ANAGOOR
ACCADEMIA
D’ARCADIA
ET
MANCHI PIETÀ
Artemisia
Gentileschi e le musiche del suo tempo
Forse
si riflette troppo poco al fatto che, al di là degli stili e dei
modi di costruire un’opera d’arte – che sia una una musica, una
poesia, un quadro –, c’è un atteggiamento del pensiero, da
parte dell’artista, che lega, anche profondamente, personalità tra
di loro lontane nello spazio e nel tempo. Ed è probabilmente proprio
quest’affinità del pensare che commuove l’uomo di oggi quando
ascolta un madrigale di Monteverdi, legge una poesia di Catullo,
guarda un quadro di Rembrandt. C’è chi opporrà che invece la
filologia c’insegna a distinguere, a notare le differenze, e che
leggere e guardare e ascoltare, attualizzata, l’opera del passato,
è un tradirla, un non coglierne le intenzioni autentiche. Ma siamo
sicuri? E che cosa è
l’autenticità? Sono autentici anche gli occhi, gli orecchi, la
mente di secoli dopo? Basta pensare all’effetto che ci fanno oggi i
film muti, oggetti o incomprensibili o addirittura ridicoli agli
occhi di oggi. Certo, una
volgare, banale, e
semplificatrice
operazione che modernizzi
l’opera è comunque sempre fuorviante. Ma
non sarà, invece, che proprio la filologia ci aiuterà a scoprirne
l’attualità perenne, il
moderno dell’antico?
Troppo spesso si
dimentica che ciò che a noi oggi appare
antico, all’epoca si percepiva moderno. E come si restituisce
questa percezione del moderno del passato, di ciò che nel passato
appariva moderno?
Che cos’è, per esempio, il barocco, in architettura, se non
l’inserimento del moderno in un contesto antico? Capolavoro estremo
di questo atteggiamento,
mentale prima che
artistico, e quasi
un’esemplificazione
didattica,
è il restauro che
Borromini fece della
cattedrale di Roma, San Giovanni in
Laterano. Stravolta la
struttura della chiesa preesistente, l’antico è abolito,
ciò che ne resta è confinato
nelle nicchie che lungo le navate mostrano sculture d’impostazione
classica. E allora: perché scandalizzarsi se oggi nel tessuto
storico di una città d’arte s’inserisce la visionaria
costruzione di un architetto moderno? Si celebra, e giustamente,
l’operazione con cui Mendelssohn restituì al pubblico del primo
Ottocento una pagina che era uscita dal repertorio esecutivo, la
Passione secondo San Matteo di Bach. Intanto,
Mendelssohn l’operazione poté compierla perché l’insegnamento
di Bach, tramite i suoi allievi, non era stato mai interrotto. Il
maestro di Beethoven era stato un allievo di Bach. E il maestro di
Chopin, a Varsavia, l’allievo di un allievo di Bach. Ma se con la
macchina del tempo noi potessimo assistere al concerto
mendelssohniano, inorridiremmo, può darsi, tante e tali furono le
modificazioni, e attualizzazioni, imposte da Mendelssohn alla
partitura bachiana. Del resto, prima di lui, Mozart aveva
ristrumentato con gusto
moderno il Messia di
Handel. L’esperienza dell’antico cambia di epoca in epoca. Ogni
epoca coglie del passato ciò che sente più affine. O che affascina
proprio per la distanza, per la diversità. Come una sorta di
esotismo temporale, invece che geografico. Ma, attraverso quella
distanza, se ne può
cogliere,
anche, la contemporaneità. Euripide era un pacifista radicale.
Nell’Elena immagina che Elena non sia mai andata a Troia, ma che
gli dei abbiano costruito una nuvola, un fantasma, che le
assomigliava, e questa nuvola, questo fantasma Paride conduce a
Troia. Quando Menelao incontra la vera Elena in Egitto e scopre di
avere combattuto una guerra di dieci anni per una nuvola, per un
fantasma, si sente beffato, si dispera. Tutti quei morti, tutte
quelle sofferenze, per una nuvola, per un fantasma! si chiede. La
risposta di Elena è tranchant: ma per che cos’altro si fanno le
guerre se non per un fantasma? La filologia potrà dire che si
trattava di un altro tipo di guerra, che Euripide pensava al destino
della democrazia ateniese. Ma appurato poi tutto questo, resta perciò
la risposta di Elena meno attuale, anche oggi? Ecco, bisogna avere il
coraggio e la fantasia di viaggiare in molte epoche, conoscere molte
storie, molte vite, molte forme d’arte, per cogliere quanto c’è
di perenne, di continuo da un’epoca all’altra. Non
si tratta di essere antistoricistici, antifilologici, perché anzi
proprio la storia, proprio la filologia ci fanno comprendere le
differenze e le somiglianze. Il Seicento è un’epoca che ha molti
punti di affinità con la nostra. Soprattutto nell’arte. Si stava
abbandonando un sistema di equilibri formali e non si sapeva dove si
si sarebbe andati. Qualcuno ne restò giustamente disorientato. Di
questo disorientamento è testimone eccelso il teatro di Shakespeare.
