martedì 19 marzo 2019

Orchestra di Padova e del Veneto, Orazio Sciortino







PADOVA. AUDITORIUM POLLINI

ORCHESTRA DI PADOVA E DEL VENETO

Direttore e pianista, Orazio Sciortino

Qualcuno potrebbe oppormi un conflitto d’interessi. Il concerto sul quale sto scrivendo queste righe, infatti, si è tenuto all’Auditorium Pollini di Padova il 14 marzo scorso. Sulla Sinfonia di Haydn nel programma ho tenuto una lezione il sabato seguente, nella Sala dei Giganti. Ma qui scrivo solo del concerto. Il programma condensava 50 anni di musica, da Carl Philipp Emanuel Bach a Beethoven. Tra i due, una sinfonia di Haydn. Tre compositori, dunque, di continuo e spericolato sperimentalismo. Con un atteggiamento per l’atto della composizione che, senza tema di anacronismo, si potrebbe chiamare avanguardistico. Succede, in certe svolte della storia, che gli artisti sentano il bisogno di sperimentare nuove forme, di sfidare il pubblico a confrontarsi con esperienze inusitate. Un momento tale, prima di C. Ph. E. Bach e di Haydn, era stato il secolo precedente, il XVII, nel quale i musicisti di ogni paese d’Europa, ma soprattutto in Italia e in Francia, si avventurarono in un territorio inesplorato, abbandonarono a poco a poco la fluidità delle armonie modali per gettarsi avidi in una zona ancora inesplorata, un continente dove c’era scritto: hic sunt leones, e i leoni aggredivano il musicista dalle nuove funzioni dell’armonia tonale, la sovrapposizione e di melodie diverse o della stessa a diverse altezze, lasciava il posto a una successione verticale di accordi. Nel passaggio, però, da un sistema all’altro – ed è il caso del secolo XVIII – i musicisti tengono il piede in due staffe: sperimentano l’andamento accordale, ma non se la sentono di rinunciare alla combinazione contrappuntistica delle linee orizzontali (non sempre si tratta di vere e proprie melodie). Il paese che più si avventura in queste sperimentazioni non è più l’Italia, e nemmeno la Francia (ma in nessuno dei due paesi tuttavia il contrappunto è messo da parte, se mai è piegato a ubbidire alle concatenazioni armoniche comandate dal basso). Il figlio secondogenito di Johann Sebastian Bach è forse il musicista che dopo la metà del secolo si avventura di più, sottoponendo anche la strutturazione dell’intero brano a una logica della sorpresa, dell’imprevisto, si direbbe perfino dell’improvvisazione, combinando tra loro elementi non solo contrastanti, ma perfino eterogenei: melodie minime, scaturite quasi solo da una fioritura, alle quali fanno seguito inaspettate irruzioni di tempeste armoniche. E’ il caso dei due bellissimi Concerti per clavicembalo/pianoforte e orchestra in re maggiore Wq 43 n. 2, del 1772, e in mi maggiore (orchestra di soli archi) Wq 14, del 1760, eseguiti in quest’ordine da Orazio Sciortino, in veste sia di pianista sia di direttore.

Nel Settecento, almeno dalla metà in poi, il clavicembalo vede affiancarsi un nuovo strumento, il pianoforte (chiamarlo fortepiano per distinguerlo dal pianoforte moderno può essere utile, ma di fatto si tratta del pianoforte, in russo ancora oggi il pianoforte si chiama fortepiano), e proprio C. Ph. E. Bach registra questa trasformazione componendo un concerto per clavicembalo, pianoforte e orchestra, gesto di una modernità sconvolgente, come sarebbe stato negli anni ‘50 del secolo scorso scrivere un’opera per orchestra e registrazione elettronica. Lettura penetrante, anzi direi illuminante, quella di Orazio Sciortino, proprio perché dei due concerti ha messo in evidenza la solidità costruttiva fondata però su un’invenzione estemporanea, come si è detto, quasi d’improvvisazione. Ma senza perdere mai il filo, appunto, della continuità musicale. Tocco sensibilissimo, quello di Sciortino, che ha anche penetrato con raffinata sensibilità la mobilità imprevedibile del melodizzare di Carl Philpp Emanuel Bach, l’uso strutturale della fioritura – come avveniva nella scrittura clavicembalistica di Couperin e come avverrà in quella pianistica di Chopin – come a dire che da una parte è riassunta e trasformata l’esperienza dell’invenzione barocca e dall’altra sono poste le premesse per uno sviluppo nuovo di ciò che poi i romantici chiameranno espressione, ma che non è invenzione romantica, perché anzi la sensibilità di Carl Philipp Emanuel è addirittura capillare, umorale, imprevedibile: più che alla rappresentazione degli affetti, la sua musica sembra ispirarsi all’umore istantaneo, all’inafferrabile sensazione del momento. Ad aprire il concerto Sciortino aveva scelto però una delle pagine più emblematiche di Beethoven: l’ouverture Egmont. Le musiche per la tragedia di Goethe, e in particolare l’ouverture, hanno un valore quasi emblematico del pensiero compositivo di Beethoven: aggredire subito l’ascoltatore con una situazione musicale tesa, irta di contrasti violenti, che s’immette e si rafforza poi in un canto a gola spiegata, tesissimo anch’esso, per poi concludere l’avventura musicale con un gesto trionfalistico di esultanza, non meno esasperato e teso della situazione precedente di costrizione e di angoscia. E’ il paradigma della Quinta e della Nona, ma anche del Fidelio, che anzi dà corpo drammaturgico a questo procedimento, e che in fondo fa capire come tutta l’invenzione beethoveniana abbia radici teatrali, alla faccia di chi si ostina a negargli talento drammaturgico, ma, come aveva bene intuito Wagner, il dramma, in Beethoven, non ha bisogno di un’esplicitazione teatrale, bensì è già pienamente realizzato dalla costruzione musicale: il dramma è la musica stessa. Sciortino ha bene individuato questo aspetto della scrittura beethoveniana, e l’ouverture la si è ascoltata aggredire l’ascoltatore con violenza, ma insieme anche con tenerezza, attraverso contrasti sempre più intensi per concludersi nella concitazione frenetica del finale gioioso e trionfale. A conclusione del bellissimo concerto la Sinfonia n. 80 di Franz Joseph Haydn, un capolavoro di costruttivismo musicale, in cui il lavoro astratto dell’elaborazione ritmica e contrappuntistica si associa all’evidenza dei brevi, icastici motivi, nemmeno temi, che la realizzano. Un ritmo sincopato che dal primo movimento, dove è solo un accidente secondario, si fa nell’ultimo tempo vero e proprio elemento tematico. L’attacco tempestoso, stürmisch appunto, sfocia in un motivetto di Lāndler che chiude l’esposizione. Due battute vuote ritardano l’ingresso dell’elaborazione, all’inizio della seconda parte, e tale elaborazione non è praticata sul tema iniziale, bensì sul motivetto di valzerino paesano. La drammaticità, la tragicità dello Sturm un Drang cede il posto alla festa, al divertimento, ma è poi nel corpo stesso della danza che di nuovo si alza la tempesta, si scatena il dramma. Tragico e comico non sono separabili. C’è qui già in atto ciò che Mozart realizza appena l’anno dopo, nel 1785, nelle Nozze di Figaro: commedia e tragedia sono compenetrate nella commedia umana che prevede sia la gioia che il dolore, sia il pianto che la risata. La sinfonia Haydn la pubblica da Artaria proprio nel 1785. L’adagio è di una cantabilità contenuta, ma che si oscura e affonda presto anche qui in climi cupi, di tensione armonica. Il minuetto fa già pensare a Schubert. Che meraviglia, dunque, se alla fine il pubblico esploda in fragorosi applausi? Come del resto aveva reagito anche il pubblico viennese dei concerti di Quaresima, nel 1784, quando la sinfonia gli venne proposta insieme alle altre due, n. 79 e n. 81, che costituiscono quasi un ciclo unitario. Coincidenza, anche a Padova, la brava e sensibile Orchestra di Padova e del Veneto ha suonato questa sinfonia nel periodo di Quaresima.

