Appunti per una riflessione
sulla musica di Debussy, oggi
Racconta Paul Valéry1
che in uno dei martedì letterari a casa di Mallarmé aveva
incontrato una volta anche il pittore Paul Degas. Nervosissimo.
Degas spiega che aveva perso tutta la giornata per scrivere un
sonetto. Valéry annota che tra parnassiani e simbolisti il sonetto
era di moda e che Degas ne aveva scritto qualcuno di “admirable”.
Degas si dichiara sconfitto da un mestiere “ingrat”, come quello
di scrivere. Sottinteso: meglio dipingere. E aggiunge: “Et
cependant, ce ne sont pas les idées qui me manquent ...” (e
tuttavia non sono le idee a mancarmi). Mallarmé sorride, e dice:
“Mais, Degas, ce n’est point avec des idées que l’on fait des
vers … C’est avec des mots”. (Ma, Degas, non è affatto
con le idee che si fanno versi … è con le parole. La
sottolineatura è di Valery).
Qualcosa di analogo afferma
Debussy quando dice di comporre con i suoni, e non con le note. In
realtà ciò è sempre avvenuto, i musicisti hanno sempre immaginato
e creato suoni. L’analisi era lasciata ai teorici. Pitagora.
Aristosseno. Ma l’invenzione della scrittura musicale fu una
rivoluzione, come lo era stata per la poesia e come lo sarà più
tardi la stampa per i libri. Sulla carta posso scrivere anche ciò
che la memoria non tratterrebbe. L’invenzione si fa ancora più
efficace con l’introduzione, nel XIV secolo, in Francia, da parte
dei musicisti dell’Ars Nova (e il nome è tutto un programma: oggi
questa musica la chiameremmo d’avanguardia), con l’introduzione
di valori più piccoli nella suddivisione delle durate delle note, il
che permette una capillare articolazione della melodia e del ritmo.
Debussy dunque non fa che ricordare che la musica è, prima di tutto,
suono.
Ma il suono è essenzialmente
affidato alla memoria. Un suono, infatti, una volta emesso, primo o
poi s’estingue. La melodia, pertanto, che è una successione di
suoni, non è una realtà sperimentabile come un quadro, una statua,
ma se ne ha la percezione via via che si va formando e la si afferra
tutta solo quando si conclude, quando l’ultimo suono si è estinto.
Di fatto la melodia è una costruzione della memoria. Hegel osserva
(nelle lezioni Estetica) che per questo la musica agisce
profondamente nella nostra interiorità, misura il nostro tempo
interiore, ci comunica l’emozione di vivere nel tempo, nel suo
tempo, il tempo della musica. Per questo stimola così fortemente la
nostra autocoscienza. Il discorso hegeliano – il più acuto mai
fatto sinora sulla natura della musica – s’inserisce nel panorama
delle relazioni che le arti hanno con i sensi. La pittura è legata
alla vista e ci propone la nostra esperienza della visione. La
scultura al tatto, è la nostra esperienza del volume, dello spazio.
Poi ecco l’architettura e la musica, che hanno in comune il fatto
di non riferirsi a un oggetto, ma a una forma. Il contenuto di un
tempio è la forma del tempio. E così il contenuto di una musica non
è l’emozione che suscita, ma la forma in cui si lascia percepire.
Le proporzioni di una costruzione sono il vero contenuto della
costruzione, non la sua destinazione, tempio, casa, palazzo. E così
le proporzioni di una musica sono il suo vero contenuto, non che
canti qualcosa o susciti qualche emozione. Il che non vuol dire che
l’architettura prescinda dalla sua funzione e la musica dalle sue
apparenti comunicazioni: un testo, una sollecitazione emotiva. Tant’è
vero che sullo stesso testo si possono costruire canti di senso
diverso o addirittura opposto. Rossini (il musicista prediletto da
Hegel) ha scritto sette versioni di un’arietta metastasiana, dalla
versione tragica a quella buffa, nostalgica, distaccata. Eppure le
parole restano le stesse. Il testo (dal Siroe) dice:
Mi lagnerò tacendo
della sorte amara,
ma ch’io non t’ami, o
cara,
non lo sperar da me.
Rossini voleva dimostrare
l’assoluta indifferenza della musica ai concetti delle parole. Ci
riesce. Ma la realtà poi è più complicata. Teniamo comunque
presente, per il discorso che andremo sviluppando, dell’intuizione
di Hegel: architettura e musica hanno per contenuto la propria forma.
