mercoledì 28 novembre 2018

L'adagio cantabile della sinfonia n. 68 di Haydn

Haydn, Sinfonia n. 68 in si bemolle maggiore, III movimento, Adagio cantabile.

(Riflessioni al modo di conversazione su un’incisione haydniana di Nikolaus Hanoncourt: HAYDN, Symphonies 68, 93-104. Warner Classics, 256463061-2, 5 cd)

Pagina di costruzione magistrale, questo adagio cantabile. Un’esemplificazione, se ve ne fosse ancora bisogno, di quanto la concezione tematica di Haydn fosse complessa, come poi quella di Mozart e di Beethoven: i classici, per così dire. E tuttavia in qualche modo vi andrebbero compresi, sotto molti aspetti, senz’altro Schubert, ma anche perfino i “romantici” Chopin, e Schumann e Brahms. Siamo abituati, infatti, a distinguere un tema dal suo profilo melodico. Ma questo è vero, e solo in parte vero, solo a cominciare dai compositori romantici. Nel tardo Settecento e nel primo Ottocento il tema si definisce attraverso molti e diversi elementi, o fattori, che concorrono, insieme, a caratterizzare l’impostazione di un brano. Il profilo melodico è solo uno di questi elementi. Vi contribuiscono, con non minore importanza, la scansione ritmica, l’ambito armonico, la dinamica. Un tema “classico” può, anzi, perfino mancare di un vero e proprio profilo melodico, almeno nel senso con cui s’intende in genere la configurazione di una melodia, e può limitarsi pertanto alla pura scansione dell’accordo: ciò accade, per esempio, nella Sonata in do minore per pianoforte di Mozart, e nella Sonata in fa minore op. 2 n.1, la prima! di Beethoven (la stessa tonalità che sarà poi dell’op. 57, Appassionata), così come nella sua Sinfonia Eroica.
Qualcuno potrebbe opporre che il primo tema dell’Eroica un profilo melodico ce l’ha. Ma qui non si dice che manchi di profilo melodico, bensì che quel profilo è l'accordo di tonica arpeggiato. In ogni caso il vero e proprio tema non è nemmeno quell'arpeggio, ma la tensione che s’instaura, finita la scansione della triade, tra un tempo ternario di base e l'andamento binario del tema. I due accordi iniziali, che sembrano prefigurare una scansione binaria, Beethoven li introdusse dopo, quando la composizione della sinfonia era terminata, proprio per mettere in evidenza questa tensione. Sono due accordi, ciascuno nel primo quarto di una battuta di tre quarti, che dunque l’orecchio percepisce come accordi di una scansione binaria. La musica, infatti, non ci ha detto ancora niente sull’articolazione ritmica del primo tempo della sinfonia, fondamentalmente ternario. Dunque li si percepiscono i due accordi come battiti di una scansione binaria. La triade arpeggiata che subentra subito dopo introduce finalmente la scansione ternaria. Il resto nasce da questo contrasto. E il tema del movimento è proprio questo contrasto, non la triade di mi bemolle o i due accordi iniziali. Nella sezione centrale di sviluppo Beethoven esaspera questa tensione con le aspre dissonanze delle settime ribattute in tempo binario all'interno di una scansione ternaria. Berio ci ha costruito un'intera puntata di C'è musica e musica, una trasmissione televisiva in cui spiegava le costruzioni musicali di alcuni grandi compositori: ci teneva molto. Ma lo scrive anche Charles Rosen nel suo bel libro sullo stile classico e ancora più diffusamente in quello dedicato alle forme sonata (il plurale è determinante: in inglese il titolo suona Sonata Forms).
