FILOLOGI
E NO
Sulla
filologia, soprattutto musicale, circolano molti equivoci e molte
idee sbagliate, soprattutto tra chi non abbia mai praticato la madre
di tutte le filologie: la filologia classica. Ecco la definizione che
del termine filologia dà il Vocabolario Treccani:
“filologìa
s. f. [dal lat. philologĭa,
gr. ϕιλολογία, comp. di ϕιλο- «filo-» e λόγος
«discorso»; propr. «amore dello studio, della dottrina»]. – 1.
Insieme di discipline intese alla ricostruzione di documenti
letterarî e alla loro corretta interpretazione e comprensione, sia
come interesse limitato al fatto letterario e linguistico, sia con lo
scopo di allargare e approfondire, attraverso i testi e i documenti,
la conoscenza di una civiltà e di una cultura di cui essi sono
testimoni: f.
classica,
f.
romanza,
f.
germanica,
f.
slava,
f.
semitica,
ecc., secondo che oggetto dello studio sia la letteratura e la
civiltà del mondo classico, le lingue e le letterature neolatine,
quelle dei popoli germanici, ecc.; f.
testuale,
quella rivolta soprattutto alla ricostruzione critica dei testi. 2.
Insieme dei filologi e degli studî filologici appartenenti a un
particolare periodo, a un determinato ambiente culturale, ecc.: la
f. del
Rinascimento,
dell’Ottocento;
f.
alessandrina,
italiana,
tedesca,
ecc. 3.
Per estens., in ogni ricerca, l’interpretazione di fatti (o di
personaggi, ecc.) basata sull’esame di testi e documenti o su
notizie storiche; per la partic. accezione nella critica delle arti
figurative, v. filologico”.
L’elemento
fondamentale di riferimento, dunque, come si può leggere, è il
testo, il documento. La filologia è pertanto, in ogni campo, prima
di tutto la ricostruzione del testo, nella sua forma probabilmente
più vicina alla volontà dell’autore, e a complemento la
conoscenza di altri testi e documenti che possano aiutarne la
comprensione. Punto! Aspettarsi altro dalla filologia è o da illusi
o da chi ignora che cosa sia la filologia. Altro discorso è, invece,
informarsi sulle condizioni della lettura, della ricezione, della
prassi esecutiva, nel caso della musica, ma anche della destinazione
dell’opera, in che ambienti e come, e per quali strumenti, ecc.
ecc. E su questo la ricerca moderna ha aperto molte strade. Ma
restiamo sempre nella ricostruzione ipotetica di ciò che non
conosciamo o conosciamo solo in parte.
Il
passato è stato sempre letto con gli occhi e le orecchie del
presente. E' una delle poche verità che Benedetto Croce ha detto con
chiarezza e con la quale concordo: la storia è sempre storia
contemporanea. Questa furia di ritrovare il passato autentico è la
malattia di un'epoca fondamentalmente inautentica. La ricerca
dell'autentico è di fatti il sintomo più appariscente
dell'inautentico, diceva un saggio del secolo scorso (Adorno, anche
con lui ormai non sono quasi mai d’accordo, ma quest’osservazione
la condivido). Perché, e lo aveva già chiarito Nietzsche, non
esiste l'autenticità di niente, ma solo di ciò che supponiamo o
vogliamo credere autentico. Ci si può al massimo avvicinare a
supporre la cosa, ma riprodurla com'era è impossibile. E quand'anche
si riuscisse a riprodurre la musica del passato esattamente com'era,
non sono più come erano le orecchie di chi ascolta, non è più
com'era la sua mente, la sua memoria, la sua cultura.
Ciò
non vuol dire, certo, che è permesso fare i cialtroni e pasticciare
come ci piace. Qui entra in campo il senso che per estensione si dà
alla filologia: la conoscenza di altri testi e documenti che ci diano
informazioni sul testo oggetto del lavoro filologico. Bisogna, cioè,
informarsi, documentarsi su tutto ciò che aiuti a comprendere il
testo. Ma poi ci si ferma qui, ci si deve fermare qui. Andare oltre
l'informazione non è possibile. L'illusione di restituire
l'autentico Bach, l'autentico Vivaldi, è quanto di più inautentico
si possa immaginare. E’ l'illusione di chi crede di vedere e
conoscere il passato come era, ma è appunto un’illusione, in
realtà costui non vede e non conosce che la propria illusione e alla
fine non vede e non conosce nemmeno il presente.