E torniamo a Debussy.
Gli accordi che aprono il
primo dei tre Nocturnes
per orchestra (1899) ritornano, assai simili, nella Sagra
della primavera
(che bisognerebbe chiamare piuttosto Rito della primavera) di
Stravinskij (l’osservazione è di Dallapiccola, in una nota ai
Quadri di una
esposizione di
Musorgskij), 14 anni dopo. Qual è la caratteristica di questi
accordi? Che non sono legati tra loro, non si succedono con logica
armonica di soluzione da un accordo all’altro, ma procedono come
macchie armoniche autonome l’uno dopo l’altro. L’armonia ha
perso la sua funzione strutturante per assumerne una puramente
timbrica. Debussy non nasce dal niente. Questa libertà gli viene da
lontano. Soprattutto da Chopin. Si ascolti la cadenza del Larghetto
del primo Concerto
in mi minore op. 11
per pianoforte (in realtà il secondo) o l’attacco della
Polonaise-Fantaisie
op. 61. L’armonia
è già solo colore, timbro. Su questa via Debussy finisce con lo
svincolare la costruzione armonica da percorsi obbligati. E’
qualcosa che si potrebbe confrontare con l’abolizione delle
geometrie prospettiche nella pittura degli impressionisti, sostituite
da sfumature della luce e del colore. Ma il confronto con i pittori
impressionisti è fuorviante. Debussy non amava essere definito
impressionista, detestava le etichette (meriterebbe un’ovazione
plebiscitaria solo per questo), e se mai preferiva sentirsi inserito
tra i simbolisti. Simbolista, anzi un caposcuola del simbolismo
poetico e teatrale, è Maeterlinck, di cui Debussy mette in musica il
Pelléas et
Mélisande (1902),
ma il testo teatrale, non un libretto, e con pochissimi tagli.
L’esempio sarà poi seguito da Richard Strauss con la Salome
di Oscar Wilde e l’Elektra
di Hofmannsthal, che diventano drammi musicali adottando, con pochi
tagli e modfiche, i testi teatrali di Wilde, tradotto in tedesco, e
di Hofmannsthal. E infine da Alban Berg, che mette in musica il
Woyzeck
du Büchner,
ma
per un refuso della copia in possesso del compositore, verrà
chiamato Wozzeck.
Berg non corresse mai il refuso, lasciò che l’opera si chiamasse
Wozzeck.
Da
questi brevi cenni si può vedere come Debussy stia all’origine di
quasi tutto il movimento della nuova musica europea nei primi decenni
del Novecento. Il compositore che gli è più affine è il russo
Stravinskij. Ma tra Francia e Russia c’è una lunga affinità, nel
romanzo, nella poesia, nella musica, non fosse altro che perché
l’aristocrazia e l’intellighentzia (intelligencija)
russa parlavano e scrivevano francese. Ravel trascrive per orchestra,
e meravigliosamente, i Quadri
di una esposizione,
sopra citati, che Musorgskij compone per pianoforte. Il romanzo
russo, soprattutto Dostoevskij, arriva in Italia attraverso le
traduzioni francesi.
Ma Debussy
è prima di tutto, e soprattutto, un compositore francese. Nella
musica vocale risulta
l’approdo di tutta una tradizione che potremmo indietreggiare
all’Ars Nova, al Roman de Fauvel,
ai trovatori, ai trovieri. Il rapporto tra
parola e canto in Francia è molto particolare. Il che è dovuto in
gran parte alla natura della lingua francese, nella quale le parole
non sono così distintamente scandite come in italiano o in tedesco,
ma tendono a inserirsi nel flusso ininterrotto della frase.
L’italiano che non conosca la lingua francese pensa che i francesi
accentino tutte le parole sulla sillaba finale. E’ solo in minima
parte vero. L’accento spicca solo se la parola conclude la frase,
ma nel corpo della frase è più tenue. E poi esistono anche
accentuazioni “femminili”, vale a dire sulla penultima sillaba,
ma con l’ultima muta. Questa e finale muta si sente quando si
canta. L’inno nazionale francese,
la Marsigliese,
comincia con il verso: Allons, enfants de la patrie. Patrie, quando
si parla, si sente come patrì. Ma quando si canta o si recita si
ascolta patrì-e, con la e finale muta, come da noi nella parlata
napoletana (e non a caso la canzone
napoletana presenta molte affinità con la canzone francese).