Ma che impressione avrà avuto il primo ascoltatore della Quinta Sinfonia di Beethoven? Sappiamo, certo, che è in do minore, ma l’attacco, "sol sol sol mi bemolle", senza tonica, potrebbe essere tranquillamente la terza di mi bemolle maggiore. Percepiamo il do minore solo dopo. In realtà se ne accorsero subito, anche al primo ascolto, che la sinfonia è in do minore, quando il pubblico l’ascoltò alla prima esecuzione, in un concerto lunghissimo in cui si eseguirono, tra l’altro, anche la Quarta e la Sesta, il Concerto in sol maggiore per pianoforte. Beethoven, ma prima di lui anche Haydn e Mozart, avevano abituato il pubblico, che allora era composto in genere da persone che conoscevano tutti più o meno bene la musica, a queste trappole armoniche. E qui sta la principale differenza tra il pubblico di allora e quello di oggi (in letteratura non è diverso: un lettore del Sette e dell’Ottocento sapeva come si scrive un endecasillabo). Haydn, per esempio, scrive una sonata in fa maggiore che comincia con un fa bemolle! E la Nona di Beethoven lascia sospesa la tonalità per molte battute, perché manca la terza della quinta la mi. Se è una tonica può essere o la maggiore o la minore. Ma se è una dominante è o re maggiore o re minore. Il mi poi scende al re e il fagotto (un fagotto! strumento allora non tra i principali, e anzi proprio Beethoven ne emancipò la funzione in orchestra) introduce il fa: eccolo, il re minore. Il tutto come memoria dell'Introduzione della Sinfonia n. 104 di Haydn. Una specie di storia della sinfonia in poche battute. Un'altra storia Beethoven l'aveva elaborata in musica nelle ultime variazioni Diabelli, da Bach a lui, via Mozart e Haydn. Tra l'altro, è proprio con Beethoven che comincia il piacere della citazione nella musica moderna. Schumann ne farà addirittura una mania. Beethoven non è il primo, ma colui che lo fa già con intenti di memoria musicale, anzi di storicizzazione della memoria. Un fatto assolutamente nuovo. Che gli permette poi di comporre quella meraviglia dell'Ottava Sinfonia, una sorta di Stravinsky neoclassico ante litteram. Così come invece nelle Bagatelle prefigura vertiginosamente lo Schumann del Carnaval.
Ma torniamo a Haydn. In questo bellissimo Adagio Haydn mette subito sul piatto due elementi contrastanti, affidati ai soli violini. La scansione regolare di crome che battono in staccato una terza maggiore sulla tonica di mi bemolle, ai violini secondi; ai violini primi è invece affidata la melodia, legatissima, che parte con un arpeggio sulla tonica di mi bemolle maggiore, ma che già alla terza battuta si arricchisce di scalette di biscrome, a riempire gli intervalli dell’accordo fondamentale, per concludersi infine con note ribattute di semicrome che richiamano la scansione delle crome staccate di quello che appare un “accompagnamento”. Il tutto, intonato piano. Alla seconda metà della sesta battuta, il ritmo di crome in staccato si estende alle viole e ai bassi, agli oboi, ai fagotti, ai corni, e quello che sembrava un accompagnamento assume così valore tematico. Ciò si rende evidente alla battuta 25a, quando tutti e tre gli elementi, opportunamente variati (Haydn è un maestro sovrano della variazione), vengono intonati forte da tutta l’orchestra. A questo punto il contrasto tra il piano dell’esposizione e il forte di quello che appariva l’accompagnamento, ora invece intonato dall’intera orchestra, si rivela per essere un altro elemento tematico. Gli elementi sono dunque tre: il ritmo di crome, la melodia con l’arpeggio seguito dalle scalette, il contrasto tra piano e forte. Ognuno di questi elementi è parte indispensabile del tema. Il seguito è uno sviluppo e una mutevole combinazione di questi tre elementi. Ai quali in realtà se ne può aggiungere un quarto: il contrasto tra lo staccato delle crome di sostegno e il legato della melodia “cantabile”. Dunque tutto il movimento è costruito su contrastanti elementi: dinamici, di fraseggio, armonici, e perfino di modi d’attacco (staccato/legato).