In margine, un’osservazione: Orazio Sciortino, oltre che straordinario pianista e sensibilissimo direttore, è anche, o forse soprattutto, compositore. Ho scritto, recentemente, su queste stesse pagine di due suoi cd, uno più bello e stimolante dell’altro, Self portrait, della Sony, e Chamber Music for piano and strings, della claves, rimando a quelle righe il lettore. Ma qui voglio mettere in evidenza un fatto: che un compositore interpreta in maniera spesso assai più intrigante ciò che suona o dirige, perché sa entrare tra le righe della scrittura. Non è il caso che faccia gli esempi. Sono, credo, nella memoria di tutti. Orazio Sciortino vi appartiene con una sua cifra tutta particolare, quella di leggere il passato come fosse presente. Non nel senso di modernizzare superficialmente la partitura, bensì in quello più profondo di penetrarne le ragioni compositive, le nervature architettoniche, il senso stesso della scrittura, perché in un modo e non in un altro. E non si tratta di intellettualismo. Perché il pubblico lo coglie perfettamente, ed esplode giustamente in entusiastici applausi.

Fiano Romano, 19 marzo 2019

lunedì 11 marzo 2019

IUC, Alexander Lonquich



ROMA, IUC
ISTITUZIONE UNIVERSITARIA DEI CONCERTI
AULA MAGNA DELL’UNIVERSITA’ “LA SAPIENZA”
Alexander Lonquich, pianoforte
Die Wahlverwandtschaften”, le affinità elettive


