dell’ultimo tempo.
Tutto questo è azionato più di un secolo prima di Schoenberg. Ma
non si vuole affermare, qui, che Beethoven anticipi Schoenberg:
questa storia delle anticipazioni è una sciocchezza, nessuno
anticipa nessuno, più semplicemente quelli che vengono dopo
utilizzano le idee di quelli che sono venuti prima, non è vero che
Haydn in certe sonate e in certi trii sembra anticipare Schubert, è
Schubert che sviluppa e rielabora procedimenti che trova in Haydn.
Dobbiamo però correggere, o piuttosto aggiustare, un’affermazione
avanzata poco sopra sul ruolo secondario dell’intervallo di terza
minore, nella costruzione del primo tempo. Come s’è visto, esso
anticipa fin dall’inizio il percorso tonale del tempo, ed è
un’altra prova della complessità di funzioni che Beethoven affida
alla configurazione tematica (e s’insiste che ciò avviene già
nell’op. 10!). In tal senso la terza, se non appare come intervallo
caratterizzante dell’invenzione tematica (ma non fa parte del tema
anche la sua individuazione tonale e l’intervallo di terza minore,
do mi bemolle, non assolve forse la funzione di delimitare il campo
tonale di do minore?), certamente, però, alla luce di un’analisi
dettagliata del primo, come degli altri due tempi, la terza sembra
svolgere il ruolo di cellula generatrice, di matrice, tanto
dell’invenzione tematica che della condotta armonica: l’intervallo
dissonante di seconda, minore e maggiore, che pare invece
caratterizzare i profili melodici delle figure tematiche, soprattutto
nella sezione di transizione e nella coda, risulterebbe così
generato per opposizione proprio dalla consonanza della triade.
Insomma, Beethoven imposta uno spazio tonale definito dalla terza
minore sulla tonica di do minore, e poi v’inserisce all’interno
una successione di seconde che nel conseguente del primo tema copre
tutti i gradi della quinta discendente sol do, sotto forma di una
scala che scandisce, aumentato con valori raddoppiati e poi
quadruplicati l’impulso ritmico dell’inizio, sul modello della
figura ritmica della battuta 4. Ma non basta. L’intervallo di
terza delimita anche i rapporti tonali tra i tre tempi della sonata,
in quanto se l’adagio va alla sottodominante di mi bemolle,
la bemolle, ciò appariva già non solo prevedibile, ma auspicabile
dall’affermazione della tonalità di mi bemolle maggiore alla fine
dell’esposizione del primo tempo, dominante di la bemolle. Ora il
mi bemolle, che già tanta parte ha svolto nella costruzione del
primo tema, viene poi evocato nella chiusa del tempo dal rientro alla
terza inferiore do, come grado mediano della successione tonale di
tutto il tempo, che dunque percorre la successione do mi bemolle do,
di nuovo la terza proposta all’inizio del tempo, rispetto alla
quale l’alternanza I-V si presenta come un’articolazione interna
sia del primo che del secondo tema. E’ per questo che Beethoven
evita poi di riproporla nel contrasto tra i temi. Allora diventa del
tutto plausibile che il rientro di do minore, nell’ultimo tempo, si
offra come l’ascensione alla terza superiore da la bemolle, tonica
della dominante mi bemolle, così come l’apparire di la bemolle era
stato il risultato della discesa di una terza da do, e il circolo si
chiude. Ma ritorniamo all’esposizione del primo tempo.
Nel secondo tema la configurazione del primo è evocata da una parte
dalla spinta ascensionale, là arpeggi, qui scale, ma anche dalla
scansione ritmica degli arpeggi, che, aumentata, scandisce la testa
del secondo tema, nell’antecedente, e dall’altra allusa dalla
percussione giambica del conseguente, che è ricavata dalla
percussione della terza, mi bemolle, nella prima figura del primo
tema, terzo quarto della seconda battuta e primo della terza..
L’affinità tra la figura ascensionale degli arpeggi e delle scale
è poi alla fine evidenziata, nella riesposizione, dall trsformarsi
delle scale in arpeggi. Inoltre anche nel secondo tema, la figura
ritmica è un mi bemolle, che ora, però non è più la mediante,
bensì la tonica. Da osservare poi che già nel primo tema la figura
percussiva di due semiminime veniva ampliata nella figura di
semiminima + minima della quarta battuta. Una ricapitolazione della
testa del primo tema cui succede la sovrapposizione di una figura
derivata dalla quarta battuta con un basso che riecheggia la seconda
sezione della transizione tra i due temi conclude l’esposizione
svanendo p e riposandosi sulla tonica mi bemolle, di modo che
i suoni di do e di mi bemolle, che costituisco l’inizio e la fine
della prima figura dell’antecedente del primo tema (battute 1-3)
aprono e chiudono anche l’intera esposizione: nel campo di questa
terza, che è poi il campo tonale di do minore, si espandono e si
contrastano, come s’è visto, le tensioni dissonanti derivate
dall’appoggiatura della quarta battuta..
Qualche parola ancora sullo sviluppo, e poi si lascia al lettore il
piacere di proseguire l’analisi, magari facendosi anche guidare
dalle pagine che il Rufer dedica a questa sonata, rielaborando una
lezione di Schoenberg6.
Lo sviluppo si apre riproponendo in do maggiore il primo tema,
alternando I e V, do e sol, come nell’esposizione. Alla battuta 118
(senza contare la replica dell’esposizione), dopo due battute, che
riprendono lo scatto ritmico delle battute 28-30 che concludevano la
prima sezione della transizione, compare in fa minore (sottodominante
di do) un nuovo tema assai cantabile. Esso dura per ben 16 battute,
per dissolversi poi via via (battute 134-167), combinando la
figurazione melodica con quella ritmica percussiva, alternando
melodia e accordi tra le due mani, per risolversi infine, per 10
battute, in due serie di accordi discendenti che su un pedale di
dominante riconducono alla tonica di do minore, e da qui comincia la
riesposizione. La figura della duplice serie di accordi è ricavata
dalla figura delle battute 13-16 e sono un bellissimo esempio di
variante ampliata, così tipica di Beethoven. Ma il tema che appare
nuovo non è nuovo affatto, anche se appare piuttosto insolito
l’ampio respiro melodico, all’interno di una sezione, come quella
dello sviluppo, che dovrebbe apparire invece spezzettata e
armonicamente instabile. Il tema in realtà deriva dalle battute
33-36 della transizione dell’esposizione, qui trasformate nelle
battute 118-122, e dalle battute 56-59 del secondo tema, qui
sviluppate nelle battute 122-125. Come mai quest’improvvisa
apertura cantabile all’interno dello sviluppo? L’analisi
dell’intero tempo e del carattere dei suoi temi ce lo spiega
chiaramente: Beethoven ha voluto aprire una sorta di finestra (sì,
proprio come nei computer) all’interno di una sezione aperta (e
dunque un’altra finestra) dello sviluppo e ciò per contrapporre un
momento di dispiegamento a voce piena del canto alle
frastagliatissime sezioni dell’esposizione e della riesposizione.
Qualcosa di analogo ritorna nell’Andante della Quinta:
ma ingigantito. La forma del tempo è assunta da Haydn: due temi di
cui il secondo è già una variazione o una variante del primo, si
alternano in due serie parallele di variazioni. Ed è solo all’ultima
variazione che il primo, bellissimo, tema acquista tutta quanta la
sua aperta, meravigliosa vocalità, intonato dall’intera orchestra,
è come se tutto ciò che si era ascoltato prima fosse la
preparazione di questo sfogo, e ora che l’orchestra esplode
finalmente si udisse la vera e definitiva configurazione del tema.
Che cosa imparare da tutto ciò?
Intanto che la ricchezza, la fantasia dell’invenzione tematica
beethoveniana riposano su un paziente, continuo, faticoso esame degli
elementi costitutivi del tema, dall’analisi delle sue possibilità,
dalla sfida di condurlo a esiti impreveduti, inauditi, eppure in
realtà coerentissimi. Dall’altra parte che, come Mozart per le sue
spericolate avventure armoniche parte da campi tonali assai semplici,
raramente con più di tre accidenti in chiave, così Beethoven fa
scattare la propria invenzione partendo da cellule tematiche
semplici, un impulso ritmico elementare, un intervallo tutt’altro
che desueto, spesso i gradi della triade (Appassionata, Terzo
Concerto). La fantasia sta nell’arte di combinare, di
complicare con una consumata disciplina contrappuntistica ciò che
sembrerebbe il più semplice dei moduli omofonici. Nei quartetti, da
questo contrasto sa trarre spunti e sviluppi straordinari, talora
umoristici. Soprattutto negli ultimi quartetti, infatti, Beethoven
alterna assai spesso passi di assoluta omofonia a passi di elaborato
e intricato contrappunto e quasi sempre il contrappunto rielabora una
melodia che si era sentita enunciare dai quattro strumenti
all’unisono e pareva restia a qualsiasi rielaborazione
contrappuntistica.
2. Terza Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55, “Eroica”
“Le battute 3-6 | del 1° tempo | , insomma, non sono né un tema
per quanto riguarda la sostanza, né un’esposizione7
per quanto riguarda la funzione. Alla base del movimento non sta un
tema, bensì - secondo la nuova maniera di Beethoven - una
configurazione tematica. Nell’Eroica essa consta del
contrasto tra l’arpeggio della triade del motivo principale e il
movimento cromatico di semitono in cui devia, sorprendentemente, il
motivo principale alle battute 6-7: un contrasto che da un lato è
altrettanto elementare r d’altro lato altrettanto brusco di quello
tra triade e movimento per scale dell’op. 31 n.2”.
Carl Dahlhaus8
L’analisi della Terza Sinfonia “Eroica” prenderà in
esame quasi soltanto la costruzione ritmica del primo tempo e di
parte del terzo. Del secondo e del quarto indagherà invece gli
aspetti armonici e tematici (variazione, variante).
Fin dall’inizio Beethoven imposta un contrasto tra scansione
ternaria e binaria del tempo. Due accordi di mi bemolle maggiore
intonati da tutta l’orchestra, compresi i timpani, avviano la
musica. Essi occupano ciascuno il primo quarto di una battuta ¾. Ma
poiché non si ode altro, l’ascoltatore è portato a percepire la
scansione di un tempo binario. Alla terza battuta, però, il ritmo
ternario s’impone chiaramente, con il tema enunciato dai
violocelli, scandito sui gradi della triade di mi bemolle maggiore.
Il tema è curiosamente simile a quello dell’ouverture di
Bastien und Bastienne di Mozart, che Beethoven però non
poteva conoscere, perché non era stata ancora pubblicata la
partitura. Ma sui gradi di una triade non è difficile che i temi si
assomiglino. L’orginilatà tematica non era sentita ancora come un
compito, come lo sarà per i compositori romantici, che privilegiano
il profilo melodico del tema. In Beethoven l’elaborazione, la
combinazione, lo sviluppo, insomma tutto il lavoro del comporre,
contano assai più della riconoscibile originalità del profilo
melodico di un tema. Anche se proprio con Beethoven il tema comincia
ad acquistare una individualità che poi sarà ricercata, talora
ossessivamente, dai romantici. Ma l’individualità del tema
beethoveniano, s’è detto, non sta tanto nel suo profilo melodico
(anche), quanto nella tensione delle forze che agiscono al suo
interno: possono bastare cinque colpi di timpano sulla tonica, a
orchestra muta, a generare uno stato spasmodico di attesa (Concerto
per violino). Il carattere così individuale del tema dell’Inno
alla gioia è dovuto più alla sua scansione ritmica, che alla
configurazione melodica. Tra l’altro Beethoven ha inseguito per 30
anni l’individuazione del tema della gioia, e l’enunciazione
definitiva è la più scarna, la più semplice.
Il primo tempo dell’Eroica, insieme al primo tempo dell’op.
106, è tra i più vasti concepiti da Beethoven. Ma è anche tra
i più organici. Qualsiasi compositore, dopo un tale raggiungimento,
si sarebbe riposato sugli allori. Invece Beethoven, dopo la Terza,
volta pagina. E in maniera addirittura rischiosa, inoltrandosi in
territori per lui nuovi. L’elenco è sbalorditivo: Quarto
Concerto per pianoforte op. 58, Quartetti op. 59, Sinfonie
Quarta, Quinta e Sesta, rispettivamente op. 60,
67 e 68, Concerto per violino op. 61,
l’ouverture Coriolano op. 62, Sonata per violoncello e
pianoforte op.69. Il tutto nel giro di quattro anni, dal 1805,
l’anno della prima versione del Fidelio, al 1808. E non
sbalordisce tanto l’accumulo di capolavori, quanto la diversità di
ciascuna opera dalle altre. Che cos’ha in comunque l’op. 59
con l’op. 62 o la Quinta Sinfonia con la
Pastorale? Oltretutto il sistema di lavorare simultaneamente a
più composizioni fa supporre una disponibilità quasi demoniaca a
cambiare di punto in bianco registro. Ciò va detto per quanti ancora
si ostinano a ricercare corrispondenze biografiche nelle opera di
Beethoven. Certamente, ci sono. Ma non sono dirette e in ogni caso
all’atto di tradurre in musica le diverse sollecitazioni
intellettuali ed emotive, Beethoven le trasferisce su un piano
puramente musicale. E’ l’invenzione tematica, la condotta delle
parti, la strumentazione (anche sul pianoforte) a guidargli la mano,
e non la ricerca di una corrispondenza extramusicale. Intendiamoci,
le allusioni o il rinvio a contenuti non musicali nella musica di
Beethoven ci sono, qualcuno è documentato, qualcun altro perfino
confessato (ma diffidiamo di certe semplificazioni, strappate
dall’ottusa insistenza del povero Schindler), ma molte
corrispondenze biografiche o magari addirittura ideologiche, sono
pervicacemente taciute. E’ tuttavia caratteristico di Beethoven che
l’intento per così dire programmatico non gli prenda la mano, non
gli faccia perdere il senso della forma, quasi sempre infallibile, e
là dove l’impostazione formale può invece apparire
contraddittoria, irrisolta (primo tempo del Terzo Concerto per
pianoforte, Missa Solemnis, forse perfino il Finale
della Nona) ciò è dovuto alla ricerca di trovare nuovi
assetti formali, costruzioni non ancora tentate, piuttosto che a
mancanza di coerenza musicale9.
C’è spesso, se non quasi sempre, in Beethoven, un atto della
volontà che muove l’atto del comporre, un che di artificiosamente
volontaristico - sia detto senza biasimo, anzi! - nella sua sfida a
superare i limiti della forma e dello strumento che dovrebbe
realizzarla, la voce spinta all’urlo, lo strumento ai margini dei
suoi registri abituali, l’orchestra al punto di rottura, come
avverrà un secolo dopo con Mahler o con un certo Bartók (entrambi
idolatri di un culto beethoveniano). L’extramusicale, insomma,
entra prepotentemente nel mondo musicale di Beethoven, ma passando
per il collo della bottiglia dell’elaborazione squisitamente
musicale. Perciò anche quando canta le virtù civili, come nel
Fidelio, Beethoven non è mai retorico, e quando perora la
causa dei sentimenti, come nell’Appassionata, mai enfatico.
Il che non significa che non faccia ricorso a codici di persuasione
retorica e non utilizzi tutti i mezzi della captatio benevolentiae
che gli offriva una tradizione sedimentata in secoli di
codificazione delle formule musicali indicative in un affetto.
Ma vi ricorre appunto solo nell’ambito di una tradizione, solo come
ricorso a una convenzione accettata. Lontanissima da lui l’idea di
un’autonomia assoluta del linguaggio musicale, che sarà se mai
un’utopia romantica. Tutto il lavoro dell’ultimo Beethoven è
anzi teso a scavare i presupposti delle basi comuni, condivise, del
linguaggio musicale. Quanto di sconvolgente, di aspro, d’isolito
urta negli ultimi quartetti, nelle ultime sonate, nelle Variazioni
Diabelli, è proprio lo scendere alle radici del comporre, al
dato oggettivo dei meccanismi da cui nasce la musica. In parole
povere, alle radici della musica, così come Hölderlin e Goethe
scavano nel linguaggio della poesia fino a scoperchiarne le radici.
