lunedì 24 settembre 2018

Muta Imago: Combattimento







Muta Imago: Combattimento

A volte il teatro è qualcosa che va fuori del teatro. Ma proprio perché la rappresentazione ci scaraventa in un oltre, in un altro, è in realtà teatro. Il teatro è sempre un oltre, un altro dalla rappresentazione. Come quando Sigismondo, nella Vita è sogno di Calderón de la Barca riflette che nella vita tutti sognano ciò che sono. La riflessione nasce dalla sua esperienza, ha creduto di uscire dalla torre dove vive prigioniero e di trovarsi nel palazzo del re, riverito, onorato. Ma gli hanno detto ch’è stato un sogno. In quel momento lo spettatore si chiede quanto ci sia di irreale anche nella propria vita. Ecco allora che il personaggio di Sigismondo in quel momento è sé stesso e altri da sé stesso: l’azione si svolge in Polonia, ma lo spettatore la riferisce a sé stesso, in Spagna, in Italia, in Francia, in Inghilterra. L’individuale, come spiega bene Aristotele, si fa universale. Ma forse, questo, non vale solo per il teatro. E’ questa anche la sostanza, la natura della poesia, della musica, dell’arte. E’ il nodo in cui si condensa, in ogni attività umana, il significato, qualunque significato, è quanto accade ogni volta che ci confrontiamo con la natura del linguaggio. Il linguaggio nomina l’assente. Quando dico “la città di Londra” e lo dico in una casa di Madrid, Londra non c’è, ma è presente nel linguaggio, nella parola che la evoca. Il teatro, in ogni rappresentazione, ci presenta l’assente, l’altro, che noi riferiamo sempre a noi stessi.

Questa, comunque, non vuole essere né una critica teatrale né la recensione di uno spettacolo di danza o, più esattamente, di teatro-danza. Sono, invece, queste righe, nient’altro che riflessioni trasversali sulla natura del teatro, sul senso di fare teatro oggi. Trasversali perché partono da un avvenimento concreto, da una rappresentazione reale, che ho visto a Roma. Non ci si meravigli, però, dell’arditezza del proposito: a volte si mira il tiro più in alto del bersaglio per essere certi di colpirlo. Del resto, già dal primo studio scientifico sul teatro, la Poetica di Aristotele, si coglie un aspetto essenziale del genere: che esso è azione. Non è dunque la scrittura di un testo, che poi viene recitato sulla scena, o la partitura di una musica che accompagni la recitazione. Sia detto chiaramente, e non ci si strappi le vesti per qualche alloro deturpato, per qualche gloria detronizzata, ma si ha teatro solo quando si assiste alla recita, si ha musica solo quando se ne ascolta l’esecuzione. La scrittura, sia quella verbale che quella musicale, e cioè il testo letterario, la partitura, non sono, per restare nell’ambito della teorizzazione aristotelica, che teatro e musica in potenza: l’atto è la recita, l’esecuzione. L’opera letteraria, un copione. La partitura, un appunto, l’indicazione scritta per la realizzazione sonora.

Se non si entra in questa prospettiva da cui osservare il fenomeno, non si capisce che cosa si stia vedendo, che cosa si stia ascoltando; anzi, ancora più radicalmente, non si capisce che cosa e perché si reciti, che cosa e perché si suoni. Il teatro e la musica - ma anche la danza - hanno in comune il fatto che ciò che sembra il punto terminale, cioè la scrittura, la concezione, il disegno dei movimenti, sono invece solo la premessa per la realizzazione di ciò che chiamiamo teatro, musica, danza. La scrittura è un appunto per la memoria. Prima che venisse scritta, la poesia si è trasmessa di bocca in bocca, per via esclusivamente orale. Ciò non significa che la scrittura sia indifferente, trascurabile, o secondaria. Il valore letterario di un testo non è affatto indifferente alla qualità della recita di un dramma. E ancora meno indifferente alla riuscita dello spettacolo è l’organizzazione drammaturgica degli eventi. La precisione con cui sono segnate sul pentagramma le indicazioni per l’esecuzione, la complessità stessa della concezione strutturale di una musica, non sono affatto indifferenti alla bellezza della musica che si ascolterà. Il lavoro di preparazione, gli esercizi di abilità nei movimenti del corpo, la fantasia e l’invenzione di nuove fantasmagorie gestuali, non sono indifferenti alla perfezione di una danza. Ma è il risultato finale che conta, e conta anche se solo immaginato nel momento in cui si legge il copione, la partitura, si considera il disegno dei gesti. Wagner, questo, l’aveva capito benissimo. Il dramma non è il libretto e nemmeno la partitura, ma l’attuazione sulla scena, in cui confluiscono insieme testo letterario e partitura, raccordati dalla coreografia, vale a dire dalla realizzazione di una drammaturgia.