Die Wahlverwandtschaften”, le affinità elettive, intitola Goethe il suo romanzo più moderno. I rapporti umani, e soprattutto quelli amorosi, vi appaiono regolati secondo l’attrazione molecolare degli elementi, viventi e no. Dall’inorganico all’organico la Natura sembra squadernarci un’unica successione di elezioni attrattive. Le odierne neuroscienze sembrano dargli ragione. Ma Alexander Lonquich va ancora oltre e assume la sublime metafora (ma solo una metafora?) goethiana anche come parametro di predilezioni musicali, di associazioni mentali che le pagine di autori diversi di epoche diverse possano suscitare in chi legge, in chi suona, in chi ascolta. Così, un abbozzo quasi stenografico di Janáček, “L’anello d’oro”, siglato quasi in punto di morte, è accostato a un cupo “Foglio d’album” schumanniano, a una meravigliosa riflessione di Carl Philpp Emanuel Bach che si accomiata dal suo prediletto pianoforte Silbermann: commoventissimo commiato dal proprio amato strumento musicale, il titolo è già tutto un programma; “Abschied von meinem Silbermannschen Claviere in einem Rondo”, distacco dal mio pianoforte Silbermann in forma di rondo. Ognuno sa quanto intimo, segreto, sia il rapporto di un musicista con il proprio strumento. E i pianoforti berlinesi Silbermann erano nel Settecento ciò che sarebbero poi stati i Bechstein, gli Steinweg diventati Steinway. Silbermann riusci a convincere Johann Sebastian Bach, il padre di Carl Philip Emanuel, della bontà di questo nuovo strumento, tanto che Bach se ne fece mandare tre a Lipsia. Era il 1747, la morte, nel 1750, ci ha privati della sperimentazione che sicuramente Bach aveva subito avviata e messa in atto. Ma c’è rimasta quella del figlio, straordinaria, e decisiva per Beethoven. Il commiato musicale di Carl Philipp Emanuel è del 1781. C’è un folgorante preludio di Beethoven, del 1803, che Lonquich ha voluto proporre, subito dopo Stravinskij: in esso si condensa quasi un secolo di musica, e se ne prefigura un altro: vi si coglie il lungo respiro contrappuntistico di Johann Sebastian, ma anche l’emotività del figlio Carl Philipp Emanuel, e in più l’ossessione di una sintesi ritmica, di una cellula unica che generi tutto il pezzo e un piacere della cantabilità che sarà di Schumann. Gli altri brani interpretati da Lonquich sono di Bruckner, di Skrjabin, di Reger, c’è perfino un bizetiano Theodor Wiesengrund Adorno, chi se lo sarebbe aspettato, l’allievo di Berg che ammicca alla leggerezza francese, ma del resto lo si poteva immaginare da uno come lui, ammiratore, anzi adoratore di Baudelaire. Una sorta di diario intimo, dunque, questa che Lonquich chiama playlist, ma non già solo dei sentimenti, bensì soprattutto delle letture musicali o, meglio, dei sentimenti suscitati dalle letture: non già programmate, quanto se mai occasionali, assimilate per contrasto o per affinità. Una lezione mirabile di pensiero musicale. Perché poi al fondo qui sta il nodo: che la musica è una forma del pensare. Non nel senso che possa essere tradotta in parole, bensì che la musica stessa è un atto del pensiero. Non a caso a questo “catalogo delle belle che amò” incarnantesi in pagine musicali, il seduttore pianista, a sua volta sedotto dalle seducenti crittografie, gli dà l’avvio con una sberleffeggiante cifratura, quella “Circus Polka, per un giovane elefante” che Stravinskij compone nel 1942 per pianoforte, su commissione di Balanchine, per il Circo Barnum. David Ruskin ne fece subito un arrangiamento per banda, ma nel 1944 Stravinskij la strumentò per un organico di 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, percussioni, archi: con quest’organico fu eseguita dalla Boston Symphony Orchestra. Come in uno specchio convesso vi s’intravede, anzi vi s’intrascolta la Marcia Militare di Schubert. Ecco, allora, che memoria, parodia (in senso musicale e no), rievocazione da cabaret o da circo, assumo l’aspetto di una maschera, come chi sa sono sempre tutte le musiche, evocazioni del tempo perduto. E perciò Theodor W. Adorno, come s’è detto, si traveste da Bizet, Grieg sembra preannunciare cattedrali inghiottite dall’acqua, Stefan Wolpe, compositore che andrebbe riconsiderato e soprattutto ripresentato nei concerti, scatena una fantasia di tagliente, staffilante intelligenza in un Tango del 1927 e ancora più nell’incantante Stehende Musik di due anni prima. La playlist, come la chiama Lonquich, comprende 18 brani di 14 compositori. Il filo rosso che unisce queste pagine è una spericolata sperimentazione, perfino da parte del pur prudente Rachmaninov, il “Preludio” op. 23 n.7 (1923), infatti, non è ancora del tutto infagottato dal successo. Ma ecco, poi, che alla fine Beethoven, non a caso, nella prima parte del concerto, accostato subito, in apertura, alla Polka di Stravinskij, sembra, nella seconda parte della serata, mettervi il suggello dell’incessante ricerca di un senso quasi dal niente, dalla cellula minima, dalla molecola da cui si costruisce ogni organismo, vivente e no. Una sorta di sigillo che certifica l’unità dell’esistente, il cielo stellato in alto, come scrive Kant, amorosamente annotato da Beethoven, e il principio morale sulla terra, nell’uomo (“dentro di noi”, scrive Beethoven). Le “33 Variazioni in do maggiore su un valzer di Diabelli” op. 120, sembrano chiarirci, infatti, ciò che prefigurava il breve “Preludio in fa minore” (la tonalità della sua prima sonata per pianoforte, e dell’op. 57 (Appassionata), dell’inizio del secondo atto del “Fidelio” e poi della grande aria di Florestano, e del Quartetto op. 95): nel senso che qui la musica si fa concreta costruzione della memoria e prefigurazione di una musica che verrà, e questo ancora prima, molto prima, che nel cervello di Wagner baluginasse l’idea di una musica dell’avvenire: Beethoven rievoca Bach, Mozart, Haydn, ma prefigura anche Chopin, Brahms, perfino Bartók. Dall’ “ingenuo” valzer, cambiato, trasformato, ristrutturato, reinventato, verändert, appunto, e non già semplicemente variato, nel corso di 32 variazioni, la 33a variazione o, piuttosto, trasformazione, in tempo di minuetto, dopo tanta rivoluzione, sconvolgimento, cambiamento, rimodellamento dell’idea di partenza, ristabilisce da capo l’ordine, la misura, il senso, isola e circoscrive nel Settecento di Haydn e di Mozart il paradiso perduto: che però non può più essere quello che era, ma ci si mostra piuttosto come la sua rievocazione, la si ascolta, cioè, in uno spazio cambiato, in un tempo “variato”, da una condizione prospettica trasformata: lo spazio dell’oggi. Non è la prima volta, a dire il vero, per Beethoven. C’era già stata la enigmatica, ammiccante, stupenda, già quasi “neoclassica” Ottava Sinfonia. E c’erano stati i tempi di minuetto sparsi attraverso tutto il percorso delle sonate per pianoforte. Vi si trasente già quasi Stravinskij.
Ma a solidificare, infine, memoria e premonizioni, Lonquich ci regala un bis speciale: un elaboratissimo improvviso di Chopin, il secondo in fa diesis maggiore. Tra le più visionarie pagine di Chopin. Vi si sente, sembra, un’eco delle variazioni beethoveniane.
Veränderungen le chiama Beethoven: cambiamenti, trasformazioni in altro. Chopin agisce, sembra, nella stessa direzione, anche se in altro modo. L’idea non resta mai quella di partenza o, se ritorna, ritorna diversa, o se ritorna uguale, vi si riverbera tutto ciò che è accaduto prima del ritorno. C’è una sonata di Beethoven in cui ciò accade con lancinante, dolorosissima, quasi disperata chiarezza: l’op. 109. Il finale è un tema con variazioni. Ma concluse le variazioni il tema riappare tale e quale. Non lo si riascolta, però, tale e quale, come si era presentato la prima volta. Perché nella memoria dell’ascoltatore resta ancora impressa l’avventura delle variazioni precedenti il ritorno del tema. Il tema appare ormai quasi un altro: quasi fosse il ricordo di sé stesso. Il paradiso evocato può appunto essere solo evocato, la sua felicità è perduta per sempre. Schumann ne farà tesoro soprattutto nei Lieder, “Dicheterliebe”, “Frauen-Liebe und Leben”. L’uguale che ritorna ci si mostra diverso, ci si presenta altro. L’altro ci si rivela, appunto, come il nodo in cui si lega tutta la musica ascoltata, la musica stessa ci si manifesta come pensiero, il pensiero musicale che può scaturire da una singola idea, da una minima cellula, da una singola molecola, e trasformarsi, costruirsi attraverso molteplici e numerose affinità elettive. Lonquich ha presentato l’interessantissimo programma all’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma, per l’Istituzione Universitaria dei Concerti. Ma questa sua playlist la sta interpretando in giro per l’Italia. A Milano sarà per il 25 marzo, alla Sala Verdi del Conservatorio per le Serate Musicali. E’ un’esperienza da non perdere. L’intelligenza dell’interpretazione corrisponde all’intelligenza della proposta, per esempio nella sensibilità del tocco che fa seguire distintamente il gioco contrappuntistico delle voci. Se ne esce conquistati e commossi. Perché ogni distinzione, ogni separazione tra pensiero ed emozione, tra ragione e sentimento, è abolita: tutte quante le molecole e le cellule del nostro corpo reagiscono all’unisono raggiunte, colpite, e colte da questa musica che sembra arrivarci dall’iperuranio di un Pensiero che pensa sé stesso. L’Amor che muove il sole e l’altre stelle, direbbe Dante, configurando un’unità dell’esistente che è poi la stessa, in altro modo, vagheggiata da Goethe.