E’ il carattere umano, collettivo, del linguaggio che viene messo
in discussione: l’intervento del soggetto non è inteso a rivelare
chi sa quali occulte fantasie personali, ma anzi a snodare i vincoli
che rendono significativo il linguaggio, per Beethoven a denudare le
strutture basilari del comporre. In tal senso Beethoven è il primo
compositore che compone opere che riflettono sui meccanismi del
comporre, che mira sì a rendere espressiva, comunicativa un’opera,
con un’insistenza e un’efficacia fino allora inaudite, ma anche e
soprattutto a riflettere sugli strumenti tecnici che rendono l’opera
espressiva e comunicativa. Insomma se una comunità si riconosce nel
fatto di parlare una stessa lingua, che cosa rende comune quella
lingua a tutti quelli che la parlano, che cosa la rende adatta ad
assumersi la funzione di esplicitare la volontà di comunicare di
ogni singolo parlante di quella comunità? Per la musica, che cosa fa
riconoscere l’affinità d’intenti tra il compositore e i il suo
pubblico? e gli arcaismi della Missa Solemnis, a che
linguaggio fanno riferimento? o sono, come voleva Adorno, il sintomo
di un’impotenza? vale a dire l’impossibilità, per il
moderno, di credere universale la trascendenza di dio, e cioè di
credere che il senso della realtà risieda fuori della realtà o, più
esattamente, l’impossibilità di comunicare la trascendenza, di
parlarne? La grandezza di Beethoven starebbe allora nel fatto che
invece di mascherare, come faranno i compositori romantici, con una
falsa soggettività l’oggettività collettiva del sentimento
religioso, di fatto contrabbandando per espressione del sentimento
collettivo la retorica individuale del proprio desiderio di
sentimento collettivo, Beethoven invece ne denunci, anche a rischio
di mettere a nudo il proprio fallimento, l’inautenticità,
l’impraticabilità nel mondo moderno di un comune sentimento
religioso, e pertanto ne proclami l’oggettiva impossibilità, o
quanto meno l’impossibilità di pronunciarlo con un linguaggio
comune, che ricostruisse i presupposti di quello della tradizione
polifonica estinta. Il mondo dell’omofonia moderna (del consenso?
del conformismo? o, con parola attualissima, della globalizzazione,
vale a dire della notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere?)
ha estirpato dal proprio seno qualsiasi convenzione che non sia
quella autenticata da un soggetto (la privacy?), ma oggi l’unica
soggettività ammessa è appunto quella condivisa del Grande
Fratello, vale a dire quella dell’apparire. Sembra che Beethoven
l’avesse già presentito. Forse perfino sofferto, nella smania di
normalità, di conformità alle altrui opinioni che credeva di
leggere nel comportamento del nipote10.
Adorno parlerebbe di condizionamento borghese alla conformità
sociale. Ma le cose non sono così semplici. Ogni lettura sociologica
della musica finisce quasi sempre per occultare ciò che vorrebbe
denudare. Il rapporto tra un capolavoro e la società del tempo in
cui nasce non è così visibile da poter essere riconosciuto
dall’analisi delle condizioni in cui l’opera è nata e tanto meno
dall’analisi della struttura dell’opera: in ogni caso il giudizio
di valore è illegittimo, per questa via. La Nona non è un
capolavoro perché realizza musicalmente il sogno di libertà e di
fratellanza della Rivoluzione Francese, meglio di come di fatto
quella rivoluzione lo avesse realizzato, ma perché quel sogno si è
fatto musica assoluta, le cui leggi non sono quelle del sogno bensì
della musica. Al riguardo potrebbero illuminarci, più che le troppe
pagine adorniante sulla dialettica sociale che si riverbera nella
dialettica dell’opera d’arte, le scarne, ma densissime pagine che
Dahlhaus dedica al poema sinfonico11.
Di fatto, proprio la grande capacità di astrazione musicale permette
a Beethoven di veicolare idee e sentimenti che sembrerebbero
condannati a trovare espressione solo in opere di fastidiosa e
roboante enfasi, proprio la sua grande sapienza nella distribuzione
retorica delle parti gli permette di evitare la banalità della
retorica. Si è mai fatto caso che il Fidelio è l’unica
opera che inneggiando agli ideali di libertà e di giustizia non
risulti né enfatica né noiosamente tribunizia, ma anzi ci afferri
alla gola, ci commuova e ci comunichi la stessa passione di libertà
che l’ha generata?
Anche l’Eroica partecipa di questa passione12.
Del resto Beethoven lavora quasi simultaneamente a tutt’e due le
partiture (la prima versione del Fidelio, che s’intitola
Leonore, è del 1805, l’Eroica viene eseguita nel
1804). Il carattere “appassionato” della sinfonia si manifesta
subito con un’astrazione musicale: con la tensione ritmica generata
dalla scansione binaria all’interno di un tempo ternario. Fin dai
due accordi di apertura. Coprono entrambi il primo quarto di una
battuta di tre quarti, e sono seguiti entrambi da due pause di
semiminima. In tal modo l’ascoltatore percepisce una successione
netta di due accordi, ma restando per il resto le due battute vuote
di qualsiasi indicazione ritmica, la percezione è di due battiti, e
l’orecchio si predispone all’ascolto di un tempo binario.
Interessante il fatto che Beethoven abbia aggiunto i due accordi
iniziali quando la partitura della sinfonia era stata già
completata. Come se volesse depistare l’ascoltatore (ci sarebbe da
scrivere un libro sull’abilità di Beethoven nel guidare la
percezione dell’ascoltatore, con una acribia e una precisione che
farebbero pensare a un esperto conoscitore della psicologia della
percezione, ma questa disciplina allora non era nemmeno in mente
Dei). Qualcosa d’analogo farà più tardi, aggiungendo i due
bicordi introduttivi dell’Adagio sostenuto della Sonata
op.106. Anche lì un depistaggio, questa volta armonico: la, do
diesis, che farebbero prevedere un successivo mi, e dunque la triade
di la maggiore, mentre invece si rivelano come i gradi del primo
rivolto dell’accordo di fa diesis minore, che è appunto l’accordo
intonato subito dopo. Probabile che sia un’eco della suggestione
dell’attacco del Concerto per pinoforte in do minore K. 491
di Mozart, che già Beethoven aveva preso a modello del proprio
Concerto nella stessa tonalità. Ma mentre nell’opera
giovanile Beethoven riafferma, contro il procedere mozartiano, il
ruolo consolidante della dominante, ripetendo due volte la cadenza
V-I, sol-do, sol-do, qui lo riproduce esattamente: Mozart, do mi
bemolle la bemolle; Beethoven, la do diesis fa diesis, ma mentre in
Mozart l’attacco parte dalla tonica, facendo prevedere, dopo la
terza minore di do minore, deviando sul la bemolle, la tonalità
della sopradominante, perché anche il terzo accordo è un bicordo,
in Beethoven l’attaco parte dalla mediante (grado da lui
prediletto, come poi da Brahms), facendo subito prevedere il relativo
maggiore di fa diesis minore, tonalità che invece si rivela con la
triade completa al terzo accordo. In ogni caso il la sta in rapporto
di terza minore con fa diesis, e la tonalità maggiore evitata si
presenta dunque sempre privilegiando il rapporto di terza (ovvio che
il relativo maggiore sia in rapporto di terza, ma è particolare il
modo con cui Beethoven fa giocare questa terza, come si è visto nel
primo tempo dell’op 10). Il do diesis gioca a questo punto un ruolo
ambiguo, perché si trova da una parte una terza sopra il la, e se
Beethoven procedesse con un’altra terza, mi, avremmo la triade di
la maggiore, ma dall’altra è la dominante di fa diesis e, come
sempre in Beethoven, la dominante non allontana dalla tonalità
d’impianto, ma la ribadisce. Torniamo al primo tempo dell’Eroica.
Il ritmo ternario comincia subito alla terza battuta. Alla settima
battuta abbiamo una deviazione armonica sul do diesis, che sembra
preparare, insieme, sia i procedimenti armonici del tempo che la sua
ricerca di una tensione a tutti i livelli, melodico, armonico e
ritmico, l’idea che succede all’esposizione della configurazione
principale di ciò che potremmo considerare primo tema comincia
infatti sul secondo quarto della battuta (battute 45-55). Prima,
però, abbiamo sentito l’urto di una scansione binaria alle battute
25-35): pertanto l’accentuazione spostata di questa seconda idea
tematica (non è né un ponte né un secondo tema) è stata
preparata. E’ come se Beethoven individuasse via via i caratteri
del tema, come se il tema non fosse la triade arpeggiata di mi
bemolle, ma i due accordi introduttivi seguiti dalla triade, i
contrasti ritmici delle battute 25-34 (la battuta 35 ristabilisce il
tempo ternario) ora completati da quest’idea ritmicamente sbilenca.
Un’idea strappata alle battute 56-59 della Sinfonia n° 97 in do
maggiore di Haydn13
è il vero ponte alla seconda sezione dell’esposizione. In realtà
questa terza (o forse quarta) idea tematica è facilmente
riconducibile alla seconda e alla scansione binaria delle battute
23-34. Sfocia infatti dapprima in una serie di sforzati che battono
costantemente il secondo quarto, e infine, alle battute 128-131, in
una vistosa scansione binaria preparata, dalla battuta 123 alla
battuta 127, dalla percussione di due accordi dissonanti, che battono
regolarmente il secondo e terzo quarto della battuta. La sezione
dello sviluppo esaspera quanto enunciato nell’esposizione, fino al
parossismo delle battute 248-279. Prima era perfino comparso un nuovo
tema (battute 163 sgg.: in realtà facilmente riconducibile a
elementi già ascoltati nell’esposizione). Il procedimento non è
nuovo in Beethoven: lo abbiamo già riscontrato nel primo tempo
dell’op. 10. Sull’apparizione di un nuovo tema, o piuttosto di
una nuova melodia, all’interno della tormentatissima sezione dello
sviluppo, c’è da osservare che la sua funzione, apparentemente in
contraddizione con l’obbligo di una perpetua mobilità tonale e
ancor più di una frastagliata condotta tematica, è in realtà
quella di rammentare l’evoluzione dei temi, di distogliere la
memoria dall’idea che i temi siano dati una volta per tutte
nell’esposizione. La variazione perpetua del lavoro tematico non è
una caratteristica esclusiva del Beethoven tardo, ma un procedimento
costante del suo pensiero musicale, fin dalle opere giovanili, vedi
l’op.10 n° 1, in cui si riscontra l’analogo emergere d’un tema
nuovo all’interno dello sviluppo del primo tempo. Là il nuovo tema
svolge inoltre anche la funzione di offrire finalmente una melodia
cantabile all’interno di un tempo di sonata per l’epoca troppo
spezzetato tematicamente14.
Ma il punto è che lo spezzettamento è riscontrabile solo se ci si
ostina a far concidere l’invenzione tematica con il profilo
melodico del tema. Il profilo melodico invece non è che un aspetto
della configurazione tematica e spesso nemmeno il principale, almeno
rispetto al ritmo e alla condotta armonica. Acquista tuttavia il suo
peso decisivo se inquadrato nell’ambito dell’elaborazione
contrappuntistica del motivo di base, della cellula tematica
originaria. E sappiamo, per confessione dello stesso Beethoven, che a
un certo punto, dopo la crisi documentata dall’op. 27, la “nuova
via” prende corpo nell’op. 31 n° 2. Beethoven lavora ormai su
cellule astratte (negli ultimi quartetti la stessa cellula per tutti
e cinque), le quali cellule offrono la base sulla quale elaborare i
temi, o piuttosto le configurazioni tematiche complesse in continua
evoluzione. Nell’Eroica c’è un momento nel quale
l’evoluzione del tema si fa evidente ed è nell’attacco della
riesposizione, quando l’irruzione dei corni sembra un intervento
prematuro e dissonante. Invece l’effetto è voluto (Beethoven diede
dell’asino a chi glielo rimproverò, alla prima esecuzione):
condensa in un solo gesto tutta la tensione accumulatasi fino a quel
punto e ora sul punto di risolversi. Il miracolo è, se mai, che dopo
un tempo di sinfonia così nuovo e così riuscito, Beethoven volti
pagina, non scriva mai più niente di simile: compone infatti la
Quarta, la Quinta e la Sesta! Il tema assume
solo adesso il suo aspetto definitivo e illumina a ritroso tutto il
percorso del tempo. Beethoven non è il primo a configurare in tal
modo le avventure melodiche, armoniche e ritmiche di un tema. Molti
esempi si riscontrano nelle sinfonie, nei quartetti e nelle sonate di
Haydn e anche Mozart, che pure sembra conferire uno spicco maggiore
al profilo melodico dei temi, fa risultare integralmente nuovo tale
profilo quando lo immerge in un ambito armonico non ancora sfiorato
prima dalla configurazione tematica in cui si trova (per esempio,
all’inizio della sezione dello sviluppo, nella Sinfonia
“Jupiter”, il trasporto a mi bemolle maggiore dell’idea
“buffa” che forma, in sol maggiore, la coda dell’esposizione).
Il ritmo di trocheo che caratterizza la seconda idea tematica del
primo tempo (battute 46-56) genera anche il tema della Marcia
Funebre. Così come invece esplode nello Scherzo il
contrastato ritmo ternario del primo tempo: con una vitalità
dionisiaca che sembra anticipare il furore dello Scherzo della
Nona15.
L’ultimo tempo è costruito non a caso su un tema tratto dal
balletto Le creature di Prometeo. E riprende l’artificio di
variare prima il basso e poi il vero e proprio tema, già
sperimentato nelle Variazioni per pianoforte op. 35,
che sono il modello di questo Finale. Un altro modo per accentuare il
fatto che un tema non è costituito solo dal suo profilo melodico, ma
ingloba tutti gli elementi che lo compongono, e dunque anche il
basso. La via per le Variazioni su un valzer di Diabelli è
preparata. Le variazioni sul tema del balletto hanno la funzione di
rendere manifesto il significato ideologico della sinfonia. La
bellezza, la grandiosità, la novità della musica non deve, infatti,
farci dimenticare che il progetto, la costruzione e l’afflato
“eroico” della sinfonia deve molto alla musica programmatica
della Rivoluzione Francese16.
Come del resto per il Fidelio.
3. An die ferne
Geliebte.
Il 1816 - 1817 è un periodo di quasi silenzio. Solo due opere
importanti vedono la luce: il ciclo di Lieder An die ferne
Geliebte op. 98 e la Sonata in la maggiore op. 101. Ma
sono pagine assai significative. Aprono in qualche modo quello che
venne chiamato il terzo stile, ma è più appropriato chiamare
stile tardo. Giustamente osservano sia Adorno che Dahlhaus che
molti artisti nell’ultimo periodo della loro attività sembrano
scarnificare le proprie invenzioni, rinunciare alla superficie
levigata, accattivante, per andare all’osso dell’invenzione,
talora perfino senza mascherarne la difficoltà, l’asprezza, la
durezza. Si pensi all’ultimo Michelangelo. Beethoven procede a
un’affinamento dei procedimenti contrappuntistici e a una sorta
d’interiorizzazione dell’idea tematica di base, sempre più
astratta, come se l’opera fosse solo una delle possibili
realizzazioni dell’idea, tanto che in qualche caso, come negli
ultimi quartetti, la stessa idea si espande o si emana in opere
diverse.
Il ciclo di Lieder An di ferne Geliebte è, insieme alle
Variazioni in do minore op. 32, e poi alle ultime Bagatelle,
quanto di più vicino o di più simile alla musica romantica
Beethoven abbia composto. Delle Variazioni si vergognava. Non
gli piacevano. Non sono tra le sue cose migliori, è vero, ma
Beethoven era ingiusto con se stesso, condannandole. Può darsi che
fosse spinto a disprezzarle proprio per il grande successo che invece
riscossero, un po’ come faranno Brahms per le Danze ungheresi
e Ravel per il Bolero. Ma per il ciclo liederistico Beethoven
conservò sempre una grande predilezione. Probabilmente vi leggeva un
profondo riflesso della propria interiorità. Ed è così. Non tanto
per l’eventuale corrispondenza del pathos del ciclo con vicende
personali realmente vissute, quanto proprio per il clima interiore
che vi si respira. Beethoven, anche quando canta il proprio
sentimento lo canta sempre a nome di tutti gli uomini. E’ indubbio
che sia Schubert sia Schumann lo tennero a modello per i propri cicli
di Lieder, Schubert per Die schöne Müllerin e per Die
Winterreise, Schumann per il Liederkreis, per Frauenliebe
und Leben e per Dichterliebe. Ma il carattere del ciclo
beethoveniano è molto diverso, molto particolare, se mai più vicino
a Mahler e perfino a Wolf che a Schubert o Schumann. Tanto il ciclo,
che le Bagatelle e le Variazioni possono sembrare già
pagine romantiche, ma non lo sono. Non è romantico il furore
d’individualità che le percorre, l’idea di affidare alla
struttura astratta dell’opera e non agli effetti strumentali o
vocali il suo significato profondo. Non che i compositori romantici,
Schumann in testa, non strutturassero rigorosamente le loro opere, si
pensi al Carnaval e agli Studi sinfonici, ma laddove i
romantici costruiscono un universo in espansione, Beethoven imposta
un’architettura impenetrabile, monolitica: i temi si sviluppano e
si modificano all’interno dell’opera, ma le loro modificazioni
sono regolate dal piano generale. L’ultima modificazione illumina
la prima, ma il cerchio si chiude, e non è permesso uscirne. In tal
senso un’opera di Beethoven è sempre un’opera chiusa, conclusa.
