Muta
Imago: Combattimento
A
volte il teatro è qualcosa che va fuori del teatro. Ma proprio
perché la rappresentazione ci scaraventa in un oltre, in un altro, è
in realtà teatro. Il teatro è sempre un oltre, un altro dalla
rappresentazione. Come quando Sigismondo, nella Vita è sogno
di Calderón
de la Barca riflette che nella vita tutti sognano ciò che sono. La
riflessione nasce dalla sua esperienza, ha creduto di uscire dalla
torre dove vive prigioniero e di trovarsi nel palazzo del re,
riverito, onorato. Ma gli hanno detto ch’è stato un sogno. In quel
momento lo spettatore si chiede quanto ci sia di irreale anche nella
propria vita. Ecco allora che il personaggio di Sigismondo in quel
momento è sé stesso e altri da sé stesso: l’azione si svolge in
Polonia, ma lo spettatore la riferisce a sé stesso, in Spagna, in
Italia, in Francia, in Inghilterra. L’individuale, come spiega bene
Aristotele, si fa universale. Ma forse, questo, non vale solo
per il teatro. E’ questa anche la sostanza, la natura della poesia,
della musica, dell’arte. E’ il nodo in cui si condensa, in ogni
attività umana, il significato, qualunque significato, è quanto
accade ogni volta che ci confrontiamo con la natura del linguaggio.
Il linguaggio nomina l’assente. Quando dico “la città di Londra”
e lo dico in una casa di Madrid, Londra non c’è, ma è presente
nel linguaggio, nella parola che la evoca. Il teatro, in ogni
rappresentazione, ci presenta l’assente, l’altro, che noi
riferiamo sempre a noi stessi.
Questa,
comunque, non vuole essere né una critica teatrale né la recensione
di uno spettacolo di danza o, più esattamente, di teatro-danza.
Sono, invece, queste righe, nient’altro che riflessioni trasversali
sulla natura del teatro, sul senso di fare teatro oggi. Trasversali
perché partono da un avvenimento concreto, da una rappresentazione
reale, che ho visto a Roma. Non ci si meravigli, però,
dell’arditezza del proposito: a volte si mira il tiro più in alto
del bersaglio per essere certi di colpirlo. Del resto, già dal primo
studio scientifico sul teatro, la Poetica di Aristotele, si
coglie un aspetto essenziale del genere: che esso è azione. Non è
dunque la scrittura di un testo, che poi viene recitato sulla scena,
o la partitura di una musica che accompagni la recitazione. Sia detto
chiaramente, e non ci si strappi le vesti per qualche alloro
deturpato, per qualche gloria detronizzata, ma si ha teatro solo
quando si assiste alla recita, si ha musica solo quando se ne ascolta
l’esecuzione. La scrittura, sia quella verbale che quella musicale,
e cioè il testo letterario, la partitura, non sono, per restare
nell’ambito della teorizzazione aristotelica, che teatro e musica
in potenza: l’atto è la recita, l’esecuzione. L’opera
letteraria, un copione. La partitura, un appunto, l’indicazione
scritta per la realizzazione sonora.
Se
non si entra in questa prospettiva da cui osservare il fenomeno, non
si capisce che cosa si stia vedendo, che cosa si stia ascoltando;
anzi, ancora più radicalmente, non si capisce che cosa e perché si
reciti, che cosa e perché si suoni. Il teatro e la musica - ma anche
la danza - hanno in comune il fatto che ciò che sembra il punto
terminale, cioè la scrittura, la concezione, il disegno dei
movimenti, sono invece solo la premessa per la realizzazione di ciò
che chiamiamo teatro, musica, danza. La scrittura è un appunto per
la memoria. Prima che venisse scritta, la poesia si è trasmessa di
bocca in bocca, per via esclusivamente orale. Ciò non significa che
la scrittura sia indifferente, trascurabile, o secondaria. Il valore
letterario di un testo non è affatto indifferente alla qualità
della recita di un dramma. E ancora meno indifferente alla riuscita
dello spettacolo è l’organizzazione drammaturgica degli eventi. La
precisione con cui sono segnate sul pentagramma le indicazioni per
l’esecuzione, la complessità stessa della concezione strutturale
di una musica, non sono affatto indifferenti alla bellezza della
musica che si ascolterà. Il lavoro di preparazione, gli esercizi di
abilità nei movimenti del corpo, la fantasia e l’invenzione di
nuove fantasmagorie gestuali, non sono indifferenti alla perfezione
di una danza. Ma è il risultato finale che conta, e conta anche se
solo immaginato nel momento in cui si legge il copione, la partitura,
si considera il disegno dei gesti. Wagner, questo, l’aveva capito
benissimo. Il dramma non è il libretto e nemmeno la partitura, ma
l’attuazione sulla scena, in cui confluiscono insieme testo
letterario e partitura, raccordati dalla coreografia, vale a dire
dalla realizzazione di una drammaturgia.