ROMA, IUC
ISTITUZIONE UNIVERSITARIA DEI CONCERTI
AULA MAGNA DELL’UNIVERSITA’ “LA SAPIENZA”
Alexander Lonquich, pianoforte
Die Wahlverwandtschaften”, le affinità elettive



Fiano Romano, 11 marzo 2019

martedì 5 marzo 2019

Dopo il Prometeo di Luigi Nono

DOPO IL PROMETEO

Sestina per Luigi Nono.

Inabissàti: lunga eco del canto
più che memoria gl’inconclusi spazi
ai sopraggiunti silenzi dal tempo
disconnette, ma sillaba l’istante,
innominato, ne disserra un suono,
e dall’atto germoglia la parola.

Ma nell’atto non è solo parola
la lung’attesa che dischiude al canto
tra le sillabe il fremito del suono,
né interminati vibrano gli spazi
allo schiocco dell’ora in cui l’istante
schiude, senza ritorno, un altro tempo

da quello che memoria dice tempo;
l’atto del dire non chiude parola
che nel breve finire dell’istante,
ma si dischiude da quel punto il canto
e dentro si racchiudono gli spazi
dov’è tempo lo scorrere del suono.

Oltre non hai né tempo più né suono:
ma l’informe durare senza tempo,
nuda carta, vertigine di spazi,
che invano aspetta un solco di parola,
perché a un tremito d’onda esploda il canto,
e nasca nell’esplodere l’istante.

Ma esplosa, dentro il canto, in quell’istante,
soltanto la parola, un puro suono,
nella memoria, si disegna canto:
oltrepassato, e smemorato, il tempo,
una traccia condensa la parola
e disegna tra fossili gli spazi.

Deserti dopo l’estasi gli spazi,
culmine invalicato dell’istante
l’atto che disinnesca la parola,
ultimo tempo in cui si spezza il suono,
onde rifratte di memoria il tempo,
qui s’addensa e per noi germina il canto:

ultimo canto di deserti spazi,
qui perde il tempo il proprio ultimo istante,
si fa parola ed abbandona il suono.

Venezia, 12-20 giugno 1993.

Una sestina per Luciano Berio

LA LINGUA NASCOSTA

A Luciano Berio

Nascesse a noi nascosta la natura
dell’atto in cui s’imbratta la ragione
con le cose, sentirne attraversata
screpolarsi la sillaba che intona
dal grembo scardinata la parola
senza schermo potremmo di figura.

Ma disgregata forse la figura
nel nudo nodo della sua natura
non si disegna in noi d’altra parola
il segno, che una fuga di ragione,
in cui soltanto per paura intona
qualche suono la mente attraversata

dalle cose, se pure attraversata
ma non trafitta, segna una figura
di sé la mente, che il silenzio intona:
da quell’abisso invoca una natura,
là dentro cerca e chiede la ragione
il senso che conforma la parola.

Ma non apre alla mente la parola
che parvenza di sensi attraversata
dai suoni, né disgombra la ragione
d’altro segno che della sua figura:
nessuna voce dice la natura,
solo sé stessa la parola intona.

Uscisse da sé stesso chi l’intona,
da sé non uscirebbe la parola,
né squarcia, risuonando, altra natura
che il segno in cui si specchia, attraversata
dall’ombra di sé stessa, la figura
per cui s’accende e spegne la ragione.