Forse il compositore romantico che gli si avvicina di più, in tal
senso, è lo Chopin dei Preludi, e forse non solo quello. E’
vero che negli ultimi quartetti un’idea comune di base si
estrinseca in ciascun quartetto, ma cionondimeno ogni quartetto è
un’unità inconfondibiole. Fa eccezione la Grande Fuga, ma
perché essa è stata pensata non come pezzo a sé, bensì come
Finale dell’op. 130. Beethoven, dunque, anche nelle opere tarde non
rinuncia a strutturare unitariamente, capillarmente tutta la pagina,
a costruire insomma una macchina che funzioni da sé. E’
probabilmente questo il motivo per cui ricorre molto raramente alla
cosidetta forma Lied, così cara invece ai romantici. Gli doveva
sembrare puerile, meccanica, troppo poco strutturata. La base di ogni
sua costruzione resta quella della forma-sonata, vale a dire di un
meccanismo che genera la propria forma di volta in volta, ogni volta
diversamente. Anche in ciò Beethoven sembra anticipare il pensiero
musicale di certe avanguardie del Novecento. Ed è forma-sonata, per
Beethoven anche la variazione, anche la danza. O piuttosto: i
procedimenti della variazione e la spinta motoria della danza vengono
piegati a strutturarsi come sonata. Ciò gli è possibile perché non
ha nessuno schema di sonata. E’ anzi sonata proprio lo strutturarsi
della variazione e della danza. C’è già in Haydn il modello di
una simile concezione della forma-sonata. Particolarmente evidente
nel sistema di variazione adottato più volte da Haydn: quello di
alternare le variazioni di un tema minore e di un tema maggiore, in
cui però il secondo tema è già variazione del primo. Variante
beethoveniana di questo sistema sono le Variazioni op. 35 e il
Finale dell’Eroica. I Lieder di An die ferne
Geliebte ne sono un’altra variante.
Tutto il ciclo dei sei Lieder è programmato come un cerchio tonale
che torna su se stesso:
Mi b Sol La b La b Do Mi b
Quasi una forma a specchio, in realtà la successione tonale si
presenta come un’espansione del campo tonale di mi bemolle17.
Le tonalità sono tutte nel modo maggiore. Il sol del secondo Lied si
spiega come trasporto al modo maggiore della tonalità di sol minore,
relativo minore di si b, dominante di mi b. Beethoven ancora una
volta evita l’intonazione esplicita della dominante e preferisce un
percorso alternativo, che conduca a una tonalità imprevista. Ma i
rapporti con una dominante non sono evitati se si considerano le
relazioni tonali tra il primo e il terzo Lied e tra il quarto e il
sesto: Mi b La b La b Mi b. In rapporto di tonica e dominante stanno
anche il secondo e quinto Lied, in cui la tonica è intonata per
ultima, in modo da fare apparire il movimento alla tonica come un
movimento alla sottodominante: Sol Do. Tale appare anche il movimento
Mi b La b, che però si chiarisce quando s’inverte in La b Mi b. Al
solito, per Beethoven, la dominante ristabilisce la tonalità
d’impianto.
La geometria armonica si rispecchia nella geometria tematica dei
Lieder.
Il primo Lied, “Auf dem Hügel sitz ich, spähend”18,
Ziemlich langsam und mit Ausdruck19,
ripete cinque volte la stessa melodia al canto, mentre sotto il
pianoforte intona cinque diverse figurazioni di sostegno, via via
sempre più mosse e concitate. Il testo imposta la situazione
fondamentale del ciclo: l’amante siede su una collina e guardando
nel cielo pensa all’amata lontana. Alois Jeitteles non è un grande
poeta, ma Beethoven non cerca la grande poesia, chiede al poeta di
disegnare con chiarezza d’immagini alcune situazioni sentimentali:
il resto lo fa la musica. L’andamento sempre più concitato del
pianoforte rende bene l’ansia dell’amante verso l’amata
lontana, mentre la ripetizione sempre uguale della linea vocale, per
tutt’e cinque le strofe trasferisce nel canto l’ossessione di
un’idea fissa che ritorna nella mente dell’innamorato piena di
desiderio inappagato:
Weit bin ich von dir geschieden,
trennend liegen Berg und Tal
zwischen uns und unserm Frieden,
.
L’accordo di mi b maggiore che lo chiude viene spogliato della
dominante si bemolle e presentato tre volte con mi b al basso e sol
alla mano destra. Nel Lied successivo il mi b scende sul re e al sol
della destra si aggiunge un si naturale. Ecco sol
maggiore, la tonalità del secondo Lied, “Wo die Berge so blau aus
dem nebligen Grau schauen”21,
Ein wenig geschwinde22.
Poco Allegretto. Tre strofe intonate anch’esse, come
nel primo Lied, su un unico motivo, ma il motivo nella seconda
strofa, in do maggiore, è affidato al solo pianoforte, mentre la
voce si limita a riprodurne solo il ritmo sullla dominante sol.
Impressionante il carattere schubertiano di questo Lied, carattere
che divide con il secondo tempo della Sonata op. 90. E’ una
via che Beethoven sta per imbroccare prima di Schubert, quella
dell’espansione melodica del tema: ma gli esperimenti intrapresi,
grosso modo dall’op. 78 all’op. 96 e qui, nel ciclo di Lieder,
vengono subito riassorbiti nella complessa strutturazione armonica e
tematica a lui congeniali e questo rende il procedere di Beethoven
assai diverso da quello di Schubert, anche quando invece sembra
simile. In altri termini, Beethoven non perde mai di vista un centro
tonale unico, un punto centrale di riferimento, intorno al quale le
espansioni melodiche e le divagazioni armoniche restano subordinate,
e in tal senso la teoria armonica di Schoenberg coglie perfettamente
il fenomeno23.
Invece Schubert slitta pericolosamente in regioni via via più
lontane fino quasi a perdere di vista la tonica principale, restano
invece sempre distinte le funzioni modali, a caratterizzare i diversi
aspetti di un tema. Insomma: Beethoven è centripeto, Schubert
centrifugo. Ecco perché Schubert rappresentò per più di una
generazione di compositori romantici, da Schumann a Brahms, da
Chopin a Bruckner, da Mendelssohn a Wagner, l’ancora di salvezza
nel disordine cromatico delle loro invenzioni e il modello
alternativo a Beethoven, la cui compattezza armonica appariva a loro
troppo inflessibile e perciò li spaventava. A Beethoven comunque
l’esperienza del divagare melodico, appreso dal tardo Mozart, è
servito per saggiare la possibilità di enunciati melodici
apparentemente poco incisivi che entrino piano piano nella forma, la
costruiscano per così dire sottovoce, discretamente, senza gonfiare
le gote. E nascono alcuni incipit sublimi: l’op. 101, di cui ci
occuperemo tra poco, l’op. 109, 110, l’op. 131, la maggior parte
delle Bagatelle op. 119 e 126. Il testo, di tre strofe,
esprime il desiderio di seguire le nuvole per raggiungere l’amata:
“bei dir ewiglich sein!”, essere eternamente da te. Ed è questa
immobilità alla quale l’amante aspira, che la musica rende con il
movimento singhiozzante delle terzine. La seconda strofa è intonata
dal cantante solo sulla tonica Sol, divenuta però ora dominante di
Do maggiore. Con la terza strofa si torna a Sol maggiore.
Nel terzo Lied, “Leichte Segler in den Höhen”24,
Allegro assai, in la bemolle maggiore, l’amante chiede alle
nuvole, al ruscello, agli uccelli, al vento, di portare i suoi
sospiri all’amata. Cinque strofe intonate con respiro affannato
dalla voce su un movimento rapido di terzine, ma la terza, proprio in
mezzo, che tocca la tonalità di mi bemolle minore, modo minore della
tonica inziale e finale del ciclo, si distende su un movimento
regolare di semiminime. La quarta e la quinta strofa riprendono
l’andamento affannato delle prime due, crome alternate a pause di
croma, nella linea vocale, terzine agitate al pianoforte (anche qui
pare di sentire un’eco di analoghe terzine schubertiane).
Il quarto Lied, “Diese Wolken in den Höhen”25,
Nicht zu geschwinde, angenehm und mit
viel Empfindung 26,
anch’esso in la bemolle maggiore, comprende di nuovo tre strofe. Il
poeta vorrebbe raggiungere l’amata con le nubi, gli uccelli, i
venti che scherzano con i suoi riccioli. Una serie di mordenti e di
trilli agitano le singhiozzanti terzine del pianoforte nella prima
strofa in un cullante 6/8. Le altre due strofe si distendono quasi in
un ritmo di barcarola (le nuvole nel cielo, che nel terzo Lied il
poeta aveva chiamato “vele”?).
Due lunghi trilli del pianoforte, seguiti da altri trilli più brevi
(quattro) e da un vivace movimento di crome, la cui figurazione
deriva comunque dal motivo del primo Lied (su questo torneremo),
introducono al solare do maggiore del quinto Lied, “Es kehret der
Maien, es blühet di Au”27,
Vivace. Do maggiore come tonalità della rinascita,
dell’inizio, o della fine che si ricongiunge all’inizio. La
tonalità si trova una terza minore sotto la tonalità d’impianto
di tutto il ciclo ed è pertanto anche la tonica del relativo minore,
ma Beethoven ha progettato per il ciclo solo il modo maggiore, che
oltre tutto rende più evidente il rapporto di terza: la tonica
finale è la mediante del penultimo Lied, un’altra volta Beethoven
aggira il rapporto di tonica e dominante e a seconda di come si legge
la direzione è uno spostarsi sulla mediante o uno scendere nel
relativo minore. Il modo minore sarà toccato nella strofe centrale
del Lied, ma è mi bemolle, la tonica, non la terza inferiore, quasi
lo spettro inquietante, sotterraneo, dell’affermativo modo
maggiore. E’ uno strano segno che Beethoven comunica
all’ascoltatore: come l’incrinatura di una volontà che persegua
il bene agognato. C’è, infatti, un’aria campestre e festosa che
ricorda la Pastorale. Ma quell’improviso mi bemolle minore
sembra un ferita interiore che improvvisamente ricomincia a
sanguinare. Un ritardando prepara la lunga modulazione a mi
bemolle maggiore, partendo dal Tempo I (Vivace): e
prepara la situazione del distacco. Due volte: la prima alle parole
“Es kehrt der Maien, es blühet di Au,
Die Lüfte, sie wehen so milde, so lau.
Al terzo verso comincia il ritardando: “nur ich kann
nicht...”. La situazione si ripete alla strofa seguente:
“Wenn alles was liebet, der Frühling vereint,
Nur unserer Liebe kein Frühling erscheint,
Ma questa volta il ritardando comincia già al secondo verso,
alla parola Frühling, primavera, e l’ultimo verso viene
ripetuto tre volte, la terza rinforzato dall’affermazione ja:
“ja, all ihr Gewinnen”. Beethoven doveva sentire profondamente il
dolore di un distacco. Lo sentiva come qualcosa d’innaturale,
lacerante. Alcune delle sue pagine più tremende e più belle sono
legate al desiderio di ricongiungersi con chi si ama. Si pensi
all’ansia colma di angoscia con cui Leonore scruta, nel Fidelio,
il volto dei prigionieri per vedere se tra essi scorge quello del
marito. O quando ne riconosce la voce nella cisterna e in un momento
che Beethoven ha voluto senza musica, come se solo il silenzio
potesse essere il religioso commento del riconoscimento, alla domanda
di Rocco che le chiede se riconosca quella voce, Leonora risponde:
“Ja, sie dringt in die Tiefe des Herzens”30.
Nella Sonata in mi bemolle maggiore op. 81 a, Das Lebewohl - Les
adieux, che è dunque nella stessa tonalità del ciclo An die
ferne Geliebte, è sublimato, musicalmente, ma non solo, il
sentimento insopportabile del distacco. La cellula generatrice, tre
accordi che dal bicordo mi bemolle-sol, attraverso il bicordo si
bemolle-fa (dominante), conducono imprevedibilmente alla triade di do
minore (come l’arrivo a do, ma maggiore, nel ciclo), do (alla mano
sinistra) - sol - mi bemolle, è modellata sull’intonazione della
parola tedesca Lebewohl, addio, delle cui tre sillabe ciascuna
è soprascritta sui tre accordi: Le-, mi bemolle - sol; be-, si
bemolle - fa; whol, do - sol - mi bemolle. Ancora più interessante
il fatto che il profilo melodico dell’introduzione, Adagio,
sia costruito ad arco, anche se con intervalli più dilatati,
esattamente come il profilo melodico del motivo generatore del ciclo
di Lieder. La sonata, però, ha un esito felice, Das Wiedersehen -
Le retour, che il ciclo non prevede.
Il sesto Lied, “Nimm sie hin denn diese Lieder”31,
Andante con moto, cantabile, l’ultimo, in mi bemolle
maggiore, come il primo, fa ricomparire, anche, verso la fine, il suo
motivo d’apertura. Il ciclo ritorna su stesso. Ma riudito, il
motivo porta con sé tutte le tracce delle sue trasformazioni, si
sbriciola, si sgretola, per una fine apparentemente gioiosa, come
quasi sempre in Beethoven, ma che appare più come una speranza di
gioia che come una gioia conquistata. Nei taccuini, proprio in quegli
anni, Beethoven scrive: “Freude durch Leiden”, gioia attraverso i
dolori. Un ricordo di Werther e dell’amato Goethe? Non sappiamo.
Ma qualcosa va detto sul profilo di questo motivo e sulle sue
trasformazioni: tutto il ciclo infatti è costruito come una serie di
variazioni sui generis, che combinano la variazione con la
tecnica dell’elaborazione tematica, come se costituissero il
gigantesco sviluppo d’un’immaginaria sonata o piuttosto la sonata
stessa che ci presenta in ogni Lied una nuova faccia del tema, con
un’arte consumata delle varianti che fa già pensare ai sistemi
delle ultime sonate e degli ultimi quartetti e perfino alla tecnica
usata nelle Variazioni Diabelli. Tra il 1816 e il 1817
Beethoven non compone opere d’impegno, quasi solo lavori
occasionali. Salvo questo ciclo di Lieder e la bellissima Sonata
in la maggiore op. 101. Ma queste due opere costituiscono quasi
una svolta, nel senso che il pensiero musicale di Beethoven si fa
sempre più astratto e radicalizza la tendenza che pure era affiorata
fin dagli anni giovanili, vale a dire la tendeza a intellettualizare
l’atto del comporre, proprio nel momento in cui però il
compositore chiede all’ascoltatore una partecipazione emotiva
assoluta. Il fatto è che Beethoven non trucca le carte, non cerca di
affascinare o abbindolare l’ascoltatore con qualche fantasmagoria
musicale: vuole convincerlo, persuaderlo, anche con le arti della
retorica, si rivolge insieme al suo cuore e alla sua intelligenza.
Della sua intelligenza, anzi, ha un estremo bisogno: perché
all’ascoltatore Beethoven chiede prima di tutto di essere capito.
Perciò il pubblico al quale si rivolge è un pubblico di persone
intelligenti, le sue sfuriate più frequenti e più rabbiose
scoppiavano proprio quando qualcuno, tra quelli che gli erano più
vicini, il nipote compreso, non capiva che cosa avesse scritto. Come
quell’“Asini!” che gli eruppe dal petto quando gli dissero che
la Grande Fuga non era stata bene accolta. Nell’ultimo
periodo, proprio partendo dall’op. 98, una pagina intima quanto
altre mai, e dall’op. 101, però Beethoven sembra voler rinunciarsi
all’arte della persuasione, alla distribuzione retorica delle
perorazioni, per concentrarsi tutto sui procedimenti interni della
composizione, come se l’astratta cellula dell’evoluzione tematica
fosse il nudo cuore, lo spoglio pensiero in cui si racchiude il
segreto della musica e dunque, per lui, della vita. Ma non la cellula
emerge o deve avere valore, bensì la viva forma a cui dà concreta
figura. E’ come se chiedesse all’ascoltatore di entrare nel suo
laboratorio. Tutto ciò che vi accade, agni minimo atto, ogni minimo
gesto, sono pieni di significato.
