Haydn, Sinfonia n. 68 in si bemolle maggiore, III movimento,
Adagio cantabile.
(Riflessioni al modo di conversazione su un’incisione haydniana di
Nikolaus Hanoncourt: HAYDN, Symphonies 68, 93-104. Warner Classics,
256463061-2, 5 cd)
Pagina di costruzione magistrale, questo adagio cantabile.
Un’esemplificazione, se ve ne fosse ancora bisogno, di quanto la
concezione tematica di Haydn fosse complessa, come poi quella di
Mozart e di Beethoven: i classici, per così dire. E tuttavia in
qualche modo vi andrebbero compresi, sotto molti aspetti, senz’altro
Schubert, ma anche perfino i “romantici” Chopin, e Schumann e
Brahms. Siamo abituati, infatti, a distinguere un tema dal suo
profilo melodico. Ma questo è vero, e solo in parte vero, solo a
cominciare dai compositori romantici. Nel tardo Settecento e nel
primo Ottocento il tema si definisce attraverso molti e diversi
elementi, o fattori, che concorrono, insieme, a caratterizzare
l’impostazione di un brano. Il profilo melodico è solo uno di
questi elementi. Vi contribuiscono, con non minore importanza, la
scansione ritmica, l’ambito armonico, la dinamica. Un tema
“classico” può, anzi, perfino mancare di un vero e proprio
profilo melodico, almeno nel senso con cui s’intende in genere la
configurazione di una melodia, e può limitarsi pertanto alla pura
scansione dell’accordo: ciò accade, per esempio, nella Sonata
in do minore per pianoforte di Mozart, e nella Sonata in
fa minore op. 2 n.1, la prima! di Beethoven (la stessa
tonalità che sarà poi dell’op. 57, Appassionata),
così come nella sua Sinfonia Eroica.
Qualcuno potrebbe opporre che il primo tema dell’Eroica un
profilo melodico ce l’ha. Ma qui non si dice che manchi di profilo
melodico, bensì che quel profilo è l'accordo di tonica arpeggiato.
In ogni caso il vero e proprio tema non è nemmeno quell'arpeggio, ma
la tensione che s’instaura, finita la scansione della triade, tra
un tempo ternario di base e l'andamento binario del tema. I due
accordi iniziali, che sembrano prefigurare una scansione binaria,
Beethoven li introdusse dopo, quando la composizione della sinfonia
era terminata, proprio per mettere in evidenza questa tensione. Sono
due accordi, ciascuno nel primo quarto di una battuta di tre quarti,
che dunque l’orecchio percepisce come accordi di una scansione
binaria. La musica, infatti, non ci ha detto ancora niente
sull’articolazione ritmica del primo tempo della sinfonia,
fondamentalmente ternario. Dunque li si percepiscono i due accordi
come battiti di una scansione binaria. La triade arpeggiata che
subentra subito dopo introduce finalmente la scansione ternaria. Il
resto nasce da questo contrasto. E il tema del movimento è proprio
questo contrasto, non la triade di mi bemolle o i due accordi
iniziali. Nella sezione centrale di sviluppo Beethoven esaspera
questa tensione con le aspre dissonanze delle settime ribattute in
tempo binario all'interno di una scansione ternaria. Berio ci ha
costruito un'intera puntata di C'è musica e musica, una
trasmissione televisiva in cui spiegava le costruzioni musicali di
alcuni grandi compositori: ci teneva molto. Ma lo scrive anche
Charles Rosen nel suo bel libro sullo stile classico e ancora più
diffusamente in quello dedicato alle forme sonata (il plurale è
determinante: in inglese il titolo suona Sonata Forms).
