DINO VILLATICO
BEETHOVEN, FIDELIO
BIBLIOGRAFIA
Oltre alla bibliografia generale e specifica già segnalate nella
bibliografia del primo corso, sulle strategie compositive,
sono utili i seguenti studi:
Sul teatro tra Settecento e Ottocento:
Cesare Molinari, Storia del Teatro, Roma-Bari, Editori
Laterza, 200312. In particolare i capp. 22°, Germania
culla del repertorio europeo, e 23°, Verso il teatro
borghese, pagg. 175-188.
Roberto Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Roma-Bari
Editori Laterza, 1995.
Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani, Teatro e spettacolo nel
primo Ottocento, Roma-Bari, Editori Laterza, 1991.
Sul teatro musicale dell’età di Beethoven:
The New Oxford History of Music. VIII
Gerald Abraham, Winron Dean, The Age of Beethoven (1790-1830)
(trad. it. di Gabriele Dotto, Donata Aldi e Alessandra Lucioli, Il
teatro musicale nell’età di Beethoven, Milano, Feltrinelli,
1991).
Utile, per un panorama della produzione musicale, teatrale e no, dal
1789 al 1827: Gerhard Dietel, Musikgeschichte in Daten,
Kassel, Bärenreiter, 1994.
Sul Fidelio:
L. van Beethoven, Fidelio, testo di J. Sonnleithner e G.F.
Tritschke. Libretto. “Testi musicati in lingua originale con
traduzione a fronte”. Con un saggio introduttivo di Quirino
Principe, Milano, Ariele, 1995.
Willy Hess, Das Fidelio-Buch, Winterthur, Amadeus-Verlag,
1986.
Paul Robinson, Fidelio, “Cambridge Opera Handbooks”,
Cambridge, 1991.
Daniel Banda, Beethoven: Fidelio,
une écoute ressentie, Paris,
L’Harmittan, 1999.
Beethovens langer Weg zum “Fidelio”,
in Opernkomposition als Prozess,
a cura di Werner Breig, Bärenreiter, 1996.
Michael C. Tusa, The
Unknown Florestan: The 1805 Version of “In des Lebens
Frühlingstagen, in JAMS 1993.
Philip Gossett, The
Arias of Marzelline: Beethoven as Composer of Opera,
in Beethoven-Jahrbuch II/10, 1978-81.
Fedele d’Amico, La faticosa nascita del “Fidelio”,
programma di sala per la stagione 1976-77 del Teatro dell’Opera di
Roma.
Giovanni Carli Ballola, Un’opera diversa, programma di sala
del 15 marzo 1990 per il Teatro Comunale Giuseppe verdi di Trieste.
Anselm Gerhard, O Dio! Quale istante!, programma di sala del
24 aprile 1998 per il Teatro La Fenice di Venezia. Sullo stesso
programma: Stéphane Braunschweig, Interrogarsi sulla libertà.
E’ la riflessione intelligente di un regista intelligente. E così
il Fidelio, nato per il teatro, viene restituito al teatro.
Ottima la voce Fidelio, nel New Grove’s Dictionary of
Opera, London, Macmillan, 1992, II, pagg. 182-186.
Utile visitare il sito della Beethoven-Haus di Bonn:
www.beethoven-haus-bonn.de.
La sezione Musica in scena del DEUMM, che dovrebbe
corrispondere al Grove Opera, scandalosamente ne fa solo una
breve menzione (appena cinque paginette), nel quarto volume (Torino,
UTET, 1995), alle pagg. 172-176, nella sezione dedicata al Singspiel,
firmata da Elisabetta Pirolo. Molte sono le inesattezze e le
approssimazioni: tra l’altro non si fa cenno all’influsso
determinante dell’opéra-comique francese e manca qualsiasi
accenno d’un’analisi musicale (il Grove specifica per esempio le
forme musicali adottate da Beethoven per ciascun numero della
partitura, precisazione indispensabile, visto che la forma delle arie
non è mai quella del melodramma italiano, ma o deriva
dall’opéra-comique francese o è addirittura elaborata
nella forma-sonata, come l’aria di Pizzarro nel primo atto).
In compenso si giudica negativamente la scrittura vocale
beethoveniana: “Beethoven, piaccia o no agli encomiasti, era un
musicista nato per la musica strumentale1
e a dimostrarne la tesi basterebbero i Lieder - bellissimi -
composti con musicalità ed itensità emotiva immense ma nell’insieme
inadatti a quel delicatissimo strumento musicale che è la voce
umana: la concezione delle frasi, la posizione dei respiri, la scelta
delle dinamiche, soprattutto, non tengono conto assai spesso di
elementari difficoltà fisiologiche, come quella, ad esempio, di
iniziare con un forte a voce non riscaldata (Mignon, op.75, n.1)”.
Che dire? A parte l’erronea scrittura del numero d’opera (“op.75,
n. 1” invece di op. 75 n.1), si tratta della solita vecchia,
sbagliata concezione italocentrica della vocalità. Beethoven scrive
difficile, in maniera antifisiologica, non solo per la voce,
ma per tutti, anche per gli strumenti. Quanto alla voce “non
riscaldata”, un cantante serio se la scalda prima del concerto o
della rappresentazione in camerino. Inoltre lo sforzo richiesto
talora al cantante fa parte del carattere espressivo del pezzo: teso
talora tra il sussurro e il grido. Il modello è già in Gluck e in
Cherubini, oltre che in Spontini (gli ultimi due sono italiani!)
Inoltre è vero che Beethoven usa una scrittura strumentale anche per
la voce, ma prima di lui, oltre ai musicisti sopra citati, lo
facevano sia Bach che Vivaldi. Che poi Beethoven adotti per molte
arie una forma strumentale, al posto di quella dell’aria, non solo
non è una novità (lo fa anche Mozart, e la famosa aria “Che farò
senza Euridice” dall’Orfeo di Gluck non è un’aria, ma
un rondò. Beethoven non fa che inserirsi in un processo di
trasformazione delle forme del melodramma, cominciato da Gluck e da
Mozart (ma affiancati da Salieri, Jommelli,Traetta, e nelle sue
oltime opere, anche da Cimarosa). Tale processo, che ha origine
nell’opéra-comique francese, conduce da una parte a Weber,
Wagner, Strauss e Berg (che però resta fedele al pezzo chiuso)
e dall’altra al rinnovamento operato da Rossini e proseguito da
Verdi (Donizetti e Bellini sono una parentesi dal punto di vista
formale quasi insignificante), la sintesi dei due processi si ha nel
teatro musicale russo.
1
Ah sì? E la Nona, la Missa solemnis, le musiche di
scena per Egmont, Le rovine di Atene e Leonore
Prohaska? Bontà sua, la Pirolo riconosce, però, che i Lieder
sono “bellissimi”!
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