Il motivo iniziale del ciclo ribatte tre volte la dominante si
bemolle, per poi raggiungere per gradi congiunti, una quarta sopra,
la tonica mi bemolle e scendere con un salto di sesta minore, sulla
mediante sol. Letta verticalmente, la successione profila il primo
rivolto della triade di mi bemolle maggiore. Ma la frase si chiude in
si bemolle maggiore, cioè alla dominante, che si rivela però subito
il punto per ritornare alla tonica (come poi nell’op. 130). Una
prima variante della testa del motivo è quindi, subito dopo,
introdotta: invece di ribattere il si bemolle, Beethoven fa adesso
intonare si bemolle - do, ma poi, invece di salire, ritorna sul si
bemolle che risolve, come un’appoggiatura, sul la naturale, scende
cromaticamente a la bemolle per risalire al si bemolle e rilanciare
un’altra appoggiatura, la bemolle - sol. Su questi due elementi: il
motivo d’apertura ad arco per gradi congiunti e la figura
dell’appoggiatura è costruito tutto il ciclo. Di Lied in Lied una
figura ritmica del Lied precedente o un intervallo che acquisti
improvviso risalto (per esempio il salto di sesta discendente
esaltato dal pianoforte tra una strofa e l’altra del primo Lied,
ricavato dalla testa del motivo vocale) generano la cellulla tematica
del Lied successivo. Il passaggio dal primo al secondo Lied è
evidentemente suggerito dalla figura di tre crome ascendenti per
grado congiunto da do a mi bemolle, nella seconda e terza battuta (il
mi bemolle è la nota di arrivo sul tempo forte della misura) del
primo Lied. Ma qui la figura viene isolata, e proprio la pausa che
irrompe tra una proposta e l’altra della figura conferisce
all’andamento del Lied il suo si direbbe tipico sapore
schubertiano. Tra il secondo e il terzo Lied è la figurazione di
terzine a costituire l’anello di congiunzione. E così via. E’
più bello scoprirlo, il segreto di questo laboratorio musicale, che
lasciarselo spiegare punto per punto. Queste note non vogliono
costituire un saggio completo di analisi, ma solo lo stimolo a
procedere da sé nel lavoro affascinante ed emozionate di analizzare
una pagina di Beethoven.
Sonata in la maggiore op. 101
“Nell’op. 101 il concetto di ‘tema’ è per così dire
integrato in quello di ‘melodia’, come se l’Allegretto ma non
troppo non fosse il primo, bensì il secondo movimento lento di una
sonata. D’altro canto proprio perché la cantabilità della voce
principale mette in pericolo il carattere di processo della sonata,
all’ ‘istanza contraria’ del cantabile, all’istanza estetica
e tecnica del fattore ‘subtematico’, spetta una funzione o
un’importanza che va ancora oltre quella acquistata nel ‘periodo
di transizione’, nell’op. 78 e nell’op. 81 a”.
Così Dahlhaus32.
Cerchiamo di approfondire. Il fattore subtematico, come lo
chiama Dahlhaus, è costruito dalla cellula di intervalli
caratteristici sui quali sono costruiti i temi. La cellula non è il
tema, ma la base, le fondamenta del tema. Un tema, una melodia si
caratterizzano per il loro ritmo, anche un movimento costante di
crome è un ritmo, Bach vi costruisce molti dei suoi mirabili
preludi. Invece una cellula tematica è una pulsione caratteristica o
un intervallo particolare: la quinta vuota e il giambo nel primo
tempo della Nona, associati in un unico impulso. Nell’op.
111 l’intervallo è la settima diminuita (e la quarta diminuita,
che ne costituisce una sorta di analogo, per contrazione), anche qui
associata al giambo. Ma tanto il tema che la cellula tematica da cui
deriva partono da un elemento più astratto, una successione di
intervalli, che costituisce lo scheletro, il diagramma sotterraneo di
tutta la composizione: nell’ultimo tempo della Jupiter di
Mozart la successione do re fa mi. E’ questo elemento che Dahlhaus
chiama fattore subtematico. Non si comprendono gli ultimi lavori di
Beethoven, non si entra per così dire nel suo laboratorio, se non si
tiene presente questo suo modo di procedere. Sembrerebbe che
Beethoven indietreggi alle radici del contrappunto, per approdare
alle origini della polifonia, all’Ars Nova francese, al
contrappunto matematico di Dufay, alle geometrie sonore di Ockeghem e
Josquin. Ma non è così. Non sappiamo oltretutto se li conoscesse.
Quanto gli serve lo trova già in Bach e in Haendel. Però non è un
indietreggiare. Lo sguardo all’indietro verso la tradizione dalla
quale si è nati è anche lo sguardo più lungo verso il futuro.
Beethoven non imita i suoi predecessori: ne studia il pensiero, ne
analizza i procedimenti. Haendel e Bach li sente suoi contemporanei,
per il solo fatto che i loro procedimenti possono ancora fecondare
nuovo pensiero musicale. Accade a lui ciò che era già accaduto al
Bach dell’Offerta Musicale e dell’Arte della fuga:
sembra contrastare il moderno, per ribadire la tradizione antica, e
di fatto scavalca la modernità effimera della moda per lanciarsi
nell’esplorazione di ciò che sarà molto dopo il vero moderno.
Indubbiamente Bach oppone i propri monumenti contrappuntistici a
quello che ritiene il facile melodizzare galante, vale a dire
la monodia accompagnata dell’opera italiana. C’è certo
l’orgoglio dell’artefice, il disprezzo del magister musices
per quei musicanti che gli sembrano nient’altro che superficiali
dilettanti. Ma c’è anche la consapevolezza, non solo del
compositore, bensì anche del luterano, che nel contrappunto risieda
la serietà della musica. Un simile atteggiamento non è estraneo a
Beethoven, che pure ha invece radici cattoliche. In Beethoven la
serietà della musica è sentita come imperativo morale. Nella pagina
non si possono truccare le carte, non si può mentire. L’integrità,
l’onestà intellettuale di Beethoven è tra le più assolute
dell’arte d’Occidente, se si pensa a un confronto si pensa a
Dante, a Michelangelo, a Rembrandt (olandese! come le sue origini), a
Cervantes. Ma in lui forse ancora più radicale. I deputati europei
che hanno scelto l’Inno alla Gioia come inno dell’Unione
non potevano scegliere simbolo più alto e più pertinente della
civiltà europea, la cui identità più profonda sta proprio
nell’ansia di universalità, di sfondamento delle barriere, di
assimilazione degli altri, si pensi al ruolo della musica degli
zingari nella musica spagnola e ungherese33,
in ogni caso: “seid umschlungen, Millionen”. Che Bach, comunque,
guardasse lontano è dimostrato dal fatto che solo con l’innesto
del contrappunto nell’impianto monodico dell’opera italiana si ha
l’esplosione dello stile che siamo abituati a chiamare classico.
Il primo a compiere l’innesto con estrema consapevolezza è Haydn,
a lungo, anzi forse per tutta la vita, il modello più amato da
Beethoven34.
L’innesto non avvenne senza contrasti, senza urti o stridori né
senza rischi. Il miracolo dell’equilibrio mozartiano resta appunto
un miracolo, e del resto anche la musica di Mozart è percorsa
sotterraneamente da squilibri e terremoti, che si avvertono alla
superficie sotto forma di esasperato cromatismo e di spericolate
dissonanze (Adagio della Sonata in la minore K. 310 o
Andante della Sonata in fa maggiore K. 533, col rondò
K. 494 ). Beethoven ritesse tutte le fila, fa i conti col
passato e col presente, rifonda da capo uno stile, col senso non già
di proporlo come definitivo, ma finale, ultimo35,
dal quale si può solo guardare avanti, e dal quale non si può
tornare indietro. Monodia e polifonia non incontrano affatto una
conciliazione, si scontrano. Ma è proprio in questo scontro che
entrambe sono sentite necessarie, anzi che è sentito necessario lo
scontro: lo scontro è la verità della musica in quella situazione,
mascherarlo, camuffarlo, ammorbidirlo, sarebbe mentire. Né la
melodia da sola, né il contrappunto, senza elaborazione tematica,
possono costituire una via di uscita. Se mai l’elemento unificante
viene riscontrato nella variazione. Variazione, variante,
elaborazione a poco a poco per Beethoven diventano un unico
procedimento e il contrappunto allora si presenta insieme come una
forma di variazione e di elaborazione. Proprio l’op. 101 ne è un
esempio mirabile. Nell’ultimo tempo, infatti, tutto lo spazio
dell’elaborazione o sviluppo è occupato da una fuga.
Ma da che cosa nasce l’impressione che quando comincia la sonata,
come scrive Dahlhaus, ci sembra di ascoltare non il primo tempo di
una sonata, ma il tempo moderato, cantabile, che segue al primo o
talvolta allo scherzo? Beethoven sfrutta fino in fondo l’abilità
acquisita con l’op. 78, l’op. 90, nell’impostare temi
cantabili. L’andamento pacato del tema rammenta certi attacchi
mozartiani: K. 332 in fa maggiore, K. 333 in si bemolle maggiore, K.
533 in fa maggiore. Il fattore subtematico lo troviamo subito
all’inizio, nella voce di contralto: mi, re diesis, re, do diesis,
si. La sua inversione offre il profilo tematico alla seconda idea. Il
ritmo sincopato delle battute 29-34, riproposto alle battute 37,
39-40, e ripreso nel passo analogo della riesposizione, è derivato
dal ritmo del primo tema, mutilo della testa. Tutto il brano del
resto è costruito attraverso minuziose corrispondenze. Il movimento
base, nel tempo di 6/8, è costituito dalla semiminima seguita dalla
croma, e tale ritmo innerva sia il primo che il secondo tema, al
punto che del secondo non se ne percepirebbe né il momento
dell’entrata né la differenza se il salto tonale a mi maggiore,
campo armonico della seconda sezione dell’esposizione, non venisse
preparato dalla variante ritmica del ritmo base, nella successione
sincopata di accordi delle battute 29-40. Tutto il carattere del
brano è bene espresso dalle indicazioni agogiche, in tedesco e in
italiano, poste all’inizio: “Etwas lebhaft und mit der innigsten
Empfindung36.
Allegretto, ma non troppo”.
Il movimento successivo, in fa maggiore, è un tempo di marcia, come
recita la doppia indicazione agogica, in tedesco e in italiano:
“Lebhaft, Marschmässig. Vivace alla marcia”. La tonalità di fa
maggiore si spiega come rapporto di tonica con una dominante do, che
però in quanto tonica è il relativo maggiore di la minore, modo
minore della tonica la, che nel modo maggiore è la tonalità della
sonata. Il giro sembra un po’ lungo, ma diventa comprensibile se
immaginiamo i campi armonici di la, do e fa in relazione tra loro. Il
percorso verrà infatti chiarito dal breve, ma sublime, tempo lento
che segue la marcia, il quale è nella tonalità di la minore. Il
ritmo base della marcia è una diminuzione del ritmo del primo tempo:
croma seguita da una semicroma. Innerva tutta la marcia. Nel trio
tale ritmo viene per così dire dilatato: semiminima puntata seguita
da due semicrome, a cui però fa seguito una successione di crome
avviata, alle battute 56-57, da una figura di semiminima puntata
seguita da una croma: occupa la prima metà della battuta 56 e tutta
intera, ripetuta due volte, la battuta 57. Le quartine di crome sono
una variante delle terzine di crome del primo tempo. La tonalità del
trio è nel regolare grado della dominante di fa, si bemolle. Il
fattore subtematico, per intero o a frammenti, nella forma originale
e nella sua inversione, percorre da cima a fondo tutta la marcia, e
si fa evidente, diventa quasi una figura tematica, soprattutto nel
trio, che d’altra parte per più versi si presenta come memoria
variata del primo tempo, anticipando così il riapparire tale e quale
del primo tema del primo tempo che, dopo l’intenso e riflessivo
respiro del tempo lento, precede l’irruzione vitalistica del
finale. Tutta la sonata del resto è costruita con una coerenza, una
fitta trama di corrispondenze che la rendono particolarmente
compatta, il che tuttavia non comprime, ma anzi esalta l’inesauribile
libertà dei procedimenti messi in atto: l’effetto di sorprendente
(alla lettera: che desta sorpresa) varietà che la sonata genera
nell’ascoltatore non è infatti in contraddizione con
l’inflessibile unità della concezione tematica in quanto la
varietà è generata non già dal dispiegarsi di idee diverse, ma dal
moltiplicarsi degli aspetti imprevedibili che assume l’idea
tematica fondamentale.
Ed ecco il sublime terzo movimento: “Langsam und sehnsuchtvoll.
Adagio, ma non troppo, con affetto”. La traduzione italiana, dello
stesso Beethoven, non rende bene il senso dell’espressione tedesca
sehnsuchtvoll: pieno di nostalgia. E anche il termine
nostalgia non rende bene il senso del termine tedesco, più complesso
del termine italiano, anche se di solito la parola Sehnsucht
si usa tradurla appunto con nostalgia. Se mai, è più vicina
al senso del termine tedesco la parola inglese longing.
Sehnsucht è parola composta dalle radici di due verbi:
sehnen, anelare, da cui il sostantivo Sehnen, brama,
desiderio, struggimento, e suchen, cercare. Quindi qualcosa
come ricerca dell’anelito, ansia di rivivere il proprio desiderio.
E’ parola assai cara ai tedeschi, infiamma tutto lo Sturm und
Drang, e percorre da cima a fondo tutto il romanticismo fino a
Wagner, che ne fa il tema centrale del Tristano, dove però il
sehnen e la Sehnsucht aspirano a un originario regno
della Notte, che è naturalmente la Morte. E’ probabile che la
pagina beethoveniana lo abbia guidato nell’invenzione di quel
terribile inno alla morte che è il Tristano, tutta percorsa
com’è la straordinaria partitura, a cominciare dal preludio,
di memorie beethoveniane: in particcolare dell’introduzione della
Patetica, dell’op. 101, appunto, e dell’Adagio
della Nona. Lo struggimento stürmisch e romantico
della Sehnsucht, veramente, lo ritroviamo ancora in Mahler, in
Berg, e perfino in Webern, oltre che nell’impossibile sogno del
Cavaliere della rosa e del Capriccio straussiani. Ma è
in Goethe, poeta amatissimo da Beethoven, che il termine acquista una
complessità non solo emotiva, bensì anche filosofica, dalle mille
facce, e viene quasi sempre associato alla passione, al soffrire, ma
anche alla rinuncia, alla sofferenza della rinuncia che instilla in
cuore il dolore del desiderio inappagato e inappagabile. E’ il
nocciolo del Werther, ma anche dell’Egmont, tragedia
per la quale Beethoven ha composto le musiche di scena, e soprattutto
intride da cima a fondo le pagine del Wilhelm Meister e il
personaggio di Mignon: “Nur wer die Sehnsucht kennt, weiss was ich
leide37”.
Lo stato d’animo che più si avvicina al concetto espresso dalla
parola tedesca Sehnsucht è bene individuato da Aristotele in
un suo trattatello famoso: è la malinconia, la meláine chóle,
la bile nera, che il filoso addita non come termine sentimentale,
bensì come termine medico, e come tale indica la sospensione della
psiche tra diverse disposizioni emotive e riflessive, lo stato
d’instabilità emotiva e intellettuale, che può precipitare
l’individuo nella pazzia, ma che tenuto sotto controllo è lo stato
ideale del filosofo e dell’artista. Tutti i filosofi e tutti gli
artisti, dice Aristotele, sono malinconici38.
Nel Rinascimento e nel Barocco la Malinconia diventa oggetto di
riflessione, di poesia e viene raffigurata dai pittori: la figura di
Amleto, ma anche di Don Chisciotte, e l’incisione del Dürer che
s’intitola appunto La Malinconia sono tra gli esempi più
alti di questa conversazione con la malinconia. Ebbene, l’intensità,
la voracità, la profondità di questo stato d’animo, la sua
terribile forza di verità, che ti mette a corpo a corpo con la vita,
con la morte, con te stesso, è la sostanza di questa sublime pagina
beethoveniana39,
del compositore che non si tira indietro, che non trucca le carte,
che guarda in faccia la verità, fosse anche la verità della morte.
L’ascoltatore sente spalancarsi sotto i piedi un abisso, che non è
l’enfatico abisso del nulla, o una retorica immagine poetica, ma
l’abisso di se stessi, Beethoven ti obbliga a guardarti dentro, a
vederti non come vorresti apparire, ma come sei. E’ una pagina
brevissima, appena 20 battute. Ed è costruita tutta quanta sulla
figura di un abbellimento: il gruppetto. Parte, in la minore (alla
fine capiremo perché), riproponendo il ritmo del primo tempo, ma
suddiviso binariamente invece che ternariamente, e in ciò si
riattacca alla marcia. Subito, però, al secondo quarto della prima
battuta di 2/4, s’inserisce la figura del gruppetto, che dalla
battuta 9 alla battuta 17 costituisce l’unica figura a condurre
avanti il brano, una ripresa variata del ritmo d’apertura conduce a
una cadenza leggerissima. derivata dalla figura del gruppetto, per
espansione melodica (il procedimento sarà ripreso da Bartók). La
cadenza sfocia nella ripresa del primo tema del primo tempo. E che ci
fa questo ritorno dell’inizio? Una sospensione alla seconda
battuta40
(una pausa di croma coronata) interrompe però il procedere del tema,
che si blocca un’altra volta sul primo quarto della quinta battuta,
la pausa coronata questa volta è del valore di una semiminima.