Tutte queste riflessioni mi sono venute, come scrivevo più sopra, guardando uno spettacolo visto a Roma, nell’ambito della rassegna Short Theatre, presentata nello spazio della Pelanda, all’ex-mattatoioio di Testaccio: Cambattimento, ideato e realizzato da Muta Imago, una compagnia teatrale che lavora tra Roma e Bruxelles. La regia è di Claudia Sorace, la drammaturgia, sia teatrale sia musicale, di Riccardo Fazi. Attrici, e insieme danzatrici, o qualcosa di più, di diverso, direi creatrici, persone, nel senso etimologico del termine, e cioè maschere, in questo caso maschere rituali, o per dirla all’inglese con termine onnicomprensivo, performers, del bellissimo spettacolo sono due giovani donne, bravissime, coinvolgenti, affascinanti: Annamaria Aimone e Sara Leghissa. Lo spettacolo, dopo Roma, gira per l’Italia. Chi può dunque trovarselo vicino casa, vada a vederlo. 

 

Le musiche, scelte da Riccardo Fazi, il drammaturgo dello spettacolo, funzionano un po’ come il supporto ritmico di tutta l’azione. Esse sono:

1) Exotourisme - Soiré
2) Chancha via circuito - Quimey Neuquén (Pedro Canale)
3) Cumbia en moog - Cumbia de sal
4) Exotourisme - Happening en abyme
5) Ennio Morricone - L'arena
6) Ennio Morricone - Il ritorno di Ringo

Ma si sbaglierebbe a giudicare il senso e il valore dello spettacolo dal senso e dal valore di queste musiche. Esse sono, appunto, solo un supporto, una guida ritmica, una sottotraccia dell’azione, il sottotesto del testo, che in questo caso è lo spettacolo. Impariamo a vedere anche in una rappresentazione teatrale un testo. E come ogni testo, anche la rappresentazione teatrale ha sottotesti, citazioni, associazioni, suggerimenti, allusioni. Qualche parola delle canzoni si associa inaspettatamente, e visionariamente, violentemente, ai gesti delle due attrici e danzatrici, spiazzano lo spettatore, lo distolgono dall’immediato per inserirlo in un campo più vasto di significati. Come quando si chiede di lasciare libera l’associazione delle immagini o delle parole a un’immagine e a una parole di partenza. Come quando ci si sottopone al test di Rorschack. Allora il senso non andrà cercato nella corrispondenza tra parola e gesto, bensì nel campo delle suggestioni, dei suggerimenti, delle emozioni che ogni accostamento potrà suscitare nello spettatore.

All’inizio le due attrici (le chiameremo da ora in poi sempre così, attrici, soltanto attrici, non perché siano davvero solo “attrici”, ciò limiterebbe il campo della loro azione teatrale, ma proprio perché nel termine c’è la radice della parola che dice l’azione, il dramma – che è poi dire azione in greco -, all’inizio, dunque, le due attrici si confrontano l’una accanto all’altra, l’una con l’altra, l’una contro l’altra, e stanno ritte, in atto di sfida, ogni tanto si guardano. Indossano solo calzoncini e maglietta, neri. Per terra, sulla scena, giacciono diversi oggetti, piume, copricapi piumati, una lunga asta flessibile, stesa sul pavimento, che subito una delle due attrici impugna, potrebbe essere la spada della Forza che si vede in Guerre Stellari. E a una guerra ci prepara il confronto delle due donne. “Combattimento indaga il concetto di amore come guerra”, chiarisce nelle note di sala il drammaturgo. Si pensa subito, anche per via del centenario, al Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi. Del resto già Tasso nell’episodio del cavaliere cristiano che sfida il guerriero musulmano, ignorando che sia invece la donna amata armatasi da cavaliere, gioca sull’ambiguità del duello come lotta amorosa. I due si stringono, si abbracciano, si divincolano, si confrontano con l’intento reciproco di uccidersi, ma se si scoprissero, se si togliessero l’elmo, si vedessero in faccia e si riconoscessero, è a un’altra morte che penserebbero. Nel linguaggio poetico rinascimentale morire, infatti, è sinonimo di venire (che anch’esso è una metafora, un termine dal senso figurato), avere un orgasmo. Un bellissimo madrigale del IV Libro comincia proprio con un’esplicita allusione all’atto di eiaculare: “Sì, ch’io vorrei morire”. E più avanti il madrigale esplode in interiezioni erotiche; “Ahi, bocca! Ahi, lingua!” per concludersi con il riaffermare l’attacco di propositi espliciti di eiaculazione: “Sì, ch’io vorrei morire”. In francese, del resto, l’orgasmo si chiama “petite mort”.