Toccasse ultimo inferno la ragione
il deserto di sillabe che intona,
smarrendo di sé stessa la figura,
almeno una parvenza di parola,
non questa lastra d’orme attraversata
dai fossili scampati alla natura.

Fossile di natura la ragione
attraversata d’ombre se c’intona
non è parola che la sua figura.

Roma, 5 marzo – 15 giugno 1995.

lunedì 4 marzo 2019

Teatro Potlach: Processo a Brancusi





TEATRO POTLACH, FARA IN SABINA
Processo a Brancusi
Teatro e arte contemporanea
Regia di Pino Di Buduo

Processo a Brancusi è una “nuova produzione del Teatro Potlach, che vuole interrogarsi sul senso dell’arte”.



Questione immensa! Queste righe, infatti, non vogliono essere né una recensione dello spettacolo, né una risposta alla domanda che sembra porre.

Gli attori e gli amici del Teatro Potlach, infatti, hanno semplicemente – ma davvero era poi così semplice rappresentare ciò che al processo fu discusso? - hanno semplicemente, ripeto, sceneggiato un processo, seguendo fedelmente la redazione dei verbali.

Ma di che processo giudiziario si tratta? Di quello intentato da Costantin Brancusi nel 1926 agli Stati Uniti, per avere preteso il pagamento di una tassa per l’ingresso di una scultura, Uccello nello spazio, che il doganiere si rifiutò di classificare come “opera d’arte” e che definì invece “utensile di cucina”. La sentenza è sorprendente. Il giudice, o meglio i giudici, perché erano due, George Young e Byron Waite, compresero che il concetto di arte cambia con il tempo, che la cultura ne allarga via via il campo. E riconobbero pertanto la legittimità del ricorso.


L’oggetto considerato […] è bello e dal profilo simmetrico, e se qualche difficoltà può esserci ad associarlo ad un uccello, tuttavia è piacevole da guardare e molto decorativo, ed è inoltre evidente che si tratti di una produzione originale di uno scultore professionale […] Accogliamo il reclamo e stabiliamo che l’oggetto sia duty free. Che abbiamo o no simpatia per le idee nuove o quelli che le rappresentano, pensiamo che la loro esistenza e la loro influenza nel mondo […] vada presa in considerazione.

Così recita la sentenza dei giudici chiamati a decidere se Uccello nello spazio fosse o no un’opera d’arte. 

 

Ora, a questo punto alcune riflessioni sorgono spontanee. Troppo facile accusare d’ignoranza e incultura lo zelante doganiere F.J.H. Kracke. Quanti oggi reagirebbero allo stesso modo davanti a una “scultura” di Brancusi? O a una installazione di Cattelan? Ricordo che a Bologna anni fa fu sequestrato come materiale pornografico una serie di fotografie che dovevano essere esposte in una mostra del nudo nella fotografia. E’ recente, inoltre, la polemica sollevata a Milano sul Teatro di Burri in un Parco cittadino o a Roma sulla nuova sistemazione della GNAM (Galleria Nazzionale d’Arte Moderna). In una grande sala di quest’ultima, sul pavimento giace l’opera di Pino Pascali chiamata “32 metri quadrati di mare circa”. Sono vaschette quadrate riempite di acqua. Nella grande sala c’è un Mondrian al muro e in fondo la scultura di Canova che rappresenta Ercole nell’atto di scagliare Lica nello spazio. Da un certa angolazione visiva Canova si specchia nel mare di Pascali. Ecco che l’arte del passato dialoga con l’arte del presente. Non solo, ma trasferendo lo sguardo dalla composizione di Mondrian al mare di Pascali ci si accorge che il processo di astrazione è il medesimo. E tutt’e tre le opere sono una rappresentazione dello spazio, della percezione dello spazio. Proprio come l’ “uccello” di Brancusi. Una volta che stavo visitando la galleria romana, proprio davanti al “mare” di Pascali l’uomo attempato di una coppia ben vestita, con smorfie di disgusto, esclamò: ma questa non è arte! Nell’anno di grazia 2018.



Spettacoli come questo stimolano, dunque, lo spettatore a riflettere sulla banalità di molte delle proprie convinzioni. Sull’ingannevole semplicità di talune idee credute invece verità inossidabili. Per esempio, che l’arte debba rappresentare la realtà. Che la musica debba avere una melodia. Che la poesia debba essere comprensibile. Ma quale realtà deve rappresentare l’arte? Quella che vede anche una fotografia? Ma che tipo di fotografia? Oggi l’ “arte” fotografica è andata molto avanti nel trasformare l’immagine catturata. E che melodia dovrebbe intonare una musica? Tonale? Modale, pentatonica? E perché una successione di suoni che non osservi nessuna regola tonale, o modale, non potrebbe essere intesa come melodia, fossero pure due soli suoni o addirittura uno, ma articolatissimo, come avviene già per esempio in Webern, e siamo agli inizi del Novecento? E quanto comprensibile una poesia? “Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra”, verso con cui comincia una splendida sestina di Dante è verso immediatamente comprensibile, il lettore già capisce, alla prima lettura, che si sta parlando dell’inverno?

Bravissimi, dunque, gli attori del Potlach. Il pubblico è uscito, dopo lo spettacolo, con qualche dubbio in più sulle proprie idee intorno all’arte. E soprattutto comprendendo che il cammino della verità non è avviato dalle certezze, bensì dai dubbi che mettono in discussione le certezze acquisite. Sempre, senza eccezioni. E nemmeno questa non è una certezza, ma una condizione: la condizione di qualunque ricerca. Perché anche l’arte è una ricerca, che non ha mai fine.


Fiano Romano, 4 marzo 2019

domenica 3 marzo 2019

Arnaut Daniel, L'aur'amara




Arnaut Daniel, L’aur’amara
A cura di Mario Eusebi. Roma, Carocci editore, “Biblioteca Medievale”, 2019, pagg. 165, € 18,00.

