Vocal Works. Piano Works,
Transcription by Debussy.
Warner Classics 0192296915192
3 cd
Luigi Ronga, che fu mio
professore di Storia della musica all’Università di Roma, La
Sapienza, era solito dire che la musica di Debussy, per nitidezza,
precisione, ma anche per fondamentale ed essenziale linearità della
scrittura, per l’inaudita libertà del contrappunto, per la
naturalezza della tavolozza sonora (il “suono di natura”
mahleriano al confronto sembra artefatto), per il gioco dei timbri,
sul pianoforte, e in orchestra, per la duttilità nell’assecondare
la metamorfica qualità della voce e degli strumenti, non trovava
confronti, in tutta la storia della musica occidentale, che nella
musica di Mozart. Un paradosso, una boutade, può darsi. Ma che
coglie l’impressione immediata di misura, di rifiuto degli eccessi,
che la musica di Debussy suscita nell’ascoltatore. Ma anche per
l’incredibile varietà e molteplicità dei mondi sonori, dei
diversi e anche opposti aspetti e forme dell’espressione, dal
drammatico all’elegiaco, dal tragico al comico e perfino al
buffonesco, con cui è conquistato e rapito anche l’ascoltatore
ingenuo. E infine per la rara capacità di mescolare diversi livelli
di stile, da quello alto, anzi altissimo, sublime, della tradizione
classico-romantica, alla musica dei caffè, della strada, dei
cabaret. Il primo, e forse anche il più grande, dei compositori che
aprono la stagione della nuova musica del Novecento. Opportunamente,
dunque, la Warner Classics pubblica, nell’anno del centenario della
morte, un cofanetto di 33 cd, in cui è registrata l’intera opera
di Debussy. Ma non è questo cofanetto che qui voglio segnalare,
bensì un altro, di 3 cd, in cui sono raccolte pagine giovanili e
tarde, inedite o poco note, e inoltre interessantissime trascrizioni
per pianoforte di alcune partiture nate per l’orchestra o per
pianoforte a quattro mani, il tardo, e bellissimo, Jeux, poème
dansé (giochi, poema danzato1),
1912.13 (l’anno del Sacre di Stravinskij!), o Khamma,
légende dansé (Khamma, leggenda danzata), 1911-12. Ma anche
partiture d’altri compositori, la Seconda Sinfonia di Saint
Saëns,
una deliziosa Humoresque
en forme de valse di
Joachim Raff (1893), il nono dei Dodici
brani per pianoforte a quattro mani per piccoli e grandi bambini op.
85 di Schumann.
Splendido
pianista, Jean.Pierre Armengaud. Troppo
lungo l’elenco di tutti
gli interpreti, tutti
comunque all’altezza del compito, soprattutto il Choeur de chambre
de Namur, il tenore Cyrille Dubois, gli altri tre pianisti Philippe
Cassard, Olivier Chauzu, Jonathan Fournel, i baritoni Philippe
Estèphe e Jean Christophe Lanièce. Non sempre controllata,
invece, la voce del soprano Natalie
Pérez. Ma le scoperte,
le perle si trovano tra le musiche vocali (il primo cd). Diane
au bois, comédie lyrique
(Diana nel bosco, commedia lirica), 1885-87, un frammento in cui già
s’individuano le linee di una melodia vocale che nasce dalle
parole. Gli abbozzi e i frammenti (1908-17) per un dramma musicale
tratto dalla Caduta
della casa Usher di
Poe. Debussy non riuscì
mai a completarlo. Ma è segno di quanto lo attraessero le storie
cupe, inesplicabili. E in fondo come il tema fondamentale di tutta la
sua musica sia il confronto con la morte. Ma
come raccontare la morte attraverso la musica? La prima idea che
viene alla mente è il silenzio, perché il silenzio è la cessazione
della musica, dunque una pausa. E di fatti Debussy pensa al silenzio.
I preludi Des pas sur
la neige (passi sulla
neve) e Canope
(canopo) nascono e affondano nel silenzio. Il silenzio è però
anche il
bacino da cui nascono il linguaggio e la musica e in cui linguaggio e
musica si annientano. Ma la pausa è ancora musica, è ancora
inserita nel respiro ritmico della musica. Il silenzio che voglia
rappresentare la fine della musica, l’annientamento della musica,
la morte, deve uscire via dalla musica, starne fuori. Nel Pelléas
et Mélisande, nel
quinto atto, Mélisande muore. Debussy vuole farne sentire il
trapasso, cogliere l’attimo in cui la fanciulla cessa di vivere.
Mélisande muore quando
il vecchio Arkel ha appena finito di dire: “Mais la tristesse,
Golaud, mais la tristesse de tout ce que l’on voit. Oh! Oh!” (ma
la tristezza, Golaud, la tristezza di tutto ciò che si vede. Oh!
Oh!) .
In quel punto Mélisande muore, e la musica si arresta, Debussy
colloca, allora,
una corona sulla stanghetta divisoria della battuta, proprio al
numero 36, in partitura, del quinto atto. Bisogna far sentire la
cessazione della musica, non una pausa. Ma la cessazione di ogni
suono. L musica finisce e
comincia un’altra. Non
tutti i direttori ci riescono. Boulez è perfetto.