Quest’attenzione alla musica del linguaggio non abbandona mai i
musicisti francesi. Il fenomeno è evidente, per esempio, come
s’è detto, nella canzone. Ancora oggi.
Nella canzone italiana la melodia prevarica sulla parola, oppure, se
la parola vuole predominare, finisce quasi per abolire la melodia.
Nella canzone francese melodia e parola sono sempre in perfetto
equilibrio, nessuna prevale sull’altra. Non
sto stabilendo un criterio di valore, o affermando che un sistema è
migliore dell’altro. Sto solo mettendo in rilievo le differenza
strutturali.
Debussy,
nel Pelléas,
nelle sue chansons, di questa corrispondenza tra musica e linguaggio
ne fa quasi un’ossessione, come nel nostro Seicento aveva
fatto il grandissimo Monteverdi o fa
in Russia Musorgskij, che perciò era adorato da Debussy. Il
melodramma italiano, che attecchi in tutta l’Europa, in Francia
riscontrò minore successo (salvo poi a rifarsi quando Rousseau
elogiò l’opera italiana contro
quella francese). Ma il motivo sta proprio nella natura della lingua
francese. Profondamente diversa da quella della lingua italiana. E i
francesi vollero mantenere un teatro francese, di lingua francese. A
differenza di tedeschi e inglesi che adottarono l’opera italiana
cantata in italiano e non in tedesco o in inglese. Il che, dopo
pochi tentativi, strozzò sul nascere la
possibilità di una nascita dell’opera inglese o tedesca. Bisognerà
aspettare il romanticismo, Wagner, in
Germania (Mozart, Beethoven, Webern non sono ancora determinanti a
sancire un predominio dell’opera tedesca su quella italiana),
e bisogna aspettare oltre,
in Inghilterra, fino al Novecento, a Britten. Ma un teatro di lingua
francese significava anche un teatro in cui la musica non
prevaricasse l’azione drammatica. Non a caso il melodramma in
Francia si chiamò Tragédie lyrique, e l’opera comica Comédie.
Ciò ebbe, alla fine, influssi anche sull’opera italiana. La
cosiddetta riforma di Gluck non fu in realtà nient’altro che un
innesto della Tragédie lyrique nel corpo del melodramma italiano. E
partì più dall’italiano Raniero de’ Calzabigi che dal tedesco
Gluck. Viene da pensare quasi che l’Europa era più unita quando
era divisa in Nazioni tra loro belligeranti che ora che dovrebbe
trovarsi confederata in un’Unione.
Questi sono
soli appunti, note, di un discorso che meriterebbe più ampia
articolazione. Ma spero di avere dato l’idea di quanto Debussy
abbia influito
sulla musica del Novecento europeo fino alle avanguardie del secondo
dopoguerra, se solo si pensa a quanto peso abbia il suono in sé in
compositori come Boulez e Berio, ma soprattutto Nono e Stockhausen.
Entrano in gioco, naturalmente anche altri parametri. Non ultima
l’invenzione della scrittura con i dodici suoni avviata da
Schoenberg. Ma se si ascoltano le prima pagine di Schoenberg ci si
accorgerà quanto la scrittura orchestrale e perfino pianistica di
Debussy abbia peso nella sua scrittura per orchestra e anche per
pianoforte. Ma ancora di più tale peso si sente nelle partiture di
Alban Berg, fino alla fine, fino al sublime Concerto
per violino. La melodia di timbri, di
cui fanno sfoggio i tre compositori viennesi, la Klangfarbenmelodie,
sarebbe impensabile senza Debussy. Pierre
Boulez fa nascere la libertà del melodizzare della nuova musica
dall’assolo di flauto che apre il Prélude
à l’après midi d’un faune (1894).
Il quale a sua volta deve molto all’assolo del
corno inglese all’inizio del terzo atto del Tristano
di Wagner (1859! non si crede alla data). Il cerchio si chiude.
Debussy, che era fortemente nazionalista, e
si professava quindi soprattutto francese, e antitedesco,
vedeva tuttavia
nella partitura del Parsifal (1882)
l’incunabolo di tutta la musica moderna.
Fiano
Romano, 3 settembre 2018
1“Paul
Valery, Degas et le sonnet, in Degas Danse Dessin, ora
in Oeuvres II,
« Bibliothèque de la Pléiade »
che , Paris,
Gallimard, 1960, pagg. 1207-1209.
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