Ma che impressione avrà avuto il primo ascoltatore della Quinta
Sinfonia di Beethoven? Sappiamo, certo, che è in do
minore, ma l’attacco, "sol sol sol mi bemolle", senza
tonica, potrebbe essere tranquillamente la terza di mi bemolle
maggiore. Percepiamo il do minore solo dopo. In realtà se ne
accorsero subito, anche al primo ascolto, che la sinfonia è in do
minore, quando il pubblico l’ascoltò alla prima esecuzione, in un
concerto lunghissimo in cui si eseguirono, tra l’altro, anche la
Quarta e la Sesta, il Concerto in sol maggiore
per pianoforte. Beethoven, ma prima di lui anche Haydn e Mozart,
avevano abituato il pubblico, che allora era composto in genere da
persone che conoscevano tutti più o meno bene la musica, a queste
trappole armoniche. E qui sta la principale differenza tra il
pubblico di allora e quello di oggi (in letteratura non è diverso:
un lettore del Sette e dell’Ottocento sapeva come si scrive un
endecasillabo). Haydn, per esempio, scrive una sonata in fa maggiore
che comincia con un fa bemolle! E la Nona di Beethoven lascia
sospesa la tonalità per molte battute, perché manca la terza della
quinta la mi. Se è una tonica può essere o la maggiore o la minore.
Ma se è una dominante è o re maggiore o re minore. Il mi poi scende
al re e il fagotto (un fagotto! strumento allora non tra i
principali, e anzi proprio Beethoven ne emancipò la funzione in
orchestra) introduce il fa: eccolo, il re minore. Il tutto come
memoria dell'Introduzione della Sinfonia n. 104 di
Haydn. Una specie di storia della sinfonia in poche battute. Un'altra
storia Beethoven l'aveva elaborata in musica nelle ultime variazioni
Diabelli, da Bach a lui, via Mozart e Haydn. Tra l'altro, è proprio
con Beethoven che comincia il piacere della citazione nella musica
moderna. Schumann ne farà addirittura una mania. Beethoven non è il
primo, ma colui che lo fa già con intenti di memoria musicale, anzi
di storicizzazione della memoria. Un fatto assolutamente nuovo. Che
gli permette poi di comporre quella meraviglia dell'Ottava
Sinfonia, una sorta di Stravinsky neoclassico ante litteram. Così
come invece nelle Bagatelle prefigura vertiginosamente lo
Schumann del Carnaval.
Ma torniamo a Haydn. In questo bellissimo Adagio Haydn mette
subito sul piatto due elementi contrastanti, affidati ai soli
violini. La scansione regolare di crome che battono in staccato una
terza maggiore sulla tonica di mi bemolle, ai violini secondi; ai
violini primi è invece affidata la melodia, legatissima, che parte
con un arpeggio sulla tonica di mi bemolle maggiore, ma che già alla
terza battuta si arricchisce di scalette di biscrome, a riempire gli
intervalli dell’accordo fondamentale, per concludersi infine con
note ribattute di semicrome che richiamano la scansione delle crome
staccate di quello che appare un “accompagnamento”. Il tutto,
intonato piano. Alla seconda metà della sesta battuta, il
ritmo di crome in staccato si estende alle viole e ai bassi, agli
oboi, ai fagotti, ai corni, e quello che sembrava un accompagnamento
assume così valore tematico. Ciò si rende evidente alla battuta
25a, quando tutti e tre gli elementi, opportunamente
variati (Haydn è un maestro sovrano della variazione), vengono
intonati forte da tutta l’orchestra. A questo punto il
contrasto tra il piano dell’esposizione e il forte di quello che
appariva l’accompagnamento, ora invece intonato dall’intera
orchestra, si rivela per essere un altro elemento tematico. Gli
elementi sono dunque tre: il ritmo di crome, la melodia con
l’arpeggio seguito dalle scalette, il contrasto tra piano e forte.
Ognuno di questi elementi è parte indispensabile del tema. Il
seguito è uno sviluppo e una mutevole combinazione di questi tre
elementi. Ai quali in realtà se ne può aggiungere un quarto: il
contrasto tra lo staccato delle crome di sostegno e il legato della
melodia “cantabile”. Dunque tutto il movimento è costruito su
contrastanti elementi: dinamici, di fraseggio, armonici, e perfino di
modi d’attacco (staccato/legato).