E poi, dopo il silenzio,
dopo la morte, la musica,
la vita, ricomincia. Le
cameriere, che erano
entrate silenziose,
attorniano il corpo della morta. Arkel chiede: “Qu’y a-t-il?”
(Che c’è?). Gli confermano che
Mélisande è morta. E il
vecchio commenta: “Je n’ai rien entendu. Si vite, si vite. Elle
s’en va sans rien dire” (Non ho sentito niente. Così di fretta.
Così di fretta. Lei se ne va senza dire niente). Poco prima di
morire Mélisande aveva detto: “Comme nos ombres sont grandes ce
soir!” (come le nostre ombre sono grandi stasera). Ombre che
appaiono e scompaiono, gli uomini. Non
so Debussy, ma certamente Maeterlinck pensava a un verso famoso di
Pindaro: sogno di un’ombra, l’uomo. Del
Pelléas
esitono più registrazioni. Naturalmente nessuna è compresa in
questo cofanetto, perché l’opera
è già inserita nel
cofanetto che contiene
tutte le opere. Quanto a me, per
il Pelléas,
ho un debole per le
incisioni di Boulez e di Abbado. Nessuna, però, nemmeno
queste due, lo confesso,
mi sembra restituire pienamente il tono parlante della vocalità
debussiana. E’ un po’ lo
stesso problema anche di
Monteverdi. Bisognerebbe trovare, infatti,
cantanti talmente colti e
di dizione così discreta, raffinata,
da avere introiettato con
naturalezza la poesia
francese da Villon e Charles d’Orléans a Verlaine e Mallarmé, per
Debussy, e quella italiana da Petrarca a Giovanni della Casa,
Guarini, Ariosto, Tasso, per Monteverdi. E che abbiano, inoltre,
conditio sine qua non,
dimenticato le lezioni di canto ricevute in conservatorio,
dimenticato le Santuzze e
i Turiddu, in cui spesso tendono
a trasformanre
anche i personaggi di
Gounod, Massenet, Bellini, Donizetti e Verdi. E parlino perciò
cantando, trovino, anzi,
nel canto il respiro del parlato. C’è comunque un brano, anzi
due, in questo cofanetto, che mi sembrano le perle più preziose: e
sono la prima versione (1898) di due delle tre Chansons
de Charles d’Orléans
per coro misto a cappella. Qui, come in parte, ma solo in parte,
nell’Hommage à
Rameau per
pianoforte, Debussy fa prova di una miracolosa assimilazione dei
linguaggi musicali del passato. Nessuna imitazione, nessun
neoclassicismo, nessuna accademia, ma la naturalezza prodigiosa di
una polifonia moderna che sembra la inevitabile prosecuzione
dell’antica. Ecco: prosecuzione, non imitazione. Insomma, non la
Sinfonia Classica
di Prokofiev o il Pulcinella
di Stravinskij, ma una pagina totalmente nuova, totalmente
reinventata, che non riproduce gli stilemi dell’antico ma ne ha
assimilato con perizia ineguagliabile i procedimenti compositivi. Sta
qui la particolarità e la novità del rapporto di Debussy con il
passato, ma anche con la musica del suo tempo, la canzone parigina,
la canzone di strada, il rag, il jazz, la
canzone napoletana (nelle Colline
di Anacapri), mai
assunta, questa musica,
com’è,
ma sempre destrutturata
e ricostruita
da capo, assimilata
alla propria personalissima invenzione musicale. Si è parlato, a
volte, a mio avviso sbagliando il bersaglio, di una sorta di
personale neoclassicismo debussiano. Soprattutto a proposito delle
ultime Sonate
per più strumenti. Ma, come si è detto, Debussy non è mai
neoclassico. Perché qualunque suggestione musicale gli arrivi, la
trasforma subito in qualcosa d’altro, la rende irriconoscibile come
re-invenzione del passato e ne fa materia di una musica nuova. Una
specie di Cézanne della musica. Anche le ombre della pittura del
passato, per esempio Piero della Francesca, sono deformate,
trasfigurate, in figure di un’invenzione radicalmente nuova. Il
Novecento, il secolo breve, come qualcuno l’ha definito, si è
ormai concluso. Molti compositori, anche grandissimi, sono consegnati
alla sua storia. Debussy sfugge all’incasellamento. Ci parla ancora
un linguaggio nuovo, un
linguaggio ancora da
scoprire. Ancora la sua musica feconda le idee dei nuovi musicisti.
In questo, forse, il confronto che Ronga stabiliva con Mozart, può
avere un senso.
Fiano
Romano, 4 settembre 2018
1In
francese il termine poème significa sia poema, come in italiano,
che poesia. I Poèmes en prose di Baudelaire sono
naturalmente poesie in prosa. Ma Omero, Ariosto hanno scritto poèmes
che sono in italiano poemi. E in questo caso i giochi sono giochi di
un poema in cui, con la danza, si raccontano sulla scena le
schermaglie amorose di tre giocatori di tennis.
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