La sinfonia chiude, nel 1776, il periodo cosiddetto dello Sturm und Drang, e accentua il carattere costruttivo, architettonico, della fantasia inventiva di Haydn. La forma sonata Haydn la stava sperimentando, mai la stessa, esattamente come poi faranno Mozart e Beethoven. Fu fossilizzata nel secondo ottocento, come la fuga, massacrata da Théodore Dubois nel suo trattato di contrappunto e fuga. Secondo gli schemi scolastici di Dubois, Bach non sapeva comporre fughe. E secondo D'Indy, che scrive un importante trattato di composizione, Beethoven raggiunge la maturità solo nell'ultimo periodo: nel primo "imita" Haydn, il secondo è un periodo di "transizione" (sic! transizione l'Appassionata, la Quinta, i Quartetti Rasoumosky). La verità è che le forme – e non solo le forme musicali - finiscono nel momento in cui sono codificate. Quando sono attive non hanno altre regole che non siano l'invenzione stessa della forma.
Non conoscevo questa sinfonia di Haydn. L’impatto è stato fulminante, come lo è per chiunque ascolti la prima volta una sinfonia di Haydn. Anche per chi abbia una conoscenza più o meno approfondita di una parte di esse. Ma, come sempre mi accade quando o leggo o ascolto una pagina prima ignorata di Haydn, immenso compositore che gli italiani dovrebbero conoscere di più, sono letteralmente rapito dalla complessità del pensiero architettonico della scrittura musicale. L’occasione, questa volta, mi è stata,casualmente data da un cofanetto esposto come offerta all’IBS Libraccio di Via Nazionale, a Roma. In cinque cd sono registrate tutte e 12 le sinfonie londinesi. Come una sorta di preambolo a questo monumento e modello di tutta la storia della sinfonia, vi si trova, appunto, la Sinfonia n. 68, in si bemolle maggiore. Suona l’Orchestra del Concertgebow di Amsterdam, diretta da Nikolaus Harnoncourt. E come per il Concerto in la minore di Schumann, che vede al pianoforte Martha Argerich, forse la più bella interpretazione di questa pagina, l’ascolto di queste interpretazioni haydniane di Harnoncourt è stato per me un colpo di fulmine. Non conoscevo, infatti, questo lato, insieme razionalistico e appassionato, del grande musicista viennese. Ma è perfetto per questa musica. Sentimento, filologia e ragione fanno un tutt’uno, e fanno il miracolo. Non ci spendo altre parole. Ascoltatelo. Non si sa se vi fa godere di più l’inesauribile fantasia timbrica, melodica, costruttiva di Haydn o l’intelligenza e la sensibilità interpretative di Harnoncourt. Ma questa intelligenza interpretativa si manifesta poi anche nel fatto di collocare come preambolo alle sinfonie londinesi la Sinfonia n. 68. In essa infatti già si palesa quella tendenza razionalistica della costruzione musicale che costituirà il filo conduttore di tutte le ultime, gigantesche, sinfonie. Non a caso la Nona di Beethoven, che chiude il percorso sinfonico beethoveniano, si riallaccia all’ultima di Haydn, ne ribadisce e insieme ne smentisce l’impianto armonico. Le quinte vuote di Haydn preludono a una chiara scansione tonale, che il cromatismo successivo alla loro intonazione mette bene in risalto. Le quinte vuote di Beethoven, invece, lasciano a lungo incerto l’impianto modale, se sia maggiore o minore. La tonalità effettiva si afferma dopo molte battute. Ma non è queso lo spazio per occuparsene o la digressione risulterebbe troppo lunga. Va notato, però, che l’ultima sinfonia haydniana, sublime, non feconda e sfida solo la fantasia di Beethoven. Ma si protende fino a Schubert, Schumann, Brahms, Bruckner e, soprattutto, Mahler (si pensi all’attacco della Seconda). Non meraviglia, dunque, che Brahms, il quale amava molto Haydn, quasi quanto amava Beethoven e Bach, e l’indimenticato, per lui indimenticabile Schumann, affermasse una volta che nessun compositore, nemmeno Mozart, avesse superato la sapienza e la bellezza dei tempi lenti delle sinfonie e dei quartetti di Haydn. Un’esagerazione, certo, o una boutade divertita. Soprattutto se si pensa ai suoi, di adagi. Ma fino a che punto?
