DINO
VILLATICO
PENÍNSULA
VALDÉS
Scorribande
patagoniche, col ricordo di un tango.
La
tonina1
nuotava velocemente verso la scialuppa, il muso a pelo d’acqua
sembrava che ci sorridesse, ma giunta quasi a un metro da noi si
rituffò nell’acqua, per rispuntare poco dopo con un salto
acrobatico dall’altro lato della scialuppa. Il cielo sopra il mare
era grigio, le nuvole alte nascondevano alla vista il sole, la cui
luce scendeva al mare come un pulviscolo trasparente e luminoso. Ma
dopo nemmeno due ore, al momento di approdare di nuovo nel
porticciuolo isolato di Punta Pirámides quasi deserto, il cielo
s’era già schiarito e il sole brillava alto sull’orizzonte.
Risalimmo sul furgoncino color crema che ci aveva portati fin lì, e
andammo all’estremità orientale della Península Valdés. Ma già
molti libri e troppe guide turistiche parlano delle meraviglie
naturali e faunistiche del Parco Nazionale della Península Valdés.
Si vedono scorrazzare i guanachi tra gli arbusti alti e spinosi della
steppa patagonica, s’intravedono correre e fermarsi d’un tratto
le mare,
le lepri tipiche della Patagonia, e se si guarda in alto si scorgono
volare in cielo, soli o a schiera, uccelli di variopinte e multiformi
specie, per lo più rapaci e gabbiani, che si cibano dei cuccioli dei
leoni marini o nati morti o ammazzati a beccate (appena arrivati
avvistammo appunto sulla riva sabbiosa una torma di gabbiani
sbranare un cucciolo di leone marino), ma si avvistano anche altri
tipi di uccelli, soprattutto passeri, e l’immancabile e
onnipresente teru-teru,
così chiamato, con voce onomatopeica, dal monotono intercalare del
suo verso: teru teru, teru teru. Dalle acque dei due golfi, nella
stagione invernale, sbucano, soffiando acqua dal dorso, le balene,
che subito però si rituffano sottraendosi così alla vista
impertinente dei turisti che affollano quel bellissimo tratto di
mare. Molti parchi naturali si fondano e si aprono ormai in tutto il
mondo per proteggere la bellezza dei luoghi (e quelli argentini sono
tra i più belli), per preservare l’equilibrio della vita animale e
vegetale, per evitare il degrado di un ambiete naturale perfetto, ma
la smania di deturpare i luoghi in cui vive o attraverso cui passa
sembra propria dell’uomo, irrefrenabile la sua voluttà di
snaturare e distruggere il terreno che calpesta.
Il
giorno dopo si doveva andare a visitare la colonia di pinguini, circa
un milione, che si assembrano a Punta Tombo. Già all’arrivo
qualche pinguino della famiglia chiamata Magellano si avvicinava
incuriosito, alzando la testa e guardandoci con i suoi due grandi
occhi cerchiati, che conferiscono al suo muso l’aspetto di una
maschera teatrale, camminano, o piuttosto traballano con le ali ritte
sui fianchi come le braccia di un soldato sull’attenti. Ma ci
avevano avvertiti di non fissarli troppo a lungo, perché avrebbero
potuto riportare lesioni alle vertebre cervicali, col torcere il
collo per guardarci, noi bestioni mostruosi alti più di un metro e
mezzo, ai loro occhi di eleganti bestiole dalla graziosa statura di
45 cm, al massimo. E soprattutto c’ingiunsero di non toccarli. Li
avremmo infettati. Sì, è così, l’uomo infetta gli animali anche
solo a toccarli. Il nostro odore per loro è disgustoso, si sarebbe
appiccicato come un velo nauseabondo alle loro piume e i compagni
dello stormo avrebbero perciò respinto e isolato l’imprudente
compagno che si fosse lasciato toccare dall’uomo restandone
contaminato, gli altri pinguini non l’avrebbero mai più difeso
dall’attacco degli uccelli rapaci e dei leoni marini, e per la
tristezza della sua solitudine l’infelice pinguino si sarebbe
lasciato morire di fame e i suoi inflessibili compagni avrebbero poi
accolto la sua morte come una liberazione. I pinguini magellano sono
animali deliziosi. Gridano di paura quando sentono avvicinarsi
rumorosamente un gruppo troppo folto di turisti, ma si lasciano
avvicinare dall’uomo e si accostano volentieri al visitatore
isolato, gli corrono anzi incontro barcamenandosi goffamente, salvo a
scappare se lo sfacciato e aggressivo turista fa cenno di toccarlo.