Quan chai la fuelha
dels aussors entressims
e·l freg s’erguelha
don secal vais el vims,
dels dous refrims
vei sordezir la bruelha:
mas ieu sui prims
d’Amor, qui que s’en tuelha.

Quando cade la foglia
delle più alte cime
e il freddos’inasprisce
per cui si secca il nocciolo e il salice,
dei dolci gorgheggi
vedo impoverirsi il bosco:
ma io sono prossimo
ad Amore, chiunque se ne allontani.

(Traduzione di Eusebi, adattata all’ordine originale delle parole)

L’occitanico può sembrare simile al catalano. Ma è un’impressione fuorviante. Così come tutt’altra lingua è il provenzale odierno. Logico che sono lingue imparentate per derivazione comunque dal latino, ma differiscono l’una dall’altra per un’ evoluzione diversa di ciascuna, successiva al XII secolo. Senza contare che esistevano ed esistono differenze locali. Pertanto si consiglia una lettura individuale di ciascun poeta. Arnaut Daniel, Arnaldo Daniello, in italiano, è poeta assai ammirato al suo tempo, ma guardato con diffidenza dopo il romanticismo, perché troppo artificioso, freddo, un calcolatore della lingua, non un poeta. Dante, tuttavia, lo definisce “il miglior fabbro del parlar materno”. E ha ragione. Non a caso, però, lo dice “fabbro”: mette in rilievo perciò la sua abilità architettonica, la sfida di costruire poesia con regole ferree, strette, su pochi, pochissimi elementi. Proprio ciò che dispiaceva ai romantici. E dispiace ai semplificatori di oggi.
Nella “copla”, strofa, sopra citata, le rime si riducono a due, ma distribuite per otto versi, quattro versi per rima. Altre volte tutte le coplas hanno le stesse rime della prima copla. E, infine, è sua l’invenzione della sestina, un componimento di sei strofe di sei versi ciascuna delle quali ciascuna propone in fine di verso un parola rima. Ogni strofa ripete le parole intrecciando l’ultima alla prima, la penultima alla seconda, la terzultima alla terza: ABCDEF, FAEBDC, CFDABE, ECBFAD, DEACFB, BDFECA, la tornada, il congedo di tre versi ripropone l’ordine iniziale ABCDEF, ma con rime al mezzo. Così è costruita la mirabile sestina “Lo ferm voler qu’el cor m’intra”, il fermo volere che nel cuore m’entra. Dante accetta la sfida e anzi rilancia, e compone una sestina doppia, “Io son venuto al punto de la rota”.
Aranut, insomma, è della cerchia dei poeti che si fanno intendere solo da chi fa parte della cerchia: poesia intellettualistica, se mai altra, lambiccatissima, artificiosissima, e – proprio per questo? - sublime. Oggi probabilmente sarebbe sbeffeggiato dai tanti, troppi, fautori della semplicità, della comprensione, dell’immediatezza e dell’intellegibilità dell’arte. Come la mettiamo? Dante lo chiama “miglior fabbro del parlar materno”. Petrarca – Triumphus Cupidinis, IV, 40-42 - “ch’a la sua terra / ancor fa honor col suo dir strano e bello” (“strano e bello”, traduzione in volgare fiorentino del “trobar clus”, poetare chiuso, oggi diremmo ermetico). Leggiamoci per intero una sua poesia.

Ab gai so cuindet e leri
fas motz e capus e doli,
que seran verai e sert
quan n’aurai passat la lima,
qu’Amor marves plan’e daura
mon chantar que delieis mueu
cui Pretz manten e governa

Tot jorn melhur e esmeri
quar la gensor am e coli
del mon, sous dic en apert:
sieu so del pe tro qu’al cima,
e si tot ventaill freg’aura
l’amor qu’ins el cor mi plueu
mi ten caut on plus iverna.

Mil messas n’aug en proferi
en art lum de cer’e d’oli
que Dieu m’en don bon acert
de lieis on nom val escrima;
e quan remir sa crin saura
el cors qu’a graile e nueu
mais l’am que quim des Luzerna.

T’an l’am de cor e la queri
quìab trop voler cug lam toli,
s’om ren per trop amar pert,
quel sieu cors sobretrasima
lo mieu tot e non s’aisaura:
tan n’a de ver fag reneueu
q’obrador n’ai’e taverna.

No vuelh de Roma l’emperi
ni qu’om m’en fassa postoli
qu’en lieis non aia revert
per cui m’art lo cors em rima;
e sil maltrait nom restaura
ab un baizar anz d’annueu,
mi auci e si enferna.

Ges pel maltrag que∙n soferi
de ben amar no∙m destoli;
si tot me ten en dezert
per lieis fas lo son e∙l rima:
piegz tratz, aman, qu∙om que laura,
qu’anc non amet plus d’un hueu
selh de Moncli Audierna.

Ieu sui Arnaut qu’amas l’aura
e cas la lebre ab lo bueu
e nadi contra suberna.

Con gaio suono graziosetto e lieto
faccio parole e sgrosso e piallo
che saranno vere e certe
quando ci avrò passato la lima;
perché Amore subito appiana e indora
la mia canzone che da lei muove
il cui Pregio sostiene e governa.

Ogni giorno miglioro e mi affino
perché la più gentile amo e servo
del mondo, ve lo dico apertamente;
suo sono dal piede fino al capo,
e se anche soffia un’aura fredda
l’amore che nel cuore mi piove
mi tiene caldo quanto più s’inverna.

Mille messe ascolto ed offro
e ardo lume di cera e d’olio
che Dio mi doni buona riuscita
con lei con cui non vale scherma;
e quando guardo il suo crine d’oro
e il corpo che ha agile e nuovo
più l’amo di chi mi desse Lucerna.