Come
fosse letto, ascoltato, capito Omero nel VI secolo a. C., quando fu
fatta scrivere da Pisistrato la prima redazione completa dei poemi
omerici, non lo sapremo mai, e tanto meno come lo ascoltassero quelli
che qualche secolo prima ascoltavano quei poemi dalla sua viva voce,
ammesso poi che Omero fosse una stessa persona, cosa che oggi non si
crede più.
Per
concludere: l’opera che ci è arrivata può essere letta in tutti i
modi che si vogliono e si possono attuare (i cialtroni, come s’è
detto, restano cialtroni). Shakespeare certo non lo si rappresenta
più come lo si rappresentava al Globe quando era lui stesso a curare
la messa in scena. Se non altro, i personaggi femminili sono
interpretati da attrici e non da giovanetti. Furtwaengler eseguiva la
Passione secondo San Matteo di Bach tagliando quasi tutte le
arie. Ne possiedo, e ogni tanto riascolto, un’interessantissima e
bellissima registrazione. L’intenzione è di avvicinarsi al dramma
wagneriano. Oggi la cosa ci fa inorridire (ma perché? Non lo
rifaremmo, ma perché proibirglielo?). Ebbene, all’epoca in cui
l’esperimento fu condotto l’operazione era non solo legittima, ma
stimolante. Anzi, illuminava un aspetto della partitura bachiana che
poi la musicologia avrebbe indagato e messo in evidenza: la forza
della sua costruzione drammaturgica.
Anni
fa (erano gli anni ‘50 del secolo scorso), Frank Pelleg eseguì
all’Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma l’intero
Clavicembalo ben temperato di Bach. Ma interpretò i brani ora
sul clavicembalo, ora sul clavicordo, ora sul pianoforte, senza un
criterio particolare, ma seguendo il proprio gusto. Sceglieva di
volta in volta lo strumento che gli pareva mettesse meglio in risalto
la costruzione del preludio e della fuga. Non c’era l’organo, ma
avrebbe desiderato che ci fosse, per esempio per il preludio e fuga
in mi bemolle maggiore del secondo libro. Ne conservo ancora un
ricordo entusiasta e commosso. E vi assicuro: era Bach, complesso,
bellissimo, intricatissimo, com’è sempre Bach. E in ogni caso, con
una scelta apparentemente arbitraria, Pelleg applicava una prassi
tipicamente barocca: quella di eseguire lo stesso brano su strumenti
diversi. Con perfetto godimento suo e del pubblico.
Spero
di smorzare così la discussione, che ho visto accendersi, anche
animatamente, tra i sostenitori di una pratica rispettosa dell’uso
di strumenti d’epoca o ricostruiti, e coloro ai quali non dispiace
lo strumento moderno o addirittura l’avventura in mondi sonori
diversi o non previsti dal compositore (i Swingle Singers stravolgono
Bach?). Ma temo che le posizioni contrapposte siano inconciliabili.
Perché per qualcuno il rifiuto del presente passa anche attraverso
l’illusione di avere trovato nel passato ciò che non trova nel
presente. E ritiene il presente un’aberrazione, il passato una
consolazione. Cito, però, in proposito, un bellissimo aforisma di
Karl Kraus: “Ho una notizia catastrofica per tutti i nostalgici e
gli esteti: un tempo la vecchia Vienna era nuova”. Quanto a me, mi
piacque molto l’elaborazione jazzistica di una bagatella
beethoveniana eseguita da un mio allievo. Che poi ripeté la prodezza
con un contrappunto dell’Arte della fuga.