Un gruppo di ragazzi in gista scolastica, giorni prima, aveva
provocato una tragedia. Uno di loro si era perso tra le dune e i
cespugli e aspettando che i compagni lo ritrovassero, per passare il
tempo cominciò a giocare a pallone: ma non trovando a propria
disposizione un pallone, usò come pallone i pinguini. Ne ammazzò
tre, prima che lo ritrovassero. Ma non ci furono per lui spiacevoli
conseguenze, nessuna comunque che compensasse, almeno moralmente,
l’immeritao destino dei pinguini. Fu sgridato, la stampa esecrò
l’episodio, ma nessuno lo rimproverò con troppa severità né
tanto meno lo punì per quel misfatto. Si trattava in fondo solo di
pinguini, di uccelli. E gli uomini, gli uccelli, li mangiano. Così
giustificò il ragazzo, intevistato dal telegiornale, disarmante e
sorridente, il professore di ginnastica, tifoso del Boca2,
che aveva portato in gita il gruppo. Chi sa, forse gli ufficiali di
Videla pensavano lo stesso dei subversivos3
che facevano scomparire. Intervistato da un giornalista inglese,
l’inflessibile generale dichiarò una volta, infatti, alla BBC, che
loro, i militari al potere, non ammazzavano persone, mica erano
criminali! ma toglievano di mezzo solo pericolosi sovversivi e
ripulivano la nazione di quella immondizia. Goebbels aveva detto
qualcosa di simile, anni prima, quando gli venne chiesto se fosse
vero che i nazisti uccidevano gli ebrei. La monotonia con cui i
dittatori si somigliano è deprimente.
Ma
l’incontro più emozionante non avvenne con questi animali. E non
avvenne a Puerto Madryn né a Punta Tombo. Da quasi un mese stavo
percorrendo a tappe tutta la ruta
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che percorre da nord a sud la costa atlantica dell’Argentina, da
Buenos Aires fino alla Terra del Fuoco. Paesaggi che si perdono a
vista d’occhio, come se l’orizzonte stesse lontano, e si perdesse
all’infinito, quasi che la terra volesse imitare la sconfinata
immensità del mare. Un paesaggio lunare, per esempio, accoglie
l’esploratore che visita, a 165 km da Comodoro Rivadavia, ridente
cittadina industriale sull' Atlantico, il Bosco Pietrificato di
Sarmiento, sull’altipiano ricco di petrolio che divide la costa
atlantica dai primi rilievi delle Ande. Il lago che fornisce l’acqua
alla zona e a gran parte della Provincia di Chubut, era quel giorno
squassato dai venti, e la superfice dell’acqua appariva scura come
il piombo e paurosamente agitata. Un vento gelido e furioso mi
tagliava la faccia. Ma non è di questo che voglio raccontare. Così
come non voglio raccontare l’emozione di navigare, per la prima
volta, il Canale di Beagle a sud di Ushuaia, la città più
meridionale del mondo. Bellissima, situata in una baia stupenda, e
circondata dalle vette innevate delle Ande, ma luogo deludente perché
ormai irrimediabilmente sfigurato dall’invadenza chiassosa e
tracotante del turismo di massa, come Venezia, come Praga, Mont
Saint-Michel o il Mar Rosso. Ma per fortuna, una volta salpati, il
mare si riprende i suoi diritti di elemento selvaggio. Il colore
cinereo dell’acqua si confonde col cielo plumbeo che la sovrasta e
l’orizzonte sventaglia il fasto maestoso delle cime perennemente
innevate delle Ande che precitano scoscese nell’Oceano. Verrebbe
voglia di spingersi fino al capo Horn, oltre l’ultimo faro
d’America, prima dell’Oceano Antartico, Les Eclaireurs, e anzi
spingersi ancora più a sud, fino all’Antartide. Il rientro nel
porto fu avventuroso, s’era alzato un forte e gelido vento da sud e
il mare d’un tratto diventò pericolosamente agitato. La nave
beccheggiava e ballava come se dovesse naufragare. Ci fu chi si sentì
male e sparse sul ponte un fiume di vomito nauseabondo. Toccammo il
molo, ma una volta messo il piede sulla terra, l’impressione di
instabilità durava ancora, sembrava che la terra proseguisse il moto
tempestoso del mare e si muovesse becchegiando come fino a poco prima
il ponte della nave.