Già: fino a che punto? Perché forse il lettore, giunto – magari faticosamente – alla fine di queste righe, si chiederà quale ne possa essere, manzonianamente, il “sugo”. E’ presto detto. Opinione assai diffusa è che un tema sia la melodia che se ne percepisce, tanto più quando questa melodia sia semplice, orecchiabile, “cantabile”, come recita la prescrizione hadnianana. Solo che per Haydn cantabile non significa ciò che significa per l’ascoltatore di oggi. Significa, invece, che la melodia è impostata su una trasposizione strumentale del sistema di costruzione di una melodia vocale. Per intenderci, un‘aria, e più precisamente un’aria di melodramma. Ora, per chiunque abbia ascoltato, anche superficialmente, un melodramma settecentesco, risulta abbastanza chiaro che la cantabilità di un’aria del Settecento non corrisponde affatto a ciò che oggi s’intende comunemente per cantabilità. Haydn, invece, è proprio alla cantabilità del melodramma tardosettecentesco che si riferisce, una cantabilità che ama le sfide tra strumenti e voci, strumenti che imitano la voce e voci che imitano lo strumento. E anche quando a cantare o a suonare era un dilettante, per dilettante allora non s’intendeva ciò che s’intende oggi, bensì qualcuno con un sufficiente e spesso anzi aggiornatissimo bagaglio di cultura e pratica musicale. Qualcuno dunque che coglieva anche le finezze, le astuzie, i trucchi della scrittura. E questo qualcuno sapeva, dunque, quanto complessa fosse la costruzione di un tema musicale. Haydn va oltre. Lo sfida. Sfida anche il musicista esperto. E gli propone una scrittura musicale che insieme all’ovvio piacere del godimento puramente musicale gli sottoponga anche il problema di come tale piacere sia ottenuto. Insomma questa musica richiede un ascolto tutt’altro che ingenuo, pretende anzi un ascolto competente. Sta qui la sfida. Ecco perché Haydn complica la costruzione di un tema. Al piacere “galante” di una melodia accompagnata sostituisce l’intelligenza di un tema che si costruisce a poco a poco. Un tema, cioè, che non sia una melodia che si appoggia all’armonia, la più semplice possibile, la melodia accompagnata. Qui non c’è accompagnamento, perché ogni parte è essenziale, ogni parte svolge una funzione ineliminabile: l’accompagnamento può rivelarsi, infatti, elemento essenziale del tema, imporsi a sua volta come un’altra melodia. Haydn obbliga l’ascoltatore, in una parola, come aveva fatto Bach, a cogliere i diversi piani che si combinano, melodia, ritmo, timbro, come parti di un complesso contrappunto, in cui nessuna parte prevale sull’altra, ma tutte insieme collaborano a costruire il tema. La musica non è più una voce superiore e il suo basso che la sostiene. Ma un rapporto complesso tra varie voci, tutte ugualmente indispensabili a costruire il tema. Non a caso il vertice di questa invenzione musicale sono i quartetti. I quartetti sono, per Haydn, la sua Arte della Fuga. Se ne potrebbe trarre un corollario contemporaneo. Se anche uno Haydn, un Mozart, un Beethoven, pretendono dall’ascoltatore un ascolto “competente”, perché dovrebbe destare scandalo o ripulsa il compositore di oggi che pretende lo stesso? Il corollario potrebbe estendersi anche alla letteratura e a quanti, ancora oggi, dopo un secolo, protestano che la lettura di un Joyce è “punitiva” o quella di un poeta come Char o Antonio Porta “di nicchia”. Le oggi detestate avanguardie non sono state inventate nel Novecento. Né sapevano già qualcosa i poeti alessandrini.

Dino Villatico
Fiano Romano, 28 novembre 2018

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