giovedì 15 novembre 2018

Romaeuropa Festival 2018, Anagoor, Et manchi pietà

ANAGOOR
ACCADEMIA D’ARCADIA
ET MANCHI PIETÀ
Artemisia Gentileschi e le musiche del suo tempo

Forse si riflette troppo poco al fatto che, al di là degli stili e dei modi di costruire un’opera d’arte – che sia una una musica, una poesia, un quadro –, c’è un atteggiamento del pensiero, da parte dell’artista, che lega, anche profondamente, personalità tra di loro lontane nello spazio e nel tempo. Ed è probabilmente proprio quest’affinità del pensare che commuove l’uomo di oggi quando ascolta un madrigale di Monteverdi, legge una poesia di Catullo, guarda un quadro di Rembrandt. C’è chi opporrà che invece la filologia c’insegna a distinguere, a notare le differenze, e che leggere e guardare e ascoltare, attualizzata, l’opera del passato, è un tradirla, un non coglierne le intenzioni autentiche. Ma siamo sicuri? E che cosa è l’autenticità? Sono autentici anche gli occhi, gli orecchi, la mente di secoli dopo? Basta pensare all’effetto che ci fanno oggi i film muti, oggetti o incomprensibili o addirittura ridicoli agli occhi di oggi. Certo, una volgare, banale, e semplificatrice operazione che modernizzi l’opera è comunque sempre fuorviante. Ma non sarà, invece, che proprio la filologia ci aiuterà a scoprirne l’attualità perenne, il moderno dell’antico? Troppo spesso si dimentica che ciò che a noi oggi appare antico, all’epoca si percepiva moderno. E come si restituisce questa percezione del moderno del passato, di ciò che nel passato appariva moderno? Che cos’è, per esempio, il barocco, in architettura, se non l’inserimento del moderno in un contesto antico? Capolavoro estremo di questo atteggiamento, mentale prima che artistico, e quasi un’esemplificazione didattica, è il restauro che Borromini fece della cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano. Stravolta la struttura della chiesa preesistente, l’antico è abolito, ciò che ne resta è confinato nelle nicchie che lungo le navate mostrano sculture d’impostazione classica. E allora: perché scandalizzarsi se oggi nel tessuto storico di una città d’arte s’inserisce la visionaria costruzione di un architetto moderno? Si celebra, e giustamente, l’operazione con cui Mendelssohn restituì al pubblico del primo Ottocento una pagina che era uscita dal repertorio esecutivo, la Passione secondo San Matteo di Bach. Intanto, Mendelssohn l’operazione poté compierla perché l’insegnamento di Bach, tramite i suoi allievi, non era stato mai interrotto. Il maestro di Beethoven era stato un allievo di Bach. E il maestro di Chopin, a Varsavia, l’allievo di un allievo di Bach. Ma se con la macchina del tempo noi potessimo assistere al concerto mendelssohniano, inorridiremmo, può darsi, tante e tali furono le modificazioni, e attualizzazioni, imposte da Mendelssohn alla partitura bachiana. Del resto, prima di lui, Mozart aveva ristrumentato con gusto moderno il Messia di Handel. L’esperienza dell’antico cambia di epoca in epoca. Ogni epoca coglie del passato ciò che sente più affine. O che affascina proprio per la distanza, per la diversità. Come una sorta di esotismo temporale, invece che geografico. Ma, attraverso quella distanza, se ne può cogliere, anche, la contemporaneità. Euripide era un pacifista radicale. Nell’Elena immagina che Elena non sia mai andata a Troia, ma che gli dei abbiano costruito una nuvola, un fantasma, che le assomigliava, e questa nuvola, questo fantasma Paride conduce a Troia. Quando Menelao incontra la vera Elena in Egitto e scopre di avere combattuto una guerra di dieci anni per una nuvola, per un fantasma, si sente beffato, si dispera. Tutti quei morti, tutte quelle sofferenze, per una nuvola, per un fantasma! si chiede. La risposta di Elena è tranchant: ma per che cos’altro si fanno le guerre se non per un fantasma? La filologia potrà dire che si trattava di un altro tipo di guerra, che Euripide pensava al destino della democrazia ateniese. Ma appurato poi tutto questo, resta perciò la risposta di Elena meno attuale, anche oggi? Ecco, bisogna avere il coraggio e la fantasia di viaggiare in molte epoche, conoscere molte storie, molte vite, molte forme d’arte, per cogliere quanto c’è di perenne, di continuo da un’epoca all’altra. Non si tratta di essere antistoricistici, antifilologici, perché anzi proprio la storia, proprio la filologia ci fanno comprendere le differenze e le somiglianze. Il Seicento è un’epoca che ha molti punti di affinità con la nostra. Soprattutto nell’arte. Si stava abbandonando un sistema di equilibri formali e non si sapeva dove si si sarebbe andati. Qualcuno ne restò giustamente disorientato. Di questo disorientamento è testimone eccelso il teatro di Shakespeare. Ma anche la pittura italiana dello stesso periodo. Caravaggio sopra tutti. E la musica che conosce figure non meno grandi e non meno irrequiete, disorientate: Monteverdi, Frescolbaldi. Si scopre la soggettività del dolore, della gioia. L’individualità della sofferenza. Si creano pertanto nuovi codici retorici che possano rappresentarla, questa individualità della gioia, della sofferenza. Ecco: rappresentarla. Le arti interagiscono. Si confrontano, si rispecchiano, s’interrogano.
Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio Gentileschi, trasferisce nella sua pittura la violenza subita, rappresenta sé stessa come Giuditta, e come Oloferne Agostino Tassi, l’uomo che l’ha violentata. La raffigurazione è di una violenza brutale. Una donna stuprata è segnata per sempre da quell’atto, umiliata, violata nell’animo oltre che nel corpo, degradata da persona ad oggetto: raffigurarla, quella violenza, più che un atto di vendetta, è dunque una richiesta di giustizia. Ecco allora che all’Accademia d’Arcadia e al Teatro Anagoor viene l’idea di rappresentare il corto circuito tra violenza e ricordo della violenza in una rappresentazione in cui la raffigurazione visiva della violenza e l’espressione musicale del dolore si rispecchiano l’un l’altra, attraverso proiezioni su uno schermo di scene che ne evochino soprattutto la brutalità e interpretazioni musicali che ce ne restituiscano il clima sonoro, la cultura simbolica di quel momento che trasfigura in poesia e canto il dolore. Sono pagine sublimi. Non solo le più famose, di Monteverdi, Rossi, ma anche, e non a caso, quelle di un’altra donna, musicista invece che pittrice, Barbara Strozzi: i bellissimi “Udite, amanti” e “Lagrime mie”. Si deve ad Alessandra Rossi Lürig la scelta, affascinante, dei brani musicali. Il soprano Silvia Frigato coglie perfettamente il senso del recitar cantando. Non solo per la dizione chiarissima, ma soprattutto per la recitazione, appunto, musicale, per la recitazione del canto, un canto cioè che si fa, che è esso stesso recitazione. Questa è una musica che nasce dalla musica della parola, il musicista non fa che estrarla dai suoni delle parole, come Michelangelo dice che lo scultore fa delle figure dal blocco di marmo, togliendo il “superfluo”. L’equilibrio tra intonazione musicale e dizione è prefetto, perché sono la stessa cosa, non è una melodia che s’impone al testo, ma ciò che si ascolta è la melodia stessa del testo. Difficile spiegarlo. Bisogna ascoltarlo, per cogliere la differenza che esiste tra questo dire la melodia e il canto del cantante preoccupato, invece, più della voce con cui deve cantare, che della parte che deve cantare. Il che, da parte dell’interprete attento alla dizione, alla recitazione della melodia, non significa un trascurare la voce, ma è anzi un piegarla a cogliere le sfumature della dizione canora, in cui dizione e canto non si distinguono. Ciò richiede un’intonazione impeccabile, una capacità di trascorrere più piani espressivi pressoché inesauribile: doti tutte che Silvia Frigato esibisce con mirabile naturalezza e fluidità espressiva. L’Accademia d’Arcadia la sostiene con giusto equilibrio, e gli strumenti a pizzico da parte loro gareggiano con la voce in flessibilità melodica. E poi ci sono i brani strumentali, uno più bello dell’altro, le danze. Simone Darai configura le visioni sullo schermo. Bravi tutti gli interpreti, proprio per l’agire analogico e non realistico. Impressionante la scena della decapitazione, schizza sangue a fiotti dal collo di Oloferne, ma la testa non si stacca mai. Sarebbe stato facile con effetti digitali raffigurarla. Ma allora si sarebbe rappresentata una scena realistica, il che non si voleva. Arte e vita non sono mai la stessa cosa. L’arte è della vita, più che la rappresentazione, il commento. Soprattutto a teatro. E queste proiezioni sono teatro, i cui attori sono anche i musicisti sulla scena. In somma, uno spettacolo ch’è difficile dimenticare. Per la lucidità e la consapevolezza con cui è stato immaginato, costruito, realizzato. Il pubblico, assai folto, accorso alla rappresentazione romana, per il Festival Romaeuropa, alla Pelanda del Macro, a Testaccio, ha giustamente alla fine applaudito tutti con grande convinzione e calore.

Fiano Romano, 15 novembre 2018

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