Tutte
queste riflessioni mi sono venute, come scrivevo più sopra,
guardando uno spettacolo visto a Roma, nell’ambito della rassegna
Short Theatre, presentata nello spazio della Pelanda,
all’ex-mattatoioio di Testaccio: Cambattimento, ideato e
realizzato da Muta Imago, una compagnia teatrale che lavora tra Roma
e Bruxelles. La regia è di Claudia Sorace, la drammaturgia, sia
teatrale sia musicale, di Riccardo Fazi. Attrici, e insieme
danzatrici, o qualcosa di più, di diverso, direi creatrici, persone,
nel senso etimologico del termine, e cioè maschere, in questo caso
maschere rituali, o per dirla all’inglese con termine
onnicomprensivo, performers, del bellissimo spettacolo sono due
giovani donne, bravissime, coinvolgenti, affascinanti: Annamaria
Aimone e Sara Leghissa. Lo spettacolo, dopo Roma, gira per l’Italia.
Chi può dunque trovarselo vicino casa, vada a vederlo.
Le
musiche, scelte da Riccardo Fazi, il drammaturgo dello spettacolo,
funzionano un po’ come il supporto ritmico di tutta l’azione.
Esse sono:
1)
Exotourisme - Soiré
2)
Chancha via circuito - Quimey Neuquén (Pedro Canale)
3)
Cumbia en moog - Cumbia de sal
4)
Exotourisme - Happening en abyme
5)
Ennio Morricone - L'arena
6)
Ennio Morricone - Il ritorno di Ringo
Ma
si sbaglierebbe a giudicare il senso e il valore dello spettacolo dal
senso e dal valore di queste musiche. Esse sono, appunto, solo un
supporto, una guida ritmica, una sottotraccia dell’azione, il
sottotesto del testo, che in questo caso è lo spettacolo. Impariamo
a vedere anche in una rappresentazione teatrale un testo. E come ogni
testo, anche la rappresentazione teatrale ha sottotesti, citazioni,
associazioni, suggerimenti, allusioni. Qualche parola delle canzoni
si associa inaspettatamente, e visionariamente, violentemente, ai
gesti delle due attrici e danzatrici, spiazzano lo spettatore, lo
distolgono dall’immediato per inserirlo in un campo più vasto di
significati. Come quando si chiede di lasciare libera l’associazione
delle immagini o delle parole a un’immagine e a una parole di
partenza. Come quando ci si sottopone al test di Rorschack. Allora il
senso non andrà cercato nella corrispondenza tra parola e gesto,
bensì nel campo delle suggestioni, dei suggerimenti, delle emozioni
che ogni accostamento potrà suscitare nello spettatore.
All’inizio
le due attrici (le chiameremo da ora in poi sempre così, attrici,
soltanto attrici, non perché siano davvero solo “attrici”, ciò
limiterebbe il campo della loro azione teatrale, ma proprio perché
nel termine c’è la radice della parola che dice l’azione, il
dramma – che è poi dire azione in greco -, all’inizio, dunque,
le due attrici si confrontano l’una accanto all’altra, l’una
con l’altra, l’una contro l’altra, e stanno ritte, in atto di
sfida, ogni tanto si guardano. Indossano solo calzoncini e maglietta,
neri. Per terra, sulla scena, giacciono diversi oggetti, piume,
copricapi piumati, una lunga asta flessibile, stesa sul pavimento,
che subito una delle due attrici impugna, potrebbe essere la spada
della Forza che si vede in Guerre Stellari. E a una guerra ci
prepara il confronto delle due donne. “Combattimento indaga
il concetto di amore come guerra”, chiarisce nelle note di sala il
drammaturgo. Si pensa subito, anche per via del centenario, al
Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi. Del resto
già Tasso nell’episodio del cavaliere cristiano che sfida il
guerriero musulmano, ignorando che sia invece la donna amata armatasi
da cavaliere, gioca sull’ambiguità del duello come lotta amorosa.
I due si stringono, si abbracciano, si divincolano, si confrontano
con l’intento reciproco di uccidersi, ma se si scoprissero, se si
togliessero l’elmo, si vedessero in faccia e si riconoscessero, è
a un’altra morte che penserebbero. Nel linguaggio poetico
rinascimentale morire, infatti, è sinonimo di venire (che anch’esso
è una metafora, un termine dal senso figurato), avere un orgasmo. Un
bellissimo madrigale del IV Libro comincia proprio con un’esplicita
allusione all’atto di eiaculare: “Sì, ch’io vorrei morire”.
E più avanti il madrigale esplode in interiezioni erotiche; “Ahi,
bocca! Ahi, lingua!” per concludersi con il riaffermare l’attacco
di propositi espliciti di eiaculazione: “Sì, ch’io vorrei
morire”. In francese, del resto, l’orgasmo si chiama “petite
mort”.