Ma tutto questo, nella rappresentazione, è invece la premessa, il sottinteso, cui si allude solo nel titolo: Combattimento. La rappresentazione esplora altri territori. Appena una delle due attrici comincia a indossare qualcuno degli oggetti piumati che giacciono per terra, la fantasia vola agli sciamani dell’Africa, o dell’Asia, o piuttosto dell’America Centrale, ai Maia, agli Aztechi. Si pensa al Serpente Piumato, che salva dal dolore. Ai sacrificati dai quali si estrae il cuore che dà vita al Sole. Ma poi anche l’altra attrice indossa le piume, si copre la testa con un copricapo piumato. E allora le attrici si confrontano come due galli, la vittoria dell’uno significherà la morte dell’altro. Il combattimento è per la vita, è la vita, che eguaglia alla fine i contendenti, li denuda, li spoglia delle piume, li mostra nudo corpo che respira, che ansima, si accoppia, si disgiunge, si disgrega, fragile carne che muore. Quasi ci si sorprende, poi, a rivederle alla fine sorridenti, le due attrici, a vederle che s’inchinano e ringraziano il pubblico per gli applausi.

Per circa 50 minuti, dunque, la vita l’abbiamo vista agire – eh già! azione, di nuovo, dramma, teatro – sotto i nostri occhi. Ci siamo, anzi, sentiti toccati da un senso della vita che ci sconvolge, che ci è sembrato dapprima estraneo, ma poi via via più intimo, più terribile. Lassù, sulla scena, quelle due agitate marionette – eh sì! sembravano anche questo, marionette: perché no, Kleist, Pentesilea? – marionette che si contorcevano, convulse, su sé stesse, marionette che eravamo noi, e rappresentata noi vedevamo lassù la nostra stessa vita. Freud, questo, lo chiamerebbe transfert. Aristotele, meno psicologico, ma più concreto, perché va più a fondo nella natura del rapporto che l’uomo ha con la propria vita, del rapporto che con la vita ristabilisce il teatro, la chiama catarsi, purificazione, e cioè riconoscimento del male da cui ci liberiamo. Ecco, uno spettacolo così, senza parole, con i soli gesti, ci riconduce, per la sola forza dell’azione, al gesto primario della vita: che è respirare. Il respiro, per tutto lo spettacolo, comincia, dapprima circoscritto e raccolto in uno sguardo, e poi si evolve, si espande, significa tante cose, finisce. Si coniuga, anche, con altri respiri. Vi si rispecchia. Ma è sempre lo stesso gioco: quello della vita e della morte, dell’amore che unisce e dell’amore che distrugge. Dell’amore che è anelito di annientamento, l’immedesimamento con l’altro che è anche, però, l’eliminazione di sé stesso nell’eliminazione dell’altro.

Lucrezio, questo incontrarsi e scontrasi degli amanti, questa reciproca distruzione scatenata dal desiderio d’immedesimazione, lo racconta insuperabilmente nel quarto libro del De rerum natura. Gli amanti aspirano a una congiunzione, a una penetrazione irreversibile dell’uno nell’altro, a un’immedesimazione che non potranno mai raggiungere, mai attuare, e che convulsamente, spasmodicamente, oggi diremmo nevroticamente, ripetono e ripetono ancora all’infinito nella speranza di raggiungerla, ma ciò che raggiungono è solo il reciproco annientamento, la reciproca distruzione. Come se per gli amanti l’unico vero esito dell’amore fosse suicidarsi: il suicidio attuato da entrambi proprio nell’atto stesso di amarsi. Si dice dormire insieme, ma, se ci pensate bene, ciascuno dorme da sé, per sé solo, senza percepire il sonno dell’altro.

Sta qui la domanda, the question, direbbe Amleto, sta qui rappresentato il terribile dell’esserci, l’inestricabile groviglio dell’esistenza. Il teatro, rappresentandolo, questo groviglio, pronunciandola, questa domanda, non ci dà nessuna risposta, non può, nessuno può, nemmeno un dio, se potessimo ascoltarlo, ma ci fa capire come formularla, questa domanda che chiede, esige la soluzione dell’enigma. Edipo rispose: l’uomo. Il teatro continua a darci questa stessa risposta, da sempre: l’uomo. Ma non è una vera risposta. E’ sempre di nuovo l’enigma della Sfinge, ma questa volta formulato non più come un indovinello, bensì con la chiarezza, anzi con l’evidenza, della visione, della realtà: in una parola, della rappresentazione. Se è vero che l’uomo è l’unico animale che possieda il linguaggio, e che il linguaggio è l’unico strumento con cui l’uomo conosce il mondo, allora il teatro è la rappresentazione del mondo, perché tutto ciò che mostra è il linguaggio con cui racconta il mondo. O meglio, il racconto che mette tutte le carte sulla tavola. Ciascuna un enigma, nessuna una risposta. Eppure l’enigma che la Sfinge pose ad Edipo e l’enigma che il teatro ci rappresenta sulla scena hanno in comunque questo: che si risponde a rischio della vita. Una partita all’ultimo sangue, vale a dire all’ultimo significato. Non rispondere, non trovare risposta, è il rischio che si corre non solo sulla scena, ma nella vita. E la scena rispecchia proprio questo rischio.

Fiano Romano, 24 settembre 2018


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