L’ultima figura, una terzina, si ripete stringendo, e
conduce a un lungo trillo sulla dominante di la, mi, sotto il quale
la sinistra batte il ritmo principale del tempo, altra trasformazione
del ritmo del primo tempo, della marcia e dell’Adagio. Come
sempre in Beethoven, soprattutto nel priodo tardo, il trillo ha una
funzione e un effetto liberatori, e costituirà inoltre parte della
costruzione tematica del tempo. Del resto il trillo assolve una
funzione liberatoria proprio perché invece di essere un ornamento ha
una funzione tematica, si pensi al trillo che attacca il soggetto
della fuga dell’op. 106. Ma prima di esaminare l’Allegro
finale, qualche parola ancora sull’Adagio. La tonalità di
la minore, oltre a legittimare il fa maggiore della marcia, svolge
anche la funzione di preparare il ritorno alla tonalità d’impianto
della sonata, la maggiore, in maniera soffice, delicata,
semplicemente alzando di un semitono la terza, procedimento che sarà
molto caro a Schubert e che a Beethoven evita il ricorso al troppo
enfatico ingresso con una settima di dominante. La tonica è già
annunciata dall’Adagio, ma nel modo minore. L’ascoltatore
è un’altra volta deviato. Perché l’accordo di apertura
dell’Adagio, come accadrà nell’Adagio dell’op.
106, sembra orientarlo verso un’altra direzione. Beethoven attacca,
infatti, il brano con l’accordo della dominante di la, mi, ma con
sol diesis al basso, (un’altra volta, in Beethoven, la dominante
ribadisce la tonica, non avvia ad altri gradi), tale accordo è
identico sia nel modo maggiore che in quello minore. Il sol diesis
grave, invece di risolvere sul la, e rivelarsi per quello che è, la
sua sensibile, devia sul si, che s’unisce al re della mano destra.
Poi, sul secondo quarto della battuta, scende al la e appare
finalmente la triade di la minore. La cadenza sembra ripetere a
specchio quest’andamento armonico. Ma questa volta per portarci
alla tonalità definitiva di la maggiore, la tonalità d’impianto
della sonata.
“Geschwind, doch nicht zu sehr, und mit
Entschlossenheit41.
Allegro“, scrive Beethoven sul lungo trillo di dominante. Il
ritmo deriva da quello della marcia. Ma ha il suo nucleo generatore
nel tema del primo tempo. Così come si presenta nel finale, se ne
ha una prefigurazione alle battute 20-28 del primo tempo.
Caratteristica del tema del finale è, come avverrà per il tema del
primo tempo dell’op. 111, la sua ambiguità: più che un tema,
sembra il soggetto di una fuga. Ciò deve preparare l’ascoltatore
ad aspettarsi un brano di fitta elaborazione contrappuntistica. Il
che di fatto avviene, ma chiarisce anche, d’altra parte, che il
carattere dell’intera sonata è contrappuntistico, nel senso che
l’esplicitarsi del contrappunto nel finale illumina a ritroso
quanta parte abbia avuto il contrappunto nella costruzione di tutti i
tempi della sonata. Non solo: anche un orecchio distratto coglie
l’affinità tra l’andamento sincopato delle battute 44-48 e gli
accordi che preparano l’ingresso di mi maggiore nel primo tempo.
Così come afferra la somiglianza della figura di tre crome alle
battute 50 e 52, e la figura predominante dei due temi del primo
tempo, compresa l’anacrusi delle battute 49 e 51. Nella battuta 51,
anzi, l’anacrusi è preceduta dal bicordo sul secondo ottavo, di
modo che tutta la successione delle battute 44-51 si presenta come
una sintesi dei caratteri principali del primo tempo. La seconda
sezione dell’esposizione, o secondo tema (ma distinguere i temi in
una sonata come questa non solo è vano esercizio scolastico, ma non
rende ragione dei reali processi messi in moto da Beethoven), trae il
proprio ritmo dalla marcia, ma poi il conseguente si distende sullo
stesso ritmo del tema di apertura, esposto in maniera più graziosa.
Ciò rende palese l’affinità tematica delle due sezioni. O meglio:
tutta la sonata consiste nel progressivo espandersi e trasformarsi di
un’idea tematica originaria, che non è detto sia quella che si
presenta per la prima volta, potrebbe essere questa sua apparizione
nel finale l’idea definitiva e compiuta verso la quale tende
l’intero lavoro del compositore. Il fattore subtematico, allora,
funzionerebbe da collante. Tale fattore in questa seconda sezione è
spudoratamente esibito alle battute 81-88, col ritmo della marcia.
Alla battuta 123 (236, se si considera la ripetizione
dell’esposizione) comincia lo sviluppo. Qui troviamo un’altra
sorpresa, tra le molte di questa sorprendente sonata. L’intera
sezione dello sviluppo è realizzata da una fuga che va dalla battuta
123 alla battuta 231. Beethoven ci ha abituato fin dalle opere
giovanili a sviluppi molto originali, in qualche maniera anomali, sia
dal punto di vista armonico che tematico. Ma qui supera se stesso: Lo
sviluppo non è una zona di libera e divagante elaborazione armonica
e tematica, bensì il punto di maggiore concentrazione del brano, il
momento in cui la forma della sonata si raddensa nella chiusura di
un’altra forma e l’accoglie, l’assimila, ne fa un momento
decisivo del proprio percorso. Ma si badi: non come brano staccato,
che la concluda: gli esempi abbondano in Haydn e in Mozart e nello
stesso Beethoven, prima dell’op. 101, per esempio nel terzo
Quartetto Razumovskij, op. 59 n. 3. Qui la fuga è la sezione
interna di un movimento della sonata. Che vuol dire? Cerchiamo di
dare una spiegazione, anche alla luce di quanto poi Beethoven andrà
componendo dopo l’op. 101.
Si è visto che Beethoven tende a privilegiare l’elaborazione
progressiva di un’idea tematica sulla determinazione chiara e
impostata già dall’inizio di uno o più temi, e ciò fin dalle
opere giovanili (è importante insistere su questo punto: il
cosiddetto stile tardo non è una novità, un fungo che appaia
all’improvviso, ma l’estremo sviluppo di un atteggiamento,
l’evidenziarsi di una tendenza più o meno latente fin dagli anni
giovanili). Ebbene, a un certo punto (abbastanza presto, a dire il
vero, si pensi all’op. 26, del 1801) la variazione gli appare il
veicolo principale o comunque il più duttile di questa concezione
nuova dell’elaborazione tematica. Ma poi gli pare anche troppo
meccanica, troppo semplicistica. Le variazioni dell’ultimo tempo
dell’Eroica segnano il passaggio a un’altra concezione. La
variazione è essa stesa elaborazione tematica e viceversa. Avviene
un corto circuito. Subentra l’idea di variante o, se si preferisce,
di libera variazione: le ultime tre variazioni dell’Arietta
dell’op.111 ne sono l’estrema sublimazione. Ovvio che
l’elaborazione contrappuntistica venga a inserirsi in questo
processo. E’ probabile che dal flusso di tante idee nuove Beethoven
si sentisse soffocare. Non nel senso psicologico, ma riguardo alla
scrittura, alle strategie del comporre, perché vede aprirsi una
costellazione illimitata di procedure, e poté forse sentirsi
spaventato dalle conseguenze che tali idee gli facevano intravedere.
Ribadisco una norma generale di lettura: un’opera non la si
comprende appieno, se si resta ancorati alla percezione dell’opera.
Certo, la percezione è importante, e ne va tenuto conto. Il primo a
tenerne conto è proprio il compositore. Ma poi c’è l’altra
faccia. Passare dall’altra parte. Investigare sulla genesi
dell’opera. Entrare nel laboratorio del compositore. In questo,
l’analisi ci è di ausilio prezioso, ma non unica, né decisiva.
Boulez sostiene che la comprensione di un’opera avviene
sovrapponendo il proprio labirinto emotivo e intelletuale al
labirinto emotivo e intellettuale di chi ha scritto l’opera42.
E’ un’idea affascinante. E con Beethoven funziona a meraviglia.
Proviamo a entrare in questi due labirinti: il nostro, di noi che
interroghiamo Beethoven, e quello di Beethoven, che dietro la
facciata dei suoi edifici sonori a sua volta c’interroga su chi
siamo e che cosa vogliamo. La fuga è una forma chiusa. Che vuol
dire, dunque, inserire una fuga nella sezione dello sviluppo ch’è
la sezione più aperta della sonata? Vuol dire una cosa
semplicissima: nessuna forma è chiusa, nessuna forma è data una
volta per tutte. L’Infinito di Leopardi è un sonetto anche
se non è un sonetto. Il suo spazio poetico è quello del sonetto.
Mancano le rime. E allora? La forma dell’Infinito non si
spiega se non in relazione alla forma chiusa del sonetto. Di più: il
suo senso, il suo significato, la concentrazione di idee e immagini,
sono il senso, il significato, la concentrazione di idee e immagini
di un sonetto. Non a caso è il momento della poesia leopardiana in
cui ci pare di vedere maggiormente in atto la stessa operazione con
cui più tardi Baudelaire apre il moderno: calarsi nella forma della
tradizione per dire, però, con una lingua in cui si mescolano
tradizione e presente, l’oggi. La lingua del momento era per
Beethoven l’elaborazione tematica nata dalla trasformazione
dell’invenzione tematica dell’opera buffa, che Haydn, Mozart e
lui stesso avevano modellato in materiale per la nuova musica
strumentale. Ma non gli bastava più. Come a Leopardi non bastava il
sonetto, che pure a Foscolo, per dire il moderno, era bastato, e
l’aveva espresso con un’intensità che ha un parallelo solo in
Goethe, il quale, comnque, come Leopardi, travalica le forme della
tradizione. Forse stiamo per cogliere il segreto di Beethoven.
L’idea, cioè, che il massimo di libertà coincide con il massimo
di rigore. Che idee, concetti, forme che il senso comune giudica
opposti sono le due facce della stessa cosa. La fuga è questa
libertà che si fa forma imbrigliata, ordine calcolato. Il senso
della sonata, la sua tensione tra la libertà dell’espansione
melodica, la rifrazione dei piani armonici e il severo controllo del
contrappunto acquistano qui, nel punto in cui la forma dovrebbe
incrinarsi, aprirsi, il punto di maggiore coesione. Beethoven farà
qualcosa di analogo nello sviluppo del primo tempo dell’op. 130: la
tensione dell’esposizione trova proprio nella sezione dello
sviluppo la liberazione melodica, il dispiegarsi cantabile di un
nuovo tema, che in realtà è la faccia aperta e distesa di quanto
prima appariva intricato e convulso. Già nell’op. 10 n.1 abbiamo
colto Beethoven nell’atto di dispiegare nuove idee tematiche
proprio nella sezione dello sviluppo, e rendere dunque stabile ciò
che per sua natura dovrebbe apparire instabile. Nell’Allegro
finale dell’op. 101 il senso di stabilità si coniuga, però, con
la tensione di una fitta elaborazione contrappuntistica. Ma questa
volta il contrappunto non insinua irrequietezze, sembra consolidare
le certezze raggiunte, o piuttosto fortificare il senso di pace, di
gioia, di dissidio risolto, che sembra costituire il nucleo poetico
di tutta la sonata. Il passo gioioso della riesposizione può così
condurre al magnifico trillo misurato, quartine di semicrome, che
sorregge, al basso, la progressiva dispersione dell’inciso tematico
per sfociare nei festosi accordi di tonica che chiudono il tempo.
Quartetto op. 130 in si bemolle maggiore.
Gli ultimi cinque quartetti, all’interno della serie dei quartetti,
costituiscono un gruppo a sé, così come le ultime cinque sonate
all’interno della serie delle sonate. Esistono perfino delle
corrispondenze, non tanto tematiche, quanto di procedimenti
compositivi, così come delle congruenze armoniche: la tonalità di
si bemolle maggiore, per esempio, in entrambi i gruppi è scelta come
campo armonico della sperimentazione più ardita, dal punto di vista
dell’elaborazione tematica, ma anche della più compatta coesione
strutturale: op. 106 e op. 130. Anche gli ultimi cinque quartetti,
come le ultime cinque sonate, sono preceduti da opere dal carattere
divagante, melodico, in cui Beethoven sembra scegliere la via che
sarà poi quella imbroccata da Schubert: op. 74 in mi bemolle
maggiore e op. 95 in fa minore (la tonalità della sonata op. 57,
la cosiddetta Appassionata, con la quale il quartetto ha
qualche parentela tematica, ma soprattutto di carattere espressivo)43.
E anche nei quartetti, come nelle sonate, Beethoven fa tesoro di
quell’espansione melodica, ch’era stata di Mozart,
miracolosamente ritrovata, sebbene per quanto riguarda i quartetti,
l’espasione melodica è raggiunta subito, già nell’op. 18, ma
soprattutto nel sublime trittico dell’op. 59, si pensi al
meraviglioso attacco del primo, in fa maggiore. Del resto,
probabilmente è il suono particolare degli strumenti ad arco che
spinge Beethoven a individuare in un’aperta cantabilità il
principale carattere dei temi affidati a questi strumenti. Vedi
soprattutto il concerto op. 61 in re maggiore per violino (nel
quale, però, l’espansione cantabile nasce da un impulso ritmico),
opera contigua d’altra parte ai quartetti op. 59, e la sonata
op. 69 in la maggiore (la stessa tonalità dell’op.101) per
violoncello e pianoforte. Le due opere che precedono quest’ultima
sonata sono, incredibilmente, le sinfonie quinta, op. 67,
e sesta, op.68, Pastorale, opere non solo diversissime
tra loro, ma contrastanti, soprattutto la quinta, tanto con il
carattere dell’op. 59 che dell’op. 61 che dell’op. 69. E’
indubbio pertanto che la scelta del campo armonico ha per Beethoven
una forza caratterizzante, nel senso che la tonalità d’impianto
prescelta guida l’invenzione tematica e perfino la strutturazione
dell’opera, il che del resto è congruente col fatto che per
Beethoven una tonalità constituisca un campo amonico dalle
molteplici ramificazioni. Sorprendeti da questo punto di vista le
affinità tra l’op. 106 e l’op 130. Entrambe le opere si aprono
con un primo tempo monumentale, sostituiscono lo scherzo, o comunque
il tempo di danza, con un tempo insieme conciso e visionario,
allucinato, tuttavia di tempo ternario nell’op 106, binario
nell’op.130 (ma nell’op. 130 la danza riappare sotto forma di
danza popolare, ingenua, si direbbe, ma non ingenua
come sarà poi nello spirito romantico, bensì in quel gusto arcadico
(come del resto anche la Pastorale) tipicamente illuministico,
improntato a un carattere semplice, naturale, leggero: alla
danza tedesca). Entrambe poi si concludono con una immensa,
titanica fuga. Che Beethoven poi, cedendo alle pressioni
dell’editore, la sostituisse con un nuovo finale, nulla toglie al
fatto che la concezione originaria prevedeva come conclusione del
quartetto una fuga. E Beethoven, con il nuovo finale, scrive un altro
capolavoro, che oltretutto illumina retrospettivamente con una luce
nuova, festosa, gioiosa, umoristica, l’intero quartetto. Ma se
Beethoven riesce a concludere lo stesso in maniera magnifica il
quartetto sostituendo un altro finale a quello originariamente
pensato e scritto, resta il fatto che lo fa controvoglia (che
meraviglie però produce Beethoven anche controvoglia! sembra quasi
che la stizza di dover cambiare il finale lo provochi a scrivere un
pezzo irridente, beffardo, amaramente scherzoso). In ogni caso la
Grande Fuga restò per lui sempre il vero finale del
quartetto. E a ragione: non tanto perché con il nuovo finale il
quartetto non funzioni (funziona anzi benissimo!), ma perché da sola
la Grande Fuga è come un frammeno strappato alle rovine di
qualche pagina dispersa, il frammento d’un fregio greco perduto, o
d’una poesia di Alceo. Le ragioni della sua struttura restano
campate in aria, in bilico sull’abisso di ciò che non c’è.
Certo si gode lo stesso: è bellissima (ma perché? l’adagio
sublime dell’op.106, da sé solo non è ugualmente godibile?). Non
sta qui il punto. E’ che un ascolto puramente edonistico di
un’opera di Beethoven la mutila, ne fa percipire solo la
superficie. Non che manchi in Beethoven, come livello della
percezione dell’opera, anche il piacere dell’ascolto, anzi talora
tale piacere è programmato dallo stesso compositore, in maniera
qualche volta perfino impudica: tanto per restare nell’ambito delle
opere qui esaminate, l’Adagio molto dell’op. 10 n. 1. I
livelli di ricezione, per Beethoven, come per qualunque grande
artista (ma il discorso in realtà vale per qualsiasi musica ben
fatta, anche per un canto popolare) sono molteplici. Il punto sta nel
fatto che in Beethoven i diversi livelli sono inestricabilmente e
indissolubilmente legati. Si potrebbe opporre che ciò è vero anche
per Mozart o per Rossini o per Wagner. Vero. Ma per Beethoven c’è
un elemento in più: il piacere dell’ascolto è volutamente
ottenuto proprio con l’intrecciarsi intricatissimo dei livelli
strutturali dell’opera. I confronti possibili potrebbero essere
indietro Bach e avanti, per quanto la cosa possa sembrare strana, la
Carmen di Bizet44.