Sul
lungomare del porto di Ushuaia c’è un vecchio caffè, che una
volta, alla fine dell’Ottocento, e nei primi decenni del secolo
seguente, era insieme un magazzino e un emporio: si chiama appunto El
viejo almacén,
il vecchio magazzino. Il bancone, i tavoli, le scansie alle pareti e
le suppellettili sono ancora quelle del secolo XIX, o tutt’al più
dei primi anni del Novecento, come la grande macchina da cucire sul
ripiano della grande finestra che dà sul porto. Sugli scaffali
invitano all’allegria bottiglie di vino della Terra del Fuoco e di
Neuquén, buonissimo, insieme a una incredibile varietà di bicchieri
da birra: la birra argentina, come quelle messicane e spagnole, a
differenza della mediocre birra italiana, fanno invidia alla birra
belga e tedesca, e la birra della Terra del Fuoco è non solo leggera
e gradevole, ma lascia anche in bocca, sul palato, un gusto assai
dolce. Nella seconda sala, in fondo, faceva bella mostra di sé un
grande tavolo da bigliardo. E’ nel Viejo
Almacén
che avvenne l’incontro. Dallo stereo del caffè arrivava una
canzone, un tango. Una voce rauca e calda di baritono cantava la
storia di un uomo seduto al caffè che, in un giorno di pioggia,
aspetta una donna. I bicchieri di birra, prima, di vino poi (gli
spagnoli e gli argentini amano bere la birra come aperitivo) si
accumulano sul tavolo, i portacenere si riempiono, viene infine il
momento di bere
l’aguardiente5,
e l’uomo si ubriaca, di alcol, di sigarette e d’amore, ma la
donna non viene. E’ un tango bellissimo. L’enfasi con cui viene
esibita la disperazoione non disturba. Anzi cattura, contagia. Non
dev’essere diversa la disperazione del pinguino contaminato
dall’odore dell’uomo. E’ inoltre tipicamente argentino lo
spaesamento, nel tempo, più che nello spazio: il passato rivissuto
come perdita irredimibile, e il sentimento d’amore, soprattutto
dell’amore irrealizzato o perduto, percepito come una malattia, un
avvelenamento del ricordo, una contaminazione della giovinezza, una
pazzia indesiderata e immedicabile. E non è detto che sia solo
l’amore per una donna. Può essere anche la nostalgia degli amici
scomparsi, la tristezza dell’infanzia sparita che si materializza
nel budello cieco di una stradina, la perdita di un nonno. Ma tutto
questo è spiegazione e non spiega il carattere del tango. Tanto meno
del tango ascoltato quel pomeriggio, verso il tramonto, in quel Viejo
Almacén di
Ushuaia. E mi sovvenne a un tratto di quando bambino, insieme ai miei
compagni del colegio6,
imparavo a danzare le danze tradizionali argentine, antiche e
moderne, il
gato,
il
cuando,
la firmeza,
la malanda,
la milonga,
la resbalosa
e naturalmente il tango.