Ma
ribadisco: non ci si capisce sull'uso dei termini e si polemizza su
argomenti estranei all'argomento. La filologia si limita a
ricostruire un testo il più vicino possibile alla volontà
dell'autore. Non chiamate, perciò, filologia l'esecuzione. Che potrà
solo servirsi di testimonianze e documenti che informino sul
probabile - e insisto: probabile! - modo di esecuzione. Ci sarà
stato pure un motivo per il quale non si dice più "prassi
filologica" ma "interpretazione storicamente informata".
In ogni caso le due pratiche, quella storicamente informata e quella
moderna, non sono in contraddizione, svolgono ruoli diversi,
insistendo l’una sul riproporre un testo come probabilmente era
stato proposto nel momento in cui fu scritto e avventurandosi l’altra
a immaginare, ed amare, lo stesso testo come fresco d’inchiostro,
contemporaneo e come tale a riproporlo ai contemporanei. Come
facevano, per esempio, i musicisti dell’Ottocento. A cominciare da
Mendelssohn e Chopin. E prima dei romantici, da Mozart e Beethoven.
Ciò che oggi disturba di quell’impostazione è che invece sentiamo
una profonda differenza non tanto tra i romantici – o i classici –
e Bach, quanto tra la nostra lettura di Bach e quella dei romantici.
Tra una, o due generazioni, sembrerà forse ugualmente disturbante la
nostra, di lettura, a quelli che verranno. E forse sembrerà
addirittura storicamente disinformata quell’interpretazione che
oggi supponiamo storicamente informata.
Del
resto, prediamo l’esempio di Shakespeare e consideriamo in genere
la messa in scena di un testo teatrale - di un copione! - perché
questo è il testo teatrale, così come la partitura è un appunto
per l’esecuzione. La musica non è la pagina scritta, ma quella che
si suona e si ascolta. Il teatro non è il testo letterario, ma la
rappresentazione che si vede sulla scena, e ciò è già detto con
chiarezza da Aristotele, e ribadito poi con forza da Wagner: il
dramma non è il testo letterario, e nemmeno la musica, la
rappresentazione in cui testo, musica, recitazione, gesto uniscono le
forze. Dahlhaus lo chiarisce mirabilmente nel suo saggio sul dramma
musicale wagneriano.
Sofocle,
Seneca, Goldoni, Pirandello li mettiamo in scena come ai loro tempi?
Il discorso è lunghissimo. Lo aveva aperto, a Weimar, genialmente,
Goethe, mettendo in scena un Amleto tutto moderno, scene e
costumi del tardo Settecento, e addirittura intere scene o tagliate o
riscritte dallo stesso Goethe. L’operazione entusiasmò sia la
Germania che il resto dell’Europa, soprattutto la Francia. I
tedeschi, d’altra parte, ma insieme a loro anche francesi, inglesi,
russi, hanno continuato a rifletterci, fino ad oggi. La riscrittura
drammaturgica di una tragedia o commedia di Shakespeare non è,
infatti, un impoverimento, come qualcuno sostiene, bensì un
arricchimento dei suoi significati. Su ciò si può leggere una
lunghissima bibliografia, soprattutto in lingua inglese (ma anche
francese: Shakespeare: théâtre
et poésie di Yves
Bonnefoy ne è un illustre e bellissimo esempio, di
cui tra l’altro la
messa in scena proprio dell’Amleto,
da parte di Chéreau, ad Avignone, sembrava accoglierne
il senso, costituirne il pendant scenico).
Né
mi direte poi che il bellissimo film di Olivier impoverisca l'Amleto:
lo legge con la cultura e le idee della metà del Novecento, e ne
taglia quasi più di un terzo, mancano Rosenkranz e Guildestern. Così
come molti anni dopo appaiono ugualmente entusiasmanti l’Amleto
di Branagh o quello di Cumberbatch, modernissimi, spiazzanti. Ma
tutto ciò c'è già nel testo. Ogni lettura lo arricchisce. Perché
l'opera non è proprietà di chi la scrive, ma è condivisa da chi la
legge e la mette in scena. Anche su questo potrei citare una lunga
bibliografia. E anzi, per quanto riguarda la musica, non sempre le
interpretazioni degli stessi compositori risultano migliori di quelle
di altri interpreti: basterebbero gli esempi di Debussy e di
Stravinskij. Eppure dovrebbero essere coloro che meglio di altri le
conoscono. Ma una cosa è comporre, un’altra suonare. O scrivere, e
recitare.