Tanto l’amo di cuore e la bramo,
che per troppo volere penso di togliermela,
se cosa per troppo amare si perde,
perché il suo cuore sovrasta
il mio talmente e non si stacca
tanto n’ha davvero fatto usura
ch’artigiano n’abbia e taverna.

Non voglio di Roma l’impero,
né che mi si faccia apostolo
se in lei non ho riparo
per cui m’arde il cuore e brucia;
e se il duolo non mi risana
con un bacio prima dell’anno,
mi uccide e s’inferna.

Per la doglia di cui soffro
di ben amare non mi distolgo,
anche se così mi tiene in abbandono
per lei faccio il suono e la rima:
peggio sto, amando, che chi lavora,
che mai non amò più di un uovo
quegli di Moncli Audierna.

Io sono Arnaldo che ammucchio l’aria,
e caccio la lepre con il bue,
e nuoto contro corrente.

Ho cercato di restare fedele, traducendo, al dettato di Arnaldo. Ma non è facile. E solo la rima finale di ogni copla sono riuscito a salvare. Perduta però nella tornada (il congedo). Il virtuosismo di richiamare in ogni copla le rime della prima non è solo sfoggio di bravura architettonica, ma un modo di richiamare l’attenzione sulla scrittura, è una poesia, questa, che sì parla d’amore, ma insieme parla del modo di parlare d’amore. Dante ne restò perciò impressionato, perché anche lui cercava una poesia che parlasse della poesia. Insomma la scrittura non dimentica mai di essere al contempo riflessione sulla scrittura. Lascio ai competenti filologi romanzi di approfondire questo aspetto. Qui richiamo questo modo di fare poesia perché mi sembra istruttivo di quanti modi esistano nei quali si possa scrivere poesia. Non senza osservare in margine quanto alla luce di una poesia come questa, della quale la musica faceva parte irrinunciabile, quanto, dico, appaia ridicola, provinciale, settaria la polemica alzatasi in Italia per il Nobel a Bob Dylan.
Ma, ritornando ad Arnaut Daniel, e alle riflessioni che suscita in riferimento alla poesia di oggi, all’arte di oggi, viene da pensare che alla validità della poesia non contribuisce certo la sua comprensibilità, la sua facilità, o per opposizione la sua artificiosa complessità. Nell’un caso come nell’altro il senso della poesia sta nella sua scrittura. Che sia semplice o complicata. Dante può scrivere intricatissime sestine (maestro riconosciuto, come s’è visto, Arnaut) e perfino inventarsi una sestina doppia, ma anche buttare giù un piccola ballata (ballatetta) di immediata efficacia:

Per una ghirlandetta ch’io vidi
mi farà sospirare ogni fiore.

La semplicità non è spontanea, bensì costruita. Questo c’insegna la poesia “difficile” di Arnaut o delle rime petrose o di quelle dottrinali di Dante. Che anche la semplicità non nasce immediata, ma è frutto di pensiero, di costruzione, in una parola di scrittura. Ma questo dovrebbe poi insegnarci anche a non schierarsi, oggi, per un’arte comprensibile a tutti, come l’unica vera arte. Esiste un’arte complicata, artificiosa, difficile, anzi spesso difficilissima, che capiscono pochi, forse pochissimi, ma non per questo meno arte di quella che conquista subito il pubblico. Nel XXVI canto del Purgatorio Dante lo spiega benissimo.

"O frate", disse, "questi ch’io ti cerno
col dito", e additò un spirto innanzi,
"fu miglior fabbro del parlar materno.

Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.

A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.

Così fer molti antichi di
Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ ha vinto il ver con più persone.

Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,

falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro".

Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.

Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.

El cominciò liberamente a dire:
"Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.

Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’ esper, denan.

Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!".

Poi s’ascose nel foco che li affina.

Due versi stupendi concludono uno, “come per l’acqua il pesce andando al fondo”, l’incontro con Guinizelli, l’altro, “poi s’ascose nel foco che li affina”, quello con Arnaut Daniel, del quale i versi precedenti sono insieme un’imitazione e una sfida alla poesia dello stesso Arnaut, e nella sua stessa lingua. Quello che può sembrare un discorso evoluzionistico della poesia da Guittone a Guinizelli è in realtà un mettere invece in rilievo la superiorità di una poesia che affronta la complessità del reale alla quale adegua la propria complessità strutturale, sulla poesia che si accontenta di una bravura costruttiva, senza misurarsi, appunto, con la più complessa realtà di una poesia che fa del ripensamento filosofico della realtà stessa la propria ineliminabile e insostituibile sostanza.
Questa forse troppo lunga riflessione, o piuttosto divagazione, mi è nata dalla lettura di un libretto appena ristampato da Carocci editore, nella collana “Biblioteca Medievale”, che raccoglie quanto ci è rimasto della poesia di Arnaut Daniel, e pubblicato per la cura, pazientissima, attenta, di Mario Eusebi. La prima edizione, esaurita, e sparita dalle librerie, era del 1996. E’ una lettura che consiglio caldamente. Non solo perché ci pone a confronto con un grande poeta, alle origini della moderna poesia europea, ma perché c’insegna a diffidare di schemi e pregiudizi che prefigurino il giudizio sull’opera. Si possono avere distinte idee di ciò che è poesia, ma nessuna esaurirà l’immensa ricchezza e varietà della poesia di tanti popoli, di tante lingue, di tante epoche. Non sarà la nostra, piccola, circoscritta, idea di poesia a poter racchiudere il senso della poesia che leggiamo. Ma è da questa lettura che dobbiamo trarre, di volta in volta, l’idea che della poesia ha il poeta che leggiamo. Non è la nostra idea di poesia che deve guidare la lettura, ma la lettura deve guidarci a scoprire l’idea di poesia che celano i versi che leggiamo. Celano. Non l’ho scritto a caso. Un trattato indiano di estetica del IX secolo, il Dhvanyāloka di Ānandavardhana, dice che essenza della poesia è il dhvani, il suono, l’eco, la risonanza, che non è il significato delle parole, non è manifestato dal significato delle parole, ma appunto dal suono, dall’eco, dalla risonanza che le parole suscitano nell’ascoltatore. Il trattato lo si può leggere tradotto in italiano e curato da Vincenzina Mazzarino per Einaudi, NUE, Torino, 1983. La poesia non è il detto, dunque, per il pensatore indiano (il suo trattatello è un po’ l’equivalente di quello che per la tradizione occidentale è la Poetica di Aristotele), ma il non detto che sta celato sotto il detto, e che si manifesta non in sé, ma nella sua risonanza, appunto nel dhvani. Probabilmente i poeti provenzali avrebbero condiviso una tale idea di poesia. E in ogni caso, anche per loro, la poesia non è mai il detto, ma sempre l’altro, il lontano, il lonh, come lo chiama Jaufré Rudel. Anche l’amore, quasi mai corrisposto, e mai nella poesia di Arnaut Daniel, è sempre un Amor de lonh, un Amor de terra lonhdana.
Qualcuno mi obietterà che quest’idea di poesia artificiosa, intellettualistica, non è democratica. E da quando la poesia ha l’obbligo di essere democratica? Anzi, così posto, il dissidio è mal posto. La poesia non è democratica perché tutti possono capirla. Ma perché ogni poeta aggiunge qualcosa alla conoscenza del mondo. E come per capire, che so, il teorema di Euclide, devo conoscere Euclide, conoscere anzi la matematica, così per capire la poesia devo conoscere il linguaggio con cui mi parla, che non è affatto lo stesso che uso al mercato per acquistare un chilo di pomodori. E’ un linguaggio che ha una storia, punti di riferimento. Devo conoscere sia la storia sia i punti di riferimento. O dovrò dire, per assurdo, che Euclide non è democratico?