Forse adesso si chiarisce il senso di quell’attributo ingenuo
sfuggito alla mia nervosa digitazione sulla tastiera del pc a
proposito del 4° tempo alla danza tedesca dell’op. 130. E’
un’ingenuità riflessa, di secondo grado, un come se del
sentimento, un guardare di traverso, un porsi di sguincio, che
all’ascolto non dà la cosa, ma il suo rispecchiamento consapevole
di essere solo un rispecchiamento, non la cosa, bensì la sua
immagine riflessa in uno specchio, lo specchio del comporre: in
parole povere, anche quando Beethoven finge (in realtà non finge
affatto, perché prende sul serio la finzione) l’ingenuità,
l’immediatezza, non c’è mai né l’una né l’altra, bensì il
loro rispecchiamento nel gesto compositivo. L’agire di Berg non è
diverso, la canzone viennese e il corale di Bach nel finale del
Concerto per violino. Ma: e Bartók? Chi sa perché
quando compone il suo primo quartetto ha presente come modello
proprio l’op. 130 di Beethoven. Uno degli equivoci maggiori nella
comprensione della musica di Bartók nasce sul senso e sul carattere
dell’assunzione (e spesso invenzione) di temi popolari. Come
se Bartók facesse folklore o scrivesse musica per una compagnia di
danzatori in abiti tradizionali ungheresi che si esibiscono per i
turisti. Et voilà: à vous l’ Hongrie.
Quando affermo che Beethoven è il primo dei compositori
contemporanei, o se non altro del novecento, non dico una boutade
o almeno non nel senso che l’affermazione vada presa come una
metafora, un calcare la mano: no, va presa sul serio, dice quello che
dice, Beethoven compone già nel modo come comporranno i compositori
del tardo ottocento e del primo novecento (ma mi spingerei più in
là: credo che la Seconda sonata per pianoforte di Boulez
debba molto al modello dell’op. 106 di Beethoven). E probabilmente
nel pieno dell’eruzione romantica c’è almeno un compositore che
coglie perfettamente, molto più di Wagner, il carattere
avveniristico della musica di Beethoven: Franz Liszt. Ma per
quest’aspetto rinvio il lettore alle bellissime pagine che Dahlhaus
dedica a Liszt nel suo libro sulla musica dell’ottocento45.
Il carattere riflesso, al quadrato, della semplicità (come poi il
primitivo di Stravinsky o l’ammiccamento galante di
certe pagine del periodo neoclassico. L’Ottava di Beethoven
conosce già tali atteggiamenti, e questo sono: atteggimenti) assume
insomma la pregnanza o, per così dire, il senso allusivo, che aveva
nella poesia del rinascimento la sprezzatura, l’artificio
che modifica la natura del verso o della prosa (ma in pittura c’è
qualcosa di analogo: Correggio, certi manieristi) al punto di
mostrarsi più naturale della natura stessa, il cui capolavoro è
l’Aminta del Tasso, ma se si vuole anche il Don
Chisciotte. Il naturale, il popolare, e quant’altro, insomma,
non sono mai il vero, bensì lo stile del vero. La terra
trema di Luchino Visconti è forse il più bel film del
neorealismo proprio perché non è affatto neorealista, non prende
sul serio la riproduzione della realtà, ma sì lo stile della
riproduzione della realtà. In tal senso il film non ha pochi
contatti con l’espressionismo tedesco, contatti che si faranno più
evidenti, anche per la pressione del soggetto affrontato, nel film La
caduta degli dei. Ma stiamo andando troppo lontano. Il confronto
tra generi, epoche, arti, artisti così diversi e lontani tra loro,
non nasce comunque da una voglia di assimilazione, di omologazione
delle arti a qualche modello contenutistico o di ipotesi psicologiche
sulle intenzioni dell’artista, si diverta la sociologia dell’arte
in queste sterili elucubrazioni, ciò che invece si vuole suggerire è
che le affinità tra un’epoca e un’altra, tra un compositore e un
altro, si possono riscontrare non già sulla superficie dello stile
(come facevano i meno avvertiti dei compositori neoclassici), ma nel
profondo della struttura di un’opera tra modi di strutturarla. Non
c’è niente in comunque tra l’Ars Nova francese e le
neoavanguardie del secondo dopoguerra del novecento: ma tra Machaut e
Boulez o Stockhausen è comune l’idea che un’opera si possa
preparare, programmare, progettare e quindi predefinire con una
griglia elaborata astrattamente a tavolino. Anche Beethoven è
ossessionato dalla volontà di conferire unità organica all’opera,
e anche lui ricorre a modelli astratti, ma per vie tematiche:
procedimento ignoto tanto a Machaut che, almeno in parte, alle
neoavanguardie, che addirittura ne facevano anzi un bersaglio
polemico (ma se riesce difficile individuare veri e propri temi, non
si può negare che esistano nelle loro composizioni altri elementi o
fattori che ne sostituiscono la funzione). Torniamo al’op. 130.
Guardiamo la distribuzione tonale dei movimenti.
La successione tonale è così concepita:
1. si bemolle maggiore 2. si bemolle minore 3. re bemolle maggiore 4.
sol maggiore 5. mi bemolle maggiore 6. si bemolle maggiore.
Tra primo e secondo movimento la tonica resta fissa, cambia il modo,
da maggiore a minore. Il terzo movimento è nel relativo maggiore del
secodo, ma è anche la mediante minore della tonalità d’impianto
del quartetto. Con il che viene chiamato in causa il rapporto di
terza, centrale nella struttura armonica di tutto il quartetto, ma
tipico un po’ di tutto Beethoven, in particolare nel periodo tardo
(cfr. op. 106, ma già op. 10), rapporto che entra in causa anche
negli slittamenti da un modo all’altro, dato che è la terza,
minore o maggiore, a decidere il modo46.
Il quarto intona nel modo maggiore la tonica del relativo minore
della tonalità d’impinato, sol, con un cambiamento, tra terzo e
quarto movimento, speculare al passaggio tra il primo e il secondo.
Un uguale slittamento dal modo minore a quello maggiore si ha con il
mi bemolle maggiore del quinto movimento, relativo maggiore di do
minore, di cui sol è la dominante, e come sempre in Beethoven la
dominante afferma la tonalità della sua tonica. Il che spiega il
ritorno a si bemolle, dominante di mi bemolle, nell’ultimo
novimento.
Se adottiamo il concetto schoenberghiano di regione, il campo
armonico del quartetto appare così stabilito:
Fa (dominante maggiore/minore)
|
||
Re (mediante maggiore/minore)
|
Si b (maggiore/minore)
|
Sol (tonica del relativo minore, in alternanza col modo maggiore)
|
Mi b (sottodominante maggiore/minore)
|
Do b/si (2° grado abbassato: sesta napoletana, sol b/fa #
|
Il primo tempo stabilisce già nell’impostazione tematica un
contrasto agogico: Adagio – Allegro. Potremmo in realtà
individuare nelle prime 24 battute, che stabiliscono tale contrasto,
una sorta d’introduzione, e in effetti tali battute hanno una
funzione introduttiva, ma non nel senso tradizionale di preparazione
dei temi che verranno esposti o del clima armonico del tempo, una
esposizione di tal senso, e magistrale, è quella della Quarta
Sinfonia47.
Già, però, le introduzioni dell’op. 13 e dell’op. 111, entrambe
in do minore, pur coprendo lo spazio formale di una vera e propria
introduzione, e per di più, cosa insolita, introduzione a un tempo
di modo minore, impongono all’ascoltatore idee circostanziate,
individuabili, da cui scaturiscono non solo i temi del tempo che
segue, ma addirittura le premesse della loro storia. Nella scala
cromatica discendente da si bemolle a sol, esposta dal primo violino,
troviamo l’idea subtematica dell’intero quartetto. Non è l’idea
tematica, si badi, il quartetto anzi pullula di molte idee
differenti. Ma è, come dire, la materia, lo sfondo, sul quale sono
costruite tutte le idee del quartetto, o per derivazione o per
associazione o per contrasto. Non è difficile riconoscerne la
matrice: il nome Bach. Trasportando infatti il semitono la bemolle
sol una terza sopra si avrà la successione si bemolle la naturale do
si naturale, appunto BACH. Su questi semitoni, diversamente giocati,
sottoposti a inversioni, e via dicendo, sono costruiti tutti e cinque
i quartetti. E’ Beethoven stesso a confessarlo, del resto,
scrivendo a Holz: “Caro amico, ho avuto un’altra ispirazione, ma
sarà per l’altro Quartetto ancora, il prossimo ha già troppi
movimenti”. L’“altro Quartetto” è l’op. 131, “il
prossimo” è il nostro op. 130. Ma il messaggio ci conferma che la
concezione dei cinque quartetti nasce da un’unica idea di fondo. Ma
ancora più sconvolgente si rivela all’analisi l’unità
programmatica di questo primo tempo. L’intero tempo è composto di
54 gruppi di battute, ogni gruppo l’unità minima differenziata, si
potrebbe chiamarlo inciso, ma non è la stessa cosa. La prima parte,
introduzione, esposizione, introduzione allo sviluppo, ne comprende
27, la seconda, sviluppo, riesposizione e coda, gli altri 27. Essi
sono così distribuiti48:
I
parte II parte
Introduzione 6 Sviluppo 6
Esposizione: Ripresa:
Prima
sezione principale 6 Prima sezione principale 6
Modulazione
e introduzione
Modulazione
e introduzione 3 Seconda sezione principale 3
Seconda
sezione principale 3 Seconda sezione principale 3
Prima
e seconda sezione di chiusura con 6 Prima e seconda sezione di 6
transizione chiusura
con transizione
Introduzione
allo sviluppo 3 Coda 3
L’intero tempo è dunque diviso in due parti di 27 gruppi ciascuna.
Ma sembra che Beethoven abbia cercato un equilibrio proporzionale
basato sul numero 3 (nelle Variazioni sul valzer di Diabelli
cercherà la sezione aurea). I gruppi si corrispondono perfettamente
nelle due parti. Ai 6 gruppi dell’introduzione, nella prima parte,
corrispondono i 6 dello sviluppo, nella seconda parte. Ai 3
dell’introduzione allo sviluppo i 3 della coda. In mezzo i 18
gruppi dell’esposizione e della ripresa. Pertanto l’intero tempo
appare diviso in 3 parti di 18 gruppi: la prima comprende
l’esposizione, la seconda la ripresa, e la terza è divisa tra
l’introduzione, l’introduzione allo sviluppo, lo sviluppo e la
coda. Ma ciascuna delle tre parti di 18 gruppi è a sua volta
suddivisa in due parti di 9 gruppi, ciascuna parte di 9 come segue:
l’esposizione in 2, una di 6 + 3 e l’altra di 3 + 6, la ripresa
ugualmente in 6 + 3 e 3 + 6, nella terza parte la prima metà in 6 +
3 (introduzione e introduzione allo sviluppo) e la seconda anche in 6
+ 3 (sviluppo e coda). Il centro cade esattamente tra l’introduzione
allo sviluppo e lo sviluppo, e dunque non ai due puntini di replica
dell’esposizione, ma 12 battute dopo, tra la battuta 103 e la
battuta 104. La parte che comprende i 18 gruppi dell’introduzione,
dell’introduzione allo sviluppo, dello sviluppo e della coda, è
divisa tra l’inizio, il mezzo e la fine del tempo e si
corrispondono perfettamente. Il senso di profondo equilibrio che
emana da questo pezzo nasce anche dalla perfetta calibratura delle
sue parti. Ma ancora più interessante risulta riscontrare quale
percorso armonico si compia nelle varie parti. Una prima sommaria
analisi individua quattro ambiti tonali (in realtà tre, col
ristabilimento della tonica di partenza) così distribuiti:
I II
Si
bemolle 6 6 Re
- 6
- 3
Sol
bemolle 3 3 Si bemolle
- 6
- 3
Ma tanto il sol bemolle dell’esposizione che il ritorno alla
tonalità d’impianto della ripresa sono preparati, il sol bemolle
da fa (dominante di si bemolle) e il si bemolle da re bemolle. Di
modo che l’intero quadro ruota da si bemolle a fa a sol bemolle a
re a re bemolle e infine di nuovo a si bemolle.
Anche in questo quartetto Beethoven cerca per il cosiddetto secondo
tema, o seconda sezione, un’alternativa alla dominante, che sarebbe
fa, e lo soccorre la sua propensione napoletana, innalzondosi di un
semitono al fa diesis, e trasformandolo, con scambio enarmonico, in
sol bemolle, il che gli permetterà nella seconda parte d’introdurre
l’ambito di re bemolle.
I II
Si
bemolle 6 6 Re
- 6
Fa 3 3 Re
bemolle
Sol
bemolle 3 3 Si bemolle
- 6
- 3
Nell’esposizione dell’introduzione e del primo tema, o piuttosto
prima sezione49,
viene ribadita ripetutamente l’alternanza di tonica e di dominante.
Ecco perché poi la dominante fa, per la seconda sezione, viene
sostituita da sol bemolle. Al solito, per Beethoven, la dominante
ribadisce la tonalità d’impianto, per uscire dal suo ambito
bisogna cercarne un altro, e quale migliore di quello della sesta
napoletana (alternativa alla prediletta terza)? Va solo aggiunto che,
dato che l’esposizione viene ripetuta due volte, anche dal punto di
vista esteriore, della prima impressione percettiva, il tempo è
diviso in tre parti. L’analisi della costruzione del tempo, a
questo punto, è lasciata al lettore. Con l’avvertenza che, se
vuole, e se è esperto di lingua tedesca, può trovarla dettagliata
nel citato numero di Musik-Konzepte.
Ma, prima di passare al secondo movimento, mi sia permessa una
digressione. L’ascoltatore ingenuo, ammesso che ce ne siano,
percepisce, ascoltando questo meraviglioso tempo di quartetto, due
impressioni contrastanti: da una parte un senso di irrequitudine
(ritmica, armonica, agogica) irrefrenabile, e dall’altra, alla
conclusione, un senso di inossidabile equilibrio, una tranquillità
spirituale che non si sa da che cosa nasca. Ebbene, sono vere
entrambe le impressioni. L’equilibrio, come s’è visto, è
cercato, voluto, costruito. Ma costruito con che cosa? Con un
materiale ritmicamente, armonicamente, melodicamente, agogicamente
discontinuo. Sta qui il segreto del laboratorio beethoveniano
(visionariamente affine a tanti compositori del xx secolo, o
piuttosto, dai compositori del xx secolo finalmente capito): che
l’armonia si raggiunge solo sfidando il caos. O, in altri termini,
che la razionalità non è soffocare, comprimere, l’irrazionale, ma
dargli una forma. Francamente, nessuno prima di lui l’aveva fatto:
né il divino Mozart, troppo preoccupato della forma per indagarne i
contenuti nascosti, né il tutt’altro che olimpico Haydn, che aveva
intuito la spaccatura, ma non aveva voluto guardarla. Beethoven vi
affonda dentro. E se ne assume il compito: dire che la spaccatura
c’è. Dopo di lui, nessuno di noi può più guardare il mondo con
sguardo innocente. Ecco perché, per dirla con Liszt, esistono
compositori che si ammirano e altri che si amano o si odiano.
Beethoven è di quelli che si amano o si odiano: ma amarlo richiede
l’operazione preliminarle di capirlo, e capirlo ci spoglia di tutte
le nostre false certezze. Mozart può illuderci, Haydn catturarci,
Beethoven ci chiede di confrontarci con la nostra coscienza. Ma il
gioco vale la candela: vi assicuro che come guida della coscienza è
superiore perfino al Virgilio della Commedia. Col quale
comunque ha più di un punto di contatto: nel senso che, come Dante,
ci obbliga a un confronto senza menzogne con noi stessi. La sua
ultima sinfonia insiste sul fatto che “alle Menschen werden
Bruder”, tutti gli uomini diventano fratelli: in un’epoca di
contrapposizioni (come la sua) e di reciproche sopraffazioni non è
poco.