La sinfonia chiude, nel 1776, il periodo cosiddetto dello Sturm und
Drang, e accentua il carattere costruttivo, architettonico, della
fantasia inventiva di Haydn. La forma sonata Haydn la stava
sperimentando, mai la stessa, esattamente come poi faranno Mozart e
Beethoven. Fu fossilizzata nel secondo ottocento, come la fuga,
massacrata da Théodore Dubois nel suo trattato di contrappunto e
fuga. Secondo gli schemi scolastici di Dubois, Bach non sapeva
comporre fughe. E secondo D'Indy, che scrive un importante trattato
di composizione, Beethoven raggiunge la maturità solo nell'ultimo
periodo: nel primo "imita" Haydn, il secondo è un periodo
di "transizione" (sic! transizione l'Appassionata,
la Quinta, i Quartetti Rasoumosky). La verità è
che le forme – e non solo le forme musicali - finiscono nel momento
in cui sono codificate. Quando sono attive non hanno altre regole che
non siano l'invenzione stessa della forma.
Non conoscevo questa sinfonia di Haydn. L’impatto è stato
fulminante, come lo è per chiunque ascolti la prima volta una
sinfonia di Haydn. Anche per chi abbia una conoscenza più o meno
approfondita di una parte di esse. Ma, come sempre mi accade quando o
leggo o ascolto una pagina prima ignorata di Haydn, immenso
compositore che gli italiani dovrebbero conoscere di più, sono
letteralmente rapito dalla complessità del pensiero architettonico
della scrittura musicale. L’occasione, questa volta, mi è
stata,casualmente data da un cofanetto esposto come offerta all’IBS
Libraccio di Via Nazionale, a Roma. In cinque cd sono registrate
tutte e 12 le sinfonie londinesi. Come una sorta di preambolo a
questo monumento e modello di tutta la storia della sinfonia, vi si
trova, appunto, la Sinfonia n. 68, in si bemolle
maggiore. Suona l’Orchestra del Concertgebow di Amsterdam, diretta
da Nikolaus Harnoncourt. E come per il Concerto in
la minore di Schumann, che vede al pianoforte Martha Argerich,
forse la più bella interpretazione di questa pagina, l’ascolto di
queste interpretazioni haydniane di Harnoncourt è stato per me un
colpo di fulmine. Non conoscevo, infatti, questo lato, insieme
razionalistico e appassionato, del grande musicista viennese. Ma è
perfetto per questa musica. Sentimento, filologia e ragione fanno un
tutt’uno, e fanno il miracolo. Non ci spendo altre parole.
Ascoltatelo. Non si sa se vi fa godere di più l’inesauribile
fantasia timbrica, melodica, costruttiva di Haydn o l’intelligenza
e la sensibilità interpretative di Harnoncourt. Ma questa
intelligenza interpretativa si manifesta poi anche nel fatto di
collocare come preambolo alle sinfonie londinesi la Sinfonia
n. 68. In essa infatti già si palesa quella tendenza
razionalistica della costruzione musicale che costituirà il filo
conduttore di tutte le ultime, gigantesche, sinfonie. Non a caso la
Nona di Beethoven, che chiude il percorso sinfonico
beethoveniano, si riallaccia all’ultima di Haydn, ne ribadisce e
insieme ne smentisce l’impianto armonico. Le quinte vuote di Haydn
preludono a una chiara scansione tonale, che il cromatismo successivo
alla loro intonazione mette bene in risalto. Le quinte vuote di
Beethoven, invece, lasciano a lungo incerto l’impianto modale, se
sia maggiore o minore. La tonalità effettiva si afferma dopo molte
battute. Ma non è queso lo spazio per occuparsene o la digressione
risulterebbe troppo lunga. Va notato, però, che l’ultima sinfonia
haydniana, sublime, non feconda e sfida solo la fantasia di
Beethoven. Ma si protende fino a Schubert, Schumann, Brahms, Bruckner
e, soprattutto, Mahler (si pensi all’attacco della Seconda).
Non meraviglia, dunque, che Brahms, il quale amava molto Haydn, quasi
quanto amava Beethoven e Bach, e l’indimenticato, per lui
indimenticabile Schumann, affermasse una volta che nessun
compositore, nemmeno Mozart, avesse superato la sapienza e la
bellezza dei tempi lenti delle sinfonie e dei quartetti di Haydn.