Tutto ciò avveniva non a Buenos Aires, ma a Bahía Blanca, una
cittadina che si trova 650 km a sud di Buenos Aires, ai confini della
Pampa, e che nei primi decenni del secolo XX, dal suo porto,
Ingeniero White, vide partire le grosse navi da carico che fornivano
grano e carne all’Europa affamata. Mio padre era stato chiamato
laggiù dalla Universidad
de la Plata,
a fondare la cattedra di geometria analitica per il Dipartimento
distaccato di Matematica. La musica di quelle danze, ora, mi
ritornava in mente e mescolandosi col tango che ascoltavo mi
spaesava, mi catapultava indietro a 50 anni prima, quando non ero
certo un ragazzo felice, come avrei potuto? ma non ero nemmeno così
consapevole come oggi della sostanziale e immodificabile infelicità
della vita. Quel tango mi restituiva la dolcezza di quegli anni con
la tremenda consapevolezza di un mondo perduto, proprio perché nel
corto circuito dei ricordi s’intrufolava l’angoscia moderna della
nuova musica. Decisi di cenare lì, nel vecchio caffè. Ma chiesi chi
fosse l’autore del tango e chi lo cantasse. “Él mismo”,
rispose la ragazza che stava al bancone: “Cacho Castaña7:
¡lo compuso y lo canta! ¿Le gusta?” “¡Muchísimo!”8.
Non
è grande musica. Inutile aspettarsi Discépolo e Gardel. Ma c’è
un’aria sinistra che manca al tango storico e manca perfino al
malinconico Piazzolla. E’ la musica della desolazione. Della
solitudine di un paese che ha subito una mostruosa dittatura, una
dittatura che ha fatto sparire 30.000 cittadini, per ripulire la
nazione della feccia che l’inquinava, e il presidente che anni dopo
avrebbe dovuto riparare i guasti, salvarla dalla rovina di una crisi
senza ritorno, e ritornarla ai tempi felici, il presidente Menem,
l’ha invece precipitata in una crisi che sembrò irreversibile,
l’ha sprofondata nella più atroce miseria di tutta la sua storia,
perfino peggio che ai tempi di Rosas9,
ha smantellato il sistema ferroviario, isolando così cittadine,
villaggi, che solo col treno potevano essere raggiunti, fagocitato e
demolito le industrie, assoggettato il paese al capitale staniero
come, fino a quel colmo di avidità e cinismo, non era mai successo
prima. La donna non arriva. Non può arrivare. L’uomo non lo sa o
non vuole saperlo. Chi sa: la donna è forse una desaparecida.
L’amante crede invece di essere da lei tradito, di non essere più
amato. Sarebbe un dolore meno feroce. La verità lo annienterebbe. Ma
quella verità che non si vuole sapere, che non si vuole guardare in
faccia probabilmente è l’unica spiegazione dell’assenza: a
tradirlo, a non amarlo, e come lui a tradire e non amre tutti gli
argentini, è stato qualcuno che ha legato la donna, l’ha
scaraventata nella pancia di un aereo e un volta in alto, sul Rio de
la Plata, l’ha scarventata di sotto. Il tango non lo dice. E’
concreta solo la desolazione di quel caffè chiamato La
Umidità,
la solitudine degli anni passati invano. Ma potrebbe essere andata
veramente così. La desolazione sta proprio nel fatto che oggi, in
Argentina, dietro una tragedia individuale, può sempre celarsi una
tragedia collettiva. Ma solo in Argentina?
La
voce che cantando si dispera, si dispera per se stesso, per
l’abbandono di una donna, ma ascoltandola, quella voce, mi sembra
di ascoltare la disperazione di un popolo intero e forse, chi sa, di
tutto il mondo. I prossimi venturi potremmo essere proprio noi che ci
crediamo scampati. Invece il baratro è là, sempre in agguato, anche
se non lo si vede.
Roma,
26 - 28 febbraio 2010.
1
Famiglia di delfini tipici dell’Oceano Atlantico australe, hanno
il ventre candidissimo e il dorso nero come la pece.
2
Squadra di calcio di Buenos Aires, rivale del River Plate.
3
Sovversivi.
4
Si pronuncia ruta tres, strada 3.
5
Sorta di grappa.
6
Liceo.
7
Cacho Castaña o Cacho Castagna, nome d’arte di Humberto Vicente
Castagna, nato l’11 giugno 1942 nel barrio (quartiere) di
Flores, a Buenos Aires. E’ autore della canzone Café la
Humedad. Ha composto più di 2500 canzoni, ma ne ha incise solo
500.
8
“Lui stesso”, --- : “lo ha composto e lo canta! Le piace?”
“Moltissimo!”
9
Terribile dittatore dell’Ottocento: una prova generale delle
dittature del Novecento.
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