L’idea, comunque, di questo primo tempo, non sta tanto nel
contrasto di due temi, quanto nel fatto che ciascun tema è costruito
su un contrasto. Da qui la distanza armonica, che da una parte cela
la somiglianza, dall’altra invece la esalta. Perché se si bemolle
e sol bemolle sono tonalità lontane (ma reciprocamente affini in un
campo armonico che non sia solo quello del circolo delle quinte),
proprio questa lontananza rende evidente la somiglianza della
strutturazione ritmica. E Beethoven è un mago del ritmo. Ma anche un
mago dell’invenzione tematica: tutta l’intera sezione dello
sviluppo è occupata da un tema nuovo: in realtà è facile derivarlo
da figure già presentate nell’esposizione, ma il punto non sta nel
fatto che la sua costruzione non interrompa la salda e omogenea
invenzione del tempo, bensì appunto nel fatto di apparire, di essere
udito come nuovo. Un’altra volta Beethoven, come già nell’Eroica,
smentisce coloro che pretendono di ricavere proprio dalla sua opera
regole sulla costruzione della sonata: proprio quando ci si
aspetterebbe di udire una fitta rielaborazione dei temi esposti, ecco
invece che Beethoven, con un gioco di prestigio, tira fuori dal
cappello un tema vestito a nuovo. Perché lo fa? Per sorprendere
l’ascoltatore? In realtà il proposito è un altro (anche se
comunque l’effetto sorpresa, in un quartetto che è tutto una serie
di sorprese, è calcolato): si tenga conto che per Beethoven un tema
è una figura instabile, in movimento, che fa spesso agire al suo
interno, come in questo stupendo primo tempo, una grande tensione, ed
entra inoltre in tensione anche con le altre figure tematiche del
tempo. Ora, sulla tensione interna di ciascun tema e sui contrasti
dei temi tra di loro, Beethoven ha molto insistito per tutta la
durata dell’esposizione, addirittura contrapponendo due movimenti
agogici contrastanti, Adagio – Allegro, all’interno
di un singolo tema. E allora la sezione dello sviluppo metterà in
moto un altro tipo di tensione, presentandosi non già come l’area
più movimentata, bensì come la zona apparentemente più tranquilla
del tempo. Ma un andamento tranquillo in Beethoven cela sempre un
altro tipo di tensione, che non sia quella ritmica o armonica.
Intanto è già un bel contrasto che dopo tanta agitazione ritmica e
armonica subentri una sezione relativamente calma. Ma si tratta poi
veramente di un momento di calma? La programmazione del tempo,
delle durate d’ascolto, in questo quartetto, è semplicemente
magistrale: ed è proprio a questo che pensa Beethoven, alla
scansione dei tempi tematici, vale a dire all’articolazione dei
pensieri musicali. Si tocca con mano, anzi con l’orecchio, quanto
la musica sia diventata nelle sua mani intellettuale, una forma di
pensare. Non che Bach o Mozart non siano anch’essi compositori che
pensano, soprattutto il primo (ma anche Mozart non scherza!), ma il
punto è che in Beethoven la musica s’impone di per sé come
pensiero, come atto del pensare, ed è per questo che può proclamare
messaggi. Ritornando allo sviluppo di questo primo tempo, l’ascolto
coglie un’effusione cantabile nuova, e ci azzecca, perché qui
appare, con evidenza, il nucleo da cui poi nascerà la Cavatina,
che comunque deriva dalla figura del primo violino, all’inizio del
tempo. Il ritmo si fa cullante. E, pima il violoncello, poi il primo
violino, intonano una dolcissima e struggente melodia, dapprima in
sol maggiore, poi in do minore. Bemollizzandone la sensibile
Beethoven ritorna a si bemolle maggiore e attacca la ripresa.
Veniamo al secondo movimento. Beethoven lascia immutata la tonica, ma
cambia il modo (Schubert avrebbe fatto lo stesso). Ma la tonalità di
si bemolle minore si giustifica anche come lontana proiezione del re
bemolle maggiore del primo tempo. Le relazioni armoniche tra i vari
tempi di una sonata o di un quartetto di Beethoven sono complesse. In
ogni caso, questo Presto è uno dei pezzi più allucinati mai
scritti non solo da Beethoven. Intricatissimo il legame ritmico tra i
quattro strumenti. Di fatto ogni strumento ha un ritmo diverso. Il
ritmo che risulta all’ascoltatore è la combinazione di questi
quattro ritmi diversi. Ed è sconvolgente. Un secolo prima di
Stravinsky. Se insisto su queste anticipazioni, non è naturalmente
per mettere in risalto la fantasia visionaria di Beethoven, ma al
contrario per individuare nella sua musica una delle matrici della
musica del novecento. Ma già nella seconda sezione, dalla battuta
17, senza contare le repliche, il ritmo muta configurazione e si fa
ritmo binario con suddivione ternaria (da 2/2 a 6/4). E questa volta
scandito insieme dai quattro strumenti. L’alternaza dei due ritmi,
e di poliritmia polifonica e omoritmia monodica, caratterizza
l’intero tempo.
Arriviamo così all’apparentemente scherzoso Andante con moto ma
non troppo, in re bemolle maggiore (ancora!), ma con un’ambigua
partenza in cui compare dapprima un si doppio bemolle e poi un la
naturale, quasi a proseguire il si bemolle minore del tempo
precedente. Poi il brano si assesta su un tranquillo la bemolle
maggiore, e ritorna al re bemolle. Sono variazioni molto abili e
molto nascoste. Come se Beethoven volesse mascherare che il tempo è
una successione di variazioni. Ma si fa evidente d’altra parte che
la variazione è solo una tra le tante possibili elaborazioni di un
tema. Anche qui, il novecento incombe: Mahler, per esempio, primo
tempo della Nona, guarda caso anch’esso un Andante, e
anch’esso costruito sull’intervallo di seconda maggiore/minore.
Intervallo caratterizzante del quartetto beethoveniano, come della
sinfonia mahleriana. Del resto non è un mistero che Mahler
riflettesse sui quartetti di Beethoven, e se ne portasse sempre
dietro le partiture. Pensate un po’: tre tra i massimi compositori
del novecento, Mahler, Schoenberg e Bartók, confessano di ispirarsi
al modello di Beethoven, e in particolare, ai suoi quartetti, e
dunque che dubbio più che proprio in Beethoven debba in dividuarsi
la matrice del pensiero musicale contemporaneo?
Con un salto, che è tipico del suo pensiero ellittico, Beethoven ci
trasporta, nel quarto tempo, da re bemolle maggiore/si bemolle
minore/la bemolle maggiore a sol maggiore. Nella regione di si
bemolle maggiore, sol è la tonica del relativo minore. Ma qui, dopo
re bemolle maggiore/si bemolle minore, si presenta come tonica
maggiore. Armonicamente è una vera e propria Aufklärung,
illuminazione, ma lo è ancora di più ritmicamente. Lo scherzo
ternario che era mancato all’appello, sostituito dal visionario si
bemolle minore del secondo tempo, eccolo qua, ma ridotto alla
facilità d’un trio popolare, come quello del trio del
minuetto della sinfonia in mi bemolle di Mozart, solo
che in questo caso il trio è l’intero movimento. La capacità di
Beethoven di giocare con le forme e di trasformarne il significato
raggiunge qui uno dei suoi culmini. La scherzosità della
danza infatti è apparente. Ecco apparire subito dopo la Cavatina,
a smentirla.
In mi bemolle maggiore, precede il si bemolle (dominante) della
Grande fuga o del secondo Finale. Prima osservazione:
per tutta la durata del tempo Beethoven non sale mai al di sopra del
la bemolle del taglio addizionale della chiave di violino né sotto
il do dei due tagli addizionali nella chiave di basso del
violoncello. Limitazione che ricorda il Clavicembalo ben
temperato. Ma non è a Bach che pensa Beethoven. Quanto piuttosto
all’esplosione di una tensione all’interno di uno spazio
limitato. E’ un tempo mirabile che procede per successive varianti
dell’idea di partenza (di nuovo l’idea della variazione, come
fondamento dell’elaborazione tematica) fino alla sua ripresa
abbreviata alla fine, di modo che invece di una successione di
varianti l’orecchio percepisce una andamento A B A. La finezza
degli equilibri cantabili è straordinaria: il disegno del
violoncello nasce dall’inversione del disegno del violino
nell’introduzione del primo tempo, la figura ritmica del primo
violino, e il salto di sesta, sono una contrazione dell’impulso
ritmico della prima sezione dell’allegro del primo tempo, ed
egualmente derivati da figure del primo tempo sono i disegni del
secondo violino e della viola. Ma l’intensità esplosiva del
movimento sta nell’accumulazione contrappuntistica del canto: ogni
strumento ha un suo percorso melodico autonomo, ma la melodia
cantabile che ne risulta sembra un unico lineare continuo. In
tal senso il contrappunto melodico della Cavatina fa da degna
controparte del contrappunto ritmico del Presto, la loro
stessa posizione, nell’ordine dei tempi, secondo e quinto tempo, ne
esalta specularmente l’affinità di concezione e la funzione di
scatenamento delle pulsioni ritmiche del primo tempo, per il secondo
(non a caso impostato sulla stessa tonica) e di preparazione
riflessiva al finale, per il quinto.
Si arriva così al finale. Quale?
Naturalmente Beethoven pensava alla fuga, della quale già si è
detto. E’ un degno, gigantesco coronamento di un’opera
monumentale. Sono state scritte tante pagine su questo pezzo, che non
è il caso di aggiungere altro a quanto già detto, e splendidamente,
da Adorno, Cooper, Dahlhaus. Ma qualche parola va invece spesa per il
finale che ha finito col sostituire la fuga. Non è vero che appare
di tono minore, rispetto alla monumentalità del quartetto. Il ritmo
saltellante dell’avvio è evidentemente preso dal primo tema del
primo tempo e dunque il pezzo si collega bene al resto del quartetto,
dato che proprio nelle prime idee del primo tempo si trovano le
cellule generatrici dell’intera invenzione musicale del quartetto.
Ma c’è un altro aspetto, assai importante, da considerare. Se la
Cavatina appare speculare al Presto, il nuovo finale
rinvia alla danza tedesca, sbilanciando così il peso del
quartetto su un tono leggero, ironico, scherzoso. La fuga ingloba
tutto il percorso del quartetto bruciandolo in una incandescenza
ritmica e armonica che ne fa straripare le tensioni: non è un pezzo
tragico, ma sì un pezzo teso. Del resto anche l’Inno alla Gioia
è un pezzo pieno di tensione. La conquista della felicità non è
una grazia divina, per Beethoven. E nel caso della fuga la felicità
è tutta d’ordine intelletuale: di dominio di una materia complessa
e difficile, nella quale le tensioni alla fine si placano perché
vengono fatte esplodere. L’Allegro aggiunto come nuovo
Finale dichiara da subito il suo carattere giocoso e a questo
punto proietta la sua luminosità all’indietro su tutto il
quartetto. In musica il dopo è sempre conseguenza di un prima, anche
quando di fatto non lo è, perché l’ultima impressione è quella
che decide il senso di ciò che si è ascoltato. Beethoven lo sa
perfettamente, è anzi un maestro di strategie temporali, forse come
nessun altro. Non è escluso, come si è già detto, che il tono
scherzoso di questo finale gli sia venuto anche per stizza, per il
gusto di vendicarsi di chi aveva storto il naso davanti alla fuga e
costituisca pertanto una risposta ironica alle orecchie che non
avevano gradito la fuga (Beethoven diventava furibondo quando
qualcuno fraintendeva le sue intenzioni musicali, ne sa qualcosa il
povero Ries, che si vide tolto a lungo il saluto solo per avere
timidamente osservato che a suo avviso i corni, nella ripresa del
primo tempo dell’Eroica, avevano anticipato l’entrata:
Beethoven lo fissò furioso, era un effetto voluto!). Ma quest’ironia
si proietta allora all’indietro su tutto il quartetto e invece di
tranquillizzare l’ascoltatore gli fa percepire l’opera sotto una
luce sinistra. Un tono dichiaratamente sinistro ha del resto il
finale dell’op. 131. Ma qui, nell’apparentemente sereno quartetto
op. 130? La felicità inventiva del primo tempo, l’ansia ritmica
del secondo, la grazia quasi settecentesca del terzo, l’innocenza
del quarto, il turbamento del quinto trovano la loro spiegazione in
un sorriso che vede fuggire il tempo, in una danza che può anche
essere gioiosa, ma è pur sempre la danza che conclude, che conduce a
una fine. Beethoven ci ha squarnato per cinque tempi le facce
multiformi del tempo, che sono anche le facce della vita, di tutto
quel turbinare non resta nella memoria alla fine che il puro danzare
(un ricordo della Settima? Anche lì, all’interno di un
tumuto gioioso si apre l’abisso, si direbbe, baudelaireanamente, lo
spleen dell’allegretto, e la tensione morale è forte
quanto in Baudelaire). Il pensiero musicale di Beethoven conosce
questo sguaedo retrospettivo, questa malinconia che guarda il tempo
perduto, il paradiso lontano, o perché passato o perché utopia, ne
è tutta intrisa una sinfonia come l’Ottava. Ma c’è anche
l’ultima variazione Diabelli o il ritorno del tema nelle
variazioni dell’op. 109. Ci sono le ultime, splendide, Bagattelle.
Quanto alle Variazioni su un valzer di Diabelli, vedremo che
posto occupano nel pensiero musicale di Beethoven. Intanto, impariamo
questo: se il senso di una musica sta nel suo percorso, il percorso
sempre così incidentato e fitto di richiami, ricordi, allusioni,
della musica di Beethoven sembra indicarci un salto di valore
rispetto alla musica precedente: come se la musica, nel momento in
cui si pone, si facesse carico della storia che l’ha preceduta, e
non solo storia personale del compositore, ma storia della musica, e
storia della musica in quanto rispecchiamento della storia umana,
riflessione sul pensiero contenuto nell’atto stesso di comporre, e
allora, sotto questa luce, da una parte Fidelio ci costringe a
pensare che non c’è valore più alto della libertà, libertà
anche di comporre il pensiero della libertà, e dall’altra la Missa
Solemnis ci addita l’impossibile compito di trovare in noi
stessi la fede in un Dio che ormai sembra invece assente, e al quale
sembra non giunga il nostro grido di pace, ma proprio perché forse
la libertà è utopia e la fede impossibile in un mondo sdivinizzato,
Beethoven ci dice che bisogna chiedere l’utopia e imporsi
l’impossibile. Ma qui Beethoven incontra Kant. Ma, a differenza di
Kant, non parla ai filosofi, si rivolge a tutta l’umanità: “Seid
umschlungen, Millionen, Alle Menschen werden Brüder”. L’Ode di
Schiller An die Freude, alla gioia, s’intitolava in realtà
An die Freiheit, alla libertà, e Beethoven lo sapeva.
Dino Villatico
Roma, 30 agosto 2004
1
Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, a cura
di Rolf Tiedemann, traduzione italiana di Luca Lamberti, Torino,
Einaudi, 2001, pag. 222. Ed. orig.: Beethoven.
Philosophie der Musik, Frankfurt am
Main, Suhrkamp Verlag, 1993.
2
Ibidiem, pag. 218.
3
Josef Rufer, Teoria della composizione dodecafonica,
traduzione italiana di Laura Dallapiccola, Milano, Il Saggiatore,
1962, pag. 47. Titolo originario: Komposition
mit 12 Tönen, Berlin, Max Hesses
Verlag.
4
L’osservazione è di Carl Dahlhaus.
5
La prima e la seconda parte di un tema.
6
Rufer, Teoria della composizione dodecafonica, cit., su
Beethoven, pagg. 38-62, sull’op.10 n.1 in particolare, pagg.
54-62.
7
Forse, più corretto, enunciazione.
8
In Carl Dahlhaus, Beethoven e il suo tempo, traduzione italiana di
Laura Dallapiccola, Torino, EDT, 1990, pag. 177.
9
La Missa solemnis richiederebbe un discorso a parte: è
scritta come ricerca di una forma collettiva, anzi come lo sforzo di
fondare soggettivamente l’ormai perduta tradizione di uno stile
musicale religioso. Da qui la tensione, il senso di smarrimento,
l’impressione di una rinuncia: mancano veri e propri temi, o
meglio i temi sono ridotti all’osso, coincidono con l’elaborazione
dei procedimenti contrappuntistici e delle trasformazioni armoniche.
Salvo che nel Benedictus, sembra mancare l’invenzione
melodica vera e propria, in poche parole il piano dell’elaborazione
prevale sulla distribuzione della forma, è esso stesso la forma
dell’opera, un laboratorio, provvisorio, di come si possa scrivere
una messa. Il senso di disagio che l’ascolto può generare dipende
probabilmente proprio dalla percezione che Beethoven stia rischiando
una carta inutilizzabile, e allora scopre i trucchi, lancia una
sfida, come dicesse: questo che faccio non si può più fare, ma
faccio appunto qualcosa che porti all’evidenza l’impossibilità
della cosa, e in ogni caso anche la stessa imposibilità può essere
impostata in un modo solo una sola volta, le successive saranno
altre forme d’impossibilità, mai la stessa. Da questo punto di
vista l’evidente arcaismo di molte scelte si ribaltano in
visionaria modernità: come già nell’Ottava ci si sente
già l’aria dello Stravinsky neoclassico, comunque emerge lo
stesso problema, risolto, o meglio non risolto, in maniera simile.