Ma anche la pittura italiana dello stesso periodo. Caravaggio sopra
tutti. E la musica che conosce figure non meno grandi e non meno
irrequiete, disorientate: Monteverdi, Frescolbaldi. Si scopre la
soggettività del dolore, della gioia. L’individualità della
sofferenza. Si creano pertanto nuovi codici retorici che possano
rappresentarla, questa individualità della gioia, della sofferenza.
Ecco: rappresentarla. Le arti interagiscono. Si confrontano, si
rispecchiano, s’interrogano.
Artemisia
Gentileschi, figlia di Orazio Gentileschi, trasferisce nella sua
pittura la violenza subita, rappresenta sé stessa come Giuditta, e
come Oloferne Agostino Tassi, l’uomo che l’ha violentata. La
raffigurazione è di una violenza brutale. Una
donna stuprata è segnata per sempre da
quell’atto, umiliata, violata nell’animo oltre che nel corpo,
degradata da persona ad oggetto:
raffigurarla, quella violenza, più che un atto di vendetta, è
dunque una
richiesta di giustizia. Ecco allora che all’Accademia d’Arcadia e
al Teatro Anagoor viene l’idea di rappresentare il corto circuito
tra violenza e ricordo della violenza in una rappresentazione in cui
la raffigurazione visiva della violenza e l’espressione musicale
del dolore si rispecchiano l’un l’altra, attraverso
proiezioni su uno schermo di scene che ne evochino soprattutto la
brutalità e interpretazioni musicali che ce ne restituiscano il
clima sonoro, la cultura simbolica di quel momento che trasfigura in
poesia e canto il dolore. Sono pagine sublimi. Non solo le più
famose, di Monteverdi, Rossi, ma anche, e non a caso, quelle
di un’altra donna,
musicista invece che pittrice, Barbara Strozzi: i bellissimi “Udite,
amanti” e “Lagrime mie”. Si deve ad Alessandra Rossi Lürig
la scelta, affascinante, dei brani musicali. Il soprano Silvia
Frigato coglie perfettamente il senso del recitar cantando. Non solo
per la dizione chiarissima, ma soprattutto per la recitazione,
appunto, musicale, per la
recitazione del canto, un
canto cioè che si fa, che è esso stesso recitazione.
Questa è una musica che nasce dalla musica della parola, il
musicista non fa che estrarla dai suoni delle parole, come
Michelangelo dice che lo scultore fa delle figure dal blocco di
marmo, togliendo il “superfluo”. L’equilibrio tra intonazione
musicale
e dizione è prefetto, perché sono la stessa cosa, non è una
melodia che s’impone al testo, ma ciò
che si ascolta è la
melodia stessa del testo. Difficile spiegarlo. Bisogna ascoltarlo,
per cogliere la differenza che esiste tra questo dire la melodia e il
canto del cantante preoccupato, invece,
più della voce con cui deve cantare, che della parte che deve
cantare. Il che, da parte
dell’interprete attento alla dizione, alla recitazione della
melodia, non significa un
trascurare la voce, ma è
anzi un
piegarla a cogliere le sfumature della dizione canora, in cui dizione
e canto non si distinguono. Ciò richiede un’intonazione
impeccabile, una capacità di trascorrere più piani espressivi
pressoché inesauribile: doti tutte che Silvia Frigato esibisce con
mirabile naturalezza e fluidità espressiva. L’Accademia d’Arcadia
la sostiene con giusto equilibrio, e
gli strumenti a pizzico
da parte loro
gareggiano con la voce in flessibilità melodica. E poi ci sono i
brani strumentali, uno più bello dell’altro, le danze. Simone
Darai configura le visioni sullo schermo. Bravi tutti gli interpreti,
proprio per l’agire analogico e non realistico. Impressionante la
scena della decapitazione, schizza sangue a fiotti dal collo di
Oloferne, ma la testa non
si stacca mai. Sarebbe stato facile con effetti digitali
raffigurarla. Ma allora si sarebbe rappresentata una scena
realistica, il che non si voleva. Arte e vita non sono mai la stessa
cosa. L’arte è della
vita, più che la rappresentazione, il commento. Soprattutto a
teatro. E queste proiezioni sono teatro, i cui attori sono anche i
musicisti
sulla scena. In somma, uno spettacolo ch’è difficile dimenticare.
Per la lucidità e la consapevolezza con cui è stato immaginato,
costruito, realizzato. Il pubblico, assai folto, accorso alla
rappresentazione romana, per il Festival Romaeuropa, alla Pelanda del
Macro, a Testaccio, ha giustamente alla fine applaudito tutti con
grande convinzione e calore.
Fiano
Romano, 15 novembre 2018
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