Anni
fa, anzi, ahimè! decenni fa, nel 1973, Pinter protestò sulla messa
in scena di un suo dramma, Old Times, da parte di Visconti, e
quando andò a vedere lo spettacolo, fischiò rumorosamente, buh buh,
sosteneva che Visconti gli aveva stravolto il testo. Ma Pinter aveva
torto. Fosse anche stato vero che Visconti avesse stravolto l'idea
che Pinter voleva dare del dramma, era del tutto legittimo che
Visconti vi leggesse un'altra idea. Una volta pubblicato, un testo
non è più dell'autore. Ma di chi lo legge e lo interpreta. Posso
dirlo anche sulla mia pelle. Quando una mia amica mise in scena un
mio monologo, non fui d'accordo con alcune sue scelte. Ne discutemmo.
Ma poi la lasciai libera d'interpretare il testo come piaceva a lei,
non solo perché era nel suo diritto, ma perché poteva aggiungervi
significati che io non avevo previsto. Forse ci si dovrebbe di nuovo
confrontare, e radicalmente, su ciò che si debba intendere per
interpretazione, magari dal De Interpretatione di Aristotele
in poi. L'idea che un testo sia univoco, che vi sia un solo modo di
leggerlo, è profondamente limitante ed sostanzialmente errata, ma
soprattutto è fuorviante: un testo, anzi tutta l'arte, è sempre
polivoca, polisemica, suggerisce ad ogni nuova lettura sensi diversi,
molteplici, anche contrastanti.
Guardate
le opposte interpretazioni che si danno, a teatro e nella critica,
dell'Antigone di Sofocle: chi vede in Creonte il tiranno e in
Antigone la strenua combattente della libertà individuale. Ma chi
vede anche in Creonte il politico che vuole, nella sua città, la
concordia - la democrazia! - e in Antigone all’opposto la
sostenitrice di un mondo aristocratico ed eroico scomparso (non
diverso il contrasto tra Filottete e Ulisse nel Filottete).
Sono legittime entrambe le interpretazioni e anche altre. Ma forse
Sofocle vuole piuttosto porre soltanto un problema, non prende parte
né per l'una né per l'altra posizione, e qui starebbe il
significato più profondo, e più tipicamente greco e drammaturgico,
della tragedia.
So,
tuttavia, che la discussione continuerà infinita. Senza che le parti
si mettano d'accordo. Come Antigone e Creonte, appunto. Ma
attenzione: la ricerca di un significato univoco, di una lettura
univoca di qualsiasi testo, non ha ben compreso l’infinita apertura
di ogni testo letterario, ma anche teatrale, o musicale. Arrivo a
sostenere che chi si ostina o volere un’unica lettura del testo, o
che consideri legittima solo la lettura che si forzi di riprodurre la
situazione originaria, è uno che il testo non l’ha veramente
compreso, che la sua idea di quel testo non ha niente a che vedere né
con il testo né con l'arte, e che compie anzi un crimine: distrugge,
cioè, la polisemanticità del testo. Questa molteplice,
interminabile apertura a più significati, è il carattere intrinseco
dell'arte. Ed è a questa molteplicità di significati che io tengo
più che a ogni altra cosa, a costo – lo dico forte - anche di
stravolgere, e stravolgere completamente, il testo che sto leggendo,
la musica che sto suonando, il dramma che sto recitando. Mi trovo in
ottima compagnia. Shakespeare non si comporta diversamente con le sue
fonti, Sofocle con il mito che affronta, Beethoven con le
reinvenzioni bachiane. E ascoltate una sonata di Beethoven
interpretata da Schnabel, Backhaus, Richter, Gilels, Rubistein ecc.
ecc.: non è mai la stessa sonata. Eppure resta sempre riconoscibile.
Fiano
Romano, 2 settembre 2018
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