L’atto della volontà prevale dal dato oggettivo, ma il dato
oggettivo si ribella mostrando alla scoperto la sua inattualità.
10
Ciò non giustifica, certo, la durezza di certi provvedimenti. Il
difetto di Karl era di non essere l’eroe che lo zio s’illudeva
di risvegliare in lui. Come quasi sempre, soprattutto nei vincoli
familiari, l’amore nasceva da un complicato e terribile equivoco,
da entrambe le parti. E siamo sicuri che il sostrato più profondo
di una così sconvolgente esperienza non ci venga filtrato dalle
asprezze degli ultimi quartetti? Il tentativo di suicidio del nipote
cade nell’anno in cui Beethoven conclude la sua ultima opera, il
Quartetto op. 135. Ma non possiamo dire di più. Guai a cercare
corrispondenze immediate: tanto più in un’arte, come quella
beethoveniana, che non lascia nessun particolare al caso, che anzi
fa della mediazione quasi una categoria morale del comporre, piano
estetico e piano etico in Beethoven coincidono. Del resto anche lui,
in un momento particolarmente buio, aveva meditato il suicidio. Come
per Goethe, il gesto è trasferito sulla pagina. Cfr., sui rapporti
di Beethoven col nipote, più che il sopravvalutato libro di Luigi
Magnani, le belle pagine che vi dedica la troppo presto scomparsa
Brigitte Massin in: Jean et Brigitte Massin, Ludwig van
Beethoven, Paris, Fayard, 1967, pagg. 281-291.
11
In Carl Dahlhaus, La musica dell’Ottocento, Firenze, La
Nuova Italia, “disCanto”, 19972, pagg. 250-261. Ma,
sempre di Dahlhaus, v. anche anche il cap. Opera e biografia
in Beethoven e il suo tempo, Torino, EDT, 1990, pagg. 17-54.
12
La denominazione di Sinfonia eroica composta per festeggiare il
sovvenire di un grand’uomo compare solo nell’edizione del
1806 (parti d’orchestra) e del 1809 (partitura) e poi in quella
tedesca del 1822. All’origine la sinfonia si chiamava Bonaparte.
E’ noto l’episodio ricordato da Ferdinand Ries e confermato da
Schindler, che Beethoven avrebbe cambiato il titolo quando seppe che
Napoleone si era proclamato imperatore: “Anche lui non è altro
che un uomo comune! Ora calpesterà anche lui tutti i diritti umani,
si porrà più in alto di tutti, diventerà un tiranno!”.
13
Anche questo tempo è in tre quarti.
14
La sezione del cosiddetto sviluppo ha in Beethoven sempre un
carattere molto particolare. Proprio perché Beethoven estende a
tutto un tempo, anzi addirittura a tutta un’opera, l’idea di una
tema che si sviluppa, concentrare in questa sezione
l’elaborazione tematica non ha più senso. Beethoven sceglie
diverse soluzioni: intensificazione armonica, esasperazione ritmica,
distensione melodica (anticipando in questo Chopin o, piuttosto,
offrendone a Chopin il modello). Nell’op. 101 lo sviluppo è
interamente occupato da una fuga.
15
Beethoven riprende invece la scansione binaria all’interno di un
ritmo ternario nello Scherzo della Quarta.
16
Sul Finale dell’Eroica v. le belle pagine che vi
dedica Dahlhaus in Beethoven e il suo tempo, cit., pagg.
39-43.
17
Accolgo l’impostazione teorica di A. Schoenberg, com’è espressa
in Funzioni strutturali dell’armonia, Milano, Il
Saggiatore, ed. “Catalogo”, 1985, pagg. 48-67. Il campo armonico
di una tonalità costituisce una regione in cui agiscono,
intorno alla tonica, con diverso grado di affinità e di
subordinazione, altre possibili toniche, che in rapporto alla tonica
principale sono la dominante, la sottodominante, la mediante, il
relativo minore o maggiore, la tonica maggiore o minore, il secondo
grado abbassato (sesta napoletana), ecc. Schoenberg ipotizza che in
una composizione, soprattutto del periodo classico, non si
presentino via via, linearmente, tonalità differenti, ma che le
diverse tonalità che si affacciano siano tutte contenute nel campo
d’attrazione della tonica principale, e che si dovrebbe perciò
parlare di monotonalità. Con le parole dello stesso
Schoenberg: “Il concetto di regione è una conseguenza
logica del principio della monotonalità, secondo il quale
ogni digressione dalla tonica viene considerata sempre nell’ambito
della tonalità in base a un rapporto che può essere diretto o
indiretto, vicino o lontano. In altre parole: in un pezzo di musica
esiste solo una tonalità, e ogni sua parte che un tempo
veniva considerata come tonalità diversa è soltanto una regione,
un contrasto armonico nell’ambito della stessa tonalità” (i
corsivi sono di Schoenberg).
18
Sul colle siedo io scrutando.
19
Delicatamente lento e con espressione.
20
Lontano io sono da te diviso, / ci distaccano montagna e valle / tra
noi e la nostra pace, / tra la nostra felicità e il nostro
tormento.
21
Dove le montagne così azzurre dal nebbioso grigio guardano.
22
Un po’ mosso.
23
Cfr. nota 17.
24
Leggere vele nelle alture (le nubi).
25
Queste nuvole nelle alture.
26
Non troppo mosso, grazioso e con molto sentimento.
27
Torna maggio e fiorisce il prato.
28
Torna maggio e fiorisce il prato, / l’aria soffia così mite, così
tiepida. / Io solo non posso muovermi da qui.
29
Se tutto ciò che vive si unisce alla primavera, /soltanto il nostro
amore nessuna primavera unisce, / e lacrime sono per esso ogni
trionfo.
30
SWì, essa penetra nel profondo del cuore.
31
Accolga ella dunque là queste canzoni.
32
In Beethoven e il suo tempo, cit., pag. 213.
33
Nulla di simile in Italia, dove pure gli zingari non sono mancati e
non mancano. Segno di una secolare diffidenza per il diverso?
34
Due esempi, tutti e due del periodo tardo: l’inizio della Nona
e l’ultima variazione Diabelli. Nella Nona agiscono
due modelli complementari: l’inizio dell’ultima sinfonia di
Haydn, la Sinfonia 104 London e La rappresentazione del
Caos che apre La Creazione. Dalla sinfonia Beethoven
trae la suggestione dell’intervallo di quinta vuota, ma il doppio
movimento ascendente e discendente ribadisce in Haydn il rapporto di
tonica e dominante, laddove il movimento sempre discendente nella
Nona lascia sospeso il rapporto, e tale sospensione è
mutuata a sua volta dal cromatismo della Rappresentazione. Ma
Beethoven non ricorre al cromatismo, lascia navigare a lungo la
quinta la mi, senza introdurre nessun altro suono, la quinta
costituisce sia l’inciso giambico che il pedale, e pertanto la
percezione tonale è sospesa: mancando la definizione della terza,
la quinta infatti può appartenere a quattro tonalità diverse, la
maggiore e la minore, se costruita sulla tonica, re maggiore e re
minore se costruita sulla dominante (anche se l’abitudine di
Beethoven a considerare la dominante come grado che ristabilisce la
tonica dovrebbe metterci in guardia). La sospensione tonale ha una
funzione anche ideologica oltre che musicale: Beethoven vuole
suggerire l’impressione di un inizio (l’aveva già fatto
splendidamente nell’introduzione della Quarta) e per un
compositore tonale l’inizio è l’emergere della tonalità. Ed
infatti solo quando il mi grave scende al re e il fagotto intona un
fa, abbiamo finalmente la triade di re minore, tonalità della
sinfonia. L’ultima variazione Diabelli è poi un evidente e, pur
col suo carattere scherzoso, quasi nostalgico omaggio a Haydn, che
non è però un desiderio di restaurazione, ma lo sguardo
disincantato al paradiso perduto. Anche qui Beethoven sembra
anticipare insieme sia lo struggimento di Mahler (attacco della
Quarta) che il tono scanzonato di Stravinsky, ma anche certo
neoclassicismo schoenbergiano, per esempio quello della Suite op.
25. Con Schoenberg Beethoven condivide inoltre l’esigenza di
non imitare dalla tradizione recente o lontana uno stile estinto, ma
di assimilare un pensiero musicale sentito ancora vivo, vale a dire
di mettere in azione un principio formale, o, boulezianamente, un
formante.
35
Lo intuisce bene Thomas Mann, nel Doctor Faustus, per bocca
di Kretschmer.
36
Un po’ vivace e con intimo sentimento.
37
Solo chi conosce la nostalgia sa che cosa soffro.
38
Aristotele, Problemi, XXX.
39
Il tempo lento di uno dei quartetti op. 18, dunque un’opera
relativamente giovanile, ha per titolo La malinconia.
40
In realtà la 22ma, in quanto Beethoven ha concepito l’Adagio,
la ripresa del tema del primo tempo e l’Allegro finale
come un unico tempo, di cui dunque l’adagio costituisce
l’introduzione. Così, dopo, la quinta battuta è in realtà la
25ma.
41
Presto, ma non troppo, e con risolutezza.
42
Non ricordo dove, e richiederebbe troppo tempo cercare il passo,
credo comunque in Per volontà e per caso.
43
Andrebbero considerati anche i due Trii dell’op 70 e il
Trio op. 97, detto dell’Arciduca. L’effusività
cantabile tocca in essi vertici sublimi: la lezione mozartiana
appare decantata, sublimata, appunto, in un tipo assolutamente nuovo
di melodia cantabile, che può assomigliare, e talora molto, al
melodizzare schubertiano, ma non rinuncia mai a una inflessibile
organizzazione strutturale, a un’idea dominante che accoglie la
cantabilità non già come momento evasivo, bensì la include nel
proprio programma. Ecco allora che il bellissimo, straordinario
Andante cantabile ma però con moto dell’op. 97, in forma
di tema con variazioni (ma attenzione! la variazione non è una
forma), non solo sembra sintetizzare tutto ciò che per Beethoven
significhi, all’interno di una forma, l’espansione melodica, e
lo confessa nel programma agogico, “cantabile”, ma ne
proponga, quasi ideologicamente, la funzione di partenza e non di
arrivo, o se mai di una partenza che arrivi a ritornare su se
stessa. Le variazioni diventano allora il campo in cui si svelano le
tensioni nascoste del tema, il territorio in cui se ne spermenta la
disintegrazione e la trasformazione, di modo che poi quando il tema
ritorna uguale all’inizio, o quasi uguale, lo si percepisce come
assolutamente nuovo, perché carico di tutte le trasformazioni
subite precedentemente, e dal punto di vista espressivo tale novità
può anche proporsi come uno struggente sentimento del tempo
perduto, non diversamente dal sapore della madeleine. Ma
musicalmente la variazione viene ad affiancarsi all’elaborazione
tematica e talora a sostituirla. Se poi si pensa che il tema non
conosce mai nell’opera beethoveniana una forma unica, ma si attua
attraverso una serie di varianti che ne precisano via via i
caratteri distintivi, e se si osserva inoltre che funzione analoga
viene assunta dall’elaborazione contrappuntistica, al punto che,
come si è visto, nel finale dell’op. 101 l’intera sezione dello
sviluppo è costituita da una fuga (che anch’essa non è una
forma, ma un procedimento), ebbene, se esaminiamo insieme tutti
questi aspetti del modo di procedere beethoveniano, riconosciamo
un’evidente equiparazione dei procedimenti dell’invenzione con
quelli della trasformazione, che è quanto voleva dire Schonberg
quando parlava di variazione permanente dell’idea. Alla luce di
tutto questo, l’Andante dell’op. 97 si rivela pertanto
come il punto di svolta che condurrà agli esiti dell’op 109, 111
e 120, per il pianoforte, e in genere a tutto il lavoro degli ultimi
quartetti. Ma non nasce come un fungo: è preceduto dalle variazioni
che aprono la Sonata op. 26, dalle Variazioni op 34 e
op 35.
44
Il mistero della bellezza di questa splendida partitura, anzi il
segreto del suo fascino sta nel fatto che si tratta di musica dotta
quante altre mai, ma alla percezione la sapienza della scrittura
appare, più che mascherata, sopraffatta dall’irruenza
dell’effetto drammatico ed espressivo ed esattamente come per
Beethoven la musica di Bizet può essere goduta tanto
dall’ascoltatore ingenuo che dall’avvenuto conoscitore dei
procedimenti compositivi. Naturalmente chi ne penetra anche le
ragioni compositive, ne gode anche di più.
45
La musica dell’ottocento, cit., pagg. 250-261, ma v. anche
160-62.
46
Nella Nona la terza gioca il ruolo dell’indeterminatezza
tonale: la sua assenza non permette di precisare l’ambito tonale
della quinta vuota la - mi. Tale quinta, infatti, se
costruita sulla tonica, può appartenere o a la maggiore o a la
minore, ma se costruita sulla dominante, allora ci si trova o in re
maggiore o in re minore. L’ambiguità tonale ha qui una funzione
insieme narrativa e ideologica: è un inizio. L’abbassarsi del mi
a re, e l’intonazione del fa da parte del fagotto, introducono
finalmente la triade di re minore, tonalità d’impianto della
sinfonia.
47
Cfr. Carl Dahlhaus, La Quarta Sinfonia di Ludwig van Beethoven,
Milano, Ricordi, 1992. In compendio ci si trova la storia della
composizione, della sua fortuna, e un’analisi dettagliata dei
tempi. Soprattutto proprio le pagine dedicate all’introduzione
sono un modello di metodo analitico da una parte e d’impostazione
dei problemi generali che ogni analisi particolare presuppone e
impone.
48
Cfr. Ulrich Siegele, Beethoven
Formale Strategien der späten
Quartette, Musik-Konzepte 67/68,
München, Januar 1990, pagg. 72-113. La terminologia tedesca
è più precisa di quella italiana. Ho reso il concetto di
Hauptsatz, che nel testo sostituisce il concetto di tema,
con sezione principale, e il termine Taktgruppe con
gruppo di battute, perché il concetto non coincide con
l’italiano inciso. Colgo l’occasione però per ricordare
che fin dalle analisi di Tovey (1927) i termini tema,
soggetto, apparivano inadeguati a rendere ragione dei
procedimenti compositivi di Beethoven. E anche al Tovey, come prima
di lui a Schoenberg, appariva inadeguatissima la sistemazione
scolastica dell’armonia come si era venuta a codificare nei
trattati del secondo ottocento. E’ alla luce di ciò che la
costellazione armonica di un Webern appare assai meno lontana
dall’idea di campo armonico (Schoenberg direbbe regione)
che s’individua nelle opere di Beethoven. Il Quartetto op.
130 me è un’incarnazione esemplare. L’andamento drammatico,
spesso irruento delle idee beethoveniane fa passare per molti in
secondo piano la finezza, la fantasia inesauribile delle soluzioni
formali, così come il suo sostanziale diatonismo fa dimenticare la
sua spercolatezza armonica, un po’ come per Mahler, altro
compositore essenzialmente diatonico, ma non per questo privo di
fantasia armonica. Il fatto è che si parte da una concezione
erronea dell’armonia, erronea soprattutto storicamente: che cioè
il cromatismo equivalga a tricchezza armonica e il diatonismo a
povertà di scelte armoniche. Niente di più falso: la ricchezza è
assolutamente pari, diversi sono i percorsi, graduali nel
compositore cromatico, ellittici in quello diatonico.
49
Mai come in questo quartetto appare fallace la terminologia
scolastica. Beethoven non ragiona in termini di tema o di soggetto,
ma di idee (anche qui una incredibile sintonia con Schoenberg). Ha
bisogno di programmare una successione di eventi musicali. Poco
importa che vengano individuati in temi, soggetti o motivi. C’è
un piano di successione di diverse figure ritmiche, armoniche,
melodiche, possibilmente derivate da un’unica cellula. Dopo di
che, per esempio, in questo primo tempo del quartetto op. 130, è
riconoscibile la scansione in un’introduzione, un’esposizione
divisa in due sezioni unite da una transizione e concluse da una
sezione modulante a re maggiore ch’è l’introduzione allo
sviluppo, a cui segue la riesposizione o ruipresa seguita da una
coda. Ma l’eleaborazione tematica è assai complessa, e così la
strutturazione armonica, insomma niente di meno scolastico di questo
tempo che manda all’aria qualsiasi tentativo di riconoscervi la
forma di ciò che tradizionalmente si chiama forma-sonata.
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