Un’esagerazione, certo, o una boutade divertita. Soprattutto se si
pensa ai suoi, di adagi. Ma fino a che punto?
Già: fino a che punto? Perché forse il lettore, giunto – magari
faticosamente – alla fine di queste righe, si chiederà quale ne
possa essere, manzonianamente, il “sugo”. E’ presto detto.
Opinione assai diffusa è che un tema sia la melodia che se ne
percepisce, tanto più quando questa melodia sia semplice,
orecchiabile, “cantabile”, come recita la prescrizione
hadnianana. Solo che per Haydn cantabile non significa ciò che
significa per l’ascoltatore di oggi. Significa, invece, che la
melodia è impostata su una trasposizione strumentale del sistema di
costruzione di una melodia vocale. Per intenderci, un‘aria, e più
precisamente un’aria di melodramma. Ora, per chiunque abbia
ascoltato, anche superficialmente, un melodramma settecentesco,
risulta abbastanza chiaro che la cantabilità di un’aria del
Settecento non corrisponde affatto a ciò che oggi s’intende
comunemente per cantabilità. Haydn, invece, è proprio alla
cantabilità del melodramma tardosettecentesco che si riferisce, una
cantabilità che ama le sfide tra strumenti e voci, strumenti che
imitano la voce e voci che imitano lo strumento. E anche quando a
cantare o a suonare era un dilettante, per dilettante allora non
s’intendeva ciò che s’intende oggi, bensì qualcuno con un
sufficiente e spesso anzi aggiornatissimo bagaglio di cultura e
pratica musicale. Qualcuno dunque che coglieva anche le finezze, le
astuzie, i trucchi della scrittura. E questo qualcuno sapeva,
dunque, quanto complessa fosse la costruzione di un tema musicale.
Haydn va oltre. Lo sfida. Sfida anche il musicista esperto. E gli
propone una scrittura musicale che insieme all’ovvio piacere del
godimento puramente musicale gli sottoponga anche il problema di come
tale piacere sia ottenuto. Insomma questa musica richiede un ascolto
tutt’altro che ingenuo, pretende anzi un ascolto competente. Sta
qui la sfida. Ecco perché Haydn complica la costruzione di un tema.
Al piacere “galante” di una melodia accompagnata sostituisce
l’intelligenza di un tema che si costruisce a poco a poco. Un tema,
cioè, che non sia una melodia che si appoggia all’armonia, la più
semplice possibile, la melodia accompagnata. Qui non c’è
accompagnamento, perché ogni parte è essenziale, ogni parte svolge
una funzione ineliminabile: l’accompagnamento può rivelarsi,
infatti, elemento essenziale del tema, imporsi a sua volta come
un’altra melodia. Haydn obbliga l’ascoltatore, in una parola,
come aveva fatto Bach, a cogliere i diversi piani che si combinano,
melodia, ritmo, timbro, come parti di un complesso contrappunto, in
cui nessuna parte prevale sull’altra, ma tutte insieme collaborano
a costruire il tema. La musica non è più una voce superiore e il
suo basso che la sostiene. Ma un rapporto complesso tra varie voci,
tutte ugualmente indispensabili a costruire il tema. Non a caso il
vertice di questa invenzione musicale sono i quartetti. I quartetti
sono, per Haydn, la sua Arte della Fuga. Se ne potrebbe trarre
un corollario contemporaneo. Se anche uno Haydn, un Mozart, un
Beethoven, pretendono dall’ascoltatore un ascolto “competente”,
perché dovrebbe destare scandalo o ripulsa il compositore di oggi
che pretende lo stesso? Il corollario potrebbe estendersi anche alla
letteratura e a quanti, ancora oggi, dopo un secolo, protestano che
la lettura di un Joyce è “punitiva” o quella di un poeta come
Char o Antonio Porta “di nicchia”. Le oggi detestate avanguardie
non sono state inventate nel Novecento. Né sapevano già qualcosa i
poeti alessandrini.
Dino Villatico
Fiano Romano, 28 novembre 2018
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