Ma
tutto questo, nella rappresentazione, è invece la premessa, il
sottinteso, cui si allude solo nel titolo: Combattimento. La
rappresentazione esplora altri territori. Appena una delle due
attrici comincia a indossare qualcuno degli oggetti piumati che
giacciono per terra, la fantasia vola agli sciamani dell’Africa, o
dell’Asia, o piuttosto dell’America Centrale, ai Maia, agli
Aztechi. Si pensa al Serpente Piumato, che salva dal dolore. Ai
sacrificati dai quali si estrae il cuore che dà vita al Sole. Ma poi
anche l’altra attrice indossa le piume, si copre la testa con un
copricapo piumato. E allora le attrici si confrontano come due galli,
la vittoria dell’uno significherà la morte dell’altro. Il
combattimento è per la vita, è la vita, che eguaglia alla fine i
contendenti, li denuda, li spoglia delle piume, li mostra nudo corpo
che respira, che ansima, si accoppia, si disgiunge, si disgrega,
fragile carne che muore. Quasi ci si sorprende, poi, a rivederle alla
fine sorridenti, le due attrici, a vederle che s’inchinano e
ringraziano il pubblico per gli applausi.
Per
circa 50 minuti, dunque, la vita l’abbiamo vista agire – eh già!
azione, di nuovo, dramma, teatro – sotto i nostri occhi. Ci siamo,
anzi, sentiti toccati da un senso della vita che ci sconvolge, che ci
è sembrato dapprima estraneo, ma poi via via più intimo, più
terribile. Lassù, sulla scena, quelle due agitate marionette – eh
sì! sembravano anche questo, marionette: perché no, Kleist,
Pentesilea? – marionette che si contorcevano, convulse, su sé
stesse, marionette che eravamo noi, e rappresentata noi vedevamo
lassù la nostra stessa vita. Freud, questo, lo chiamerebbe
transfert. Aristotele, meno psicologico, ma più concreto, perché va
più a fondo nella natura del rapporto che l’uomo ha con la propria
vita, del rapporto che con la vita ristabilisce il teatro, la chiama
catarsi, purificazione, e cioè riconoscimento del male da cui ci
liberiamo. Ecco, uno spettacolo così, senza parole, con i soli
gesti, ci riconduce, per la sola forza dell’azione, al gesto
primario della vita: che è respirare. Il respiro, per tutto lo
spettacolo, comincia, dapprima circoscritto e raccolto in uno
sguardo, e poi si evolve, si espande, significa tante cose, finisce.
Si coniuga, anche, con altri respiri. Vi si rispecchia. Ma è sempre
lo stesso gioco: quello della vita e della morte, dell’amore che
unisce e dell’amore che distrugge. Dell’amore che è anelito di
annientamento, l’immedesimamento con l’altro che è anche, però,
l’eliminazione di sé stesso nell’eliminazione dell’altro.
Lucrezio,
questo incontrarsi e scontrasi degli amanti, questa reciproca
distruzione scatenata dal desiderio d’immedesimazione, lo racconta
insuperabilmente nel quarto libro del De rerum natura. Gli
amanti aspirano a una congiunzione, a una penetrazione irreversibile
dell’uno nell’altro, a un’immedesimazione che non potranno mai
raggiungere, mai attuare, e che convulsamente, spasmodicamente, oggi
diremmo nevroticamente, ripetono e ripetono ancora all’infinito
nella speranza di raggiungerla, ma ciò che raggiungono è solo il
reciproco annientamento, la reciproca distruzione. Come se per gli
amanti l’unico vero esito dell’amore fosse suicidarsi: il
suicidio attuato da entrambi proprio nell’atto stesso di amarsi. Si
dice dormire insieme, ma, se ci pensate bene, ciascuno dorme da sé,
per sé solo, senza percepire il sonno dell’altro.
Sta
qui la domanda, the question, direbbe Amleto, sta qui rappresentato
il terribile dell’esserci, l’inestricabile groviglio
dell’esistenza. Il teatro, rappresentandolo, questo groviglio,
pronunciandola, questa domanda, non ci dà nessuna risposta, non può,
nessuno può, nemmeno un dio, se potessimo ascoltarlo, ma ci fa
capire come formularla, questa domanda che chiede, esige la soluzione
dell’enigma. Edipo rispose: l’uomo. Il teatro continua a darci
questa stessa risposta, da sempre: l’uomo. Ma non è una vera
risposta. E’ sempre di nuovo l’enigma della Sfinge, ma questa
volta formulato non più come un indovinello, bensì con la
chiarezza, anzi con l’evidenza, della visione, della realtà: in
una parola, della rappresentazione. Se è vero che l’uomo è
l’unico animale che possieda il linguaggio, e che il linguaggio è
l’unico strumento con cui l’uomo conosce il mondo, allora il
teatro è la rappresentazione del mondo, perché tutto ciò che
mostra è il linguaggio con cui racconta il mondo. O meglio, il
racconto che mette tutte le carte sulla tavola. Ciascuna un enigma,
nessuna una risposta. Eppure l’enigma che la Sfinge pose ad Edipo e
l’enigma che il teatro ci rappresenta sulla scena hanno in comunque
questo: che si risponde a rischio della vita. Una partita all’ultimo
sangue, vale a dire all’ultimo significato. Non rispondere, non
trovare risposta, è il rischio che si corre non solo sulla scena, ma
nella vita. E la scena rispecchia proprio questo rischio.
Fiano
Romano, 24 settembre 2018
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