Fiano Romano, 3 marzo 2019

venerdì 1 marzo 2019

Orazio Sciortino, due belle registrazioni




ORAZIO SCIORTINO
Selfprotrait
Sony Classical 88985355002
1 cd

Chamber Music for piano and strings
Swiss Music Ensemble “New Music”
Ambra Piano Trio
claves 50-1754
1 cd

Questa non vuole essere una recensione delle musiche di Orazio Sciortino, né ancora meno di Orazio Sciortino interprete di sé stesso, bensì una riflessione sul luogo che oggi riesce ad abitare, soprattutto in Italia, un giovane compositore che è anche straordinario pianista. Un tempo, diciamo fino a tutto il secolo XIX, ma non mancano anche figure esemplari nel secolo XX (Rachmaninov, Šostakovič, per esempio, non a caso russi), il compositore e l’interprete s’identificavano nella stessa persona. Da Bach a Chopin, da Mozart a Liszt, da Beethoven a Brahms, l’esercizio dello strumento s’incide profondamente nell’elaborazione della pagina. Dal secondo Novecento in poi si fa più raro. Anche se non mancano anche oggi – Sciortino, per esempio, appunto - esempi di virtuosi che sono anche eccellenti compositori. C’è, però, una sorta di ostacolo, o di diga, che s’alza spesso insormontabile, oggi, soprattutto dopo l’evanescenza e la dissoluzione delle avanguardie. Evanescenza però più apparente che reale. Il flusso scardinatore s’insinua, infatti, anche nelle più consolanti rievocazioni di un’armonia consonante perduta. Nemmeno un Ludovico Einaudi può, senza smentirsi, pensare di avere riappacificato la musica con il mondo. Quella pace, se mai ce n’è stata una – ma si è mai pensato a quanti grimaldelli si annidano nei pentagrammi di Frescobaldi, di Bach, di Chopin? - è perduta per sempre. Il tempo è irreversibile, anche nella musica. Trovo in due compositori dl secondo Ottocento questa commovente – e disperata – consapevolezza della pace perduta: Brahms, naturalmente, e l’inconmpreso, anzi frainteso “consolante” Dvořák. Gli ultimi pezzi pianistici di Brahms dilatano le connessioni armoniche e tematiche al punto di dissolverle o quanto meno smembrarle. Ma ancora più emozionante è la per certi aspetti ingenua consapevolezza di Dvořák. Nel suo mirabile quintetto con pianoforte op. 81, l’Andante con moto, Dumka (in ceco, pensiero triste), presenta a un certo punto un motivo cullante, che rigira su sé stesso, e dal quale il musicista non sembra più capace di uscire. Ecco: il compositore che succede alle avanguardie del secondo Novecento si trova nella stessa situazione. Come se tutto fosse stato già detto. Con in più il fatto che il detto non si limita alla sola rottura, alla rivoluzione sperimentale, ma è anche il detto che quella rottura ha contestato e sgretolato con la sperimentazione. In parole povere: come se non fosse più possibile ripetere né Brahms né Boulez. E allora, chi sa, meglio infiltrasi nei corridoi, nelle camere di passaggio o di sgombro. Perché no, Ravel? Perché no, Scriabin? Ma come riflessi in uno specchio deformante, in una sorta di evanescente – di nuovo, l’evanescenza! - anamorfosi. Come se il valzer di un café chantant fosse passato attraverso le maglie dell’op. 19 di Schoenberg. E come se la distanza tra la maschera di Stockhausen e la suasione del piano bar fosse abolita. 



Si ascoltino con attenzione due momenti mirabili: i Due valzer per aspettare la mezzanotte del 1015-1016, per pianoforte, e il quarto pezzo dal Diario di un poeta per violoncello e pianoforte, pagina che a sua volta procede da echi ungarettiani, vale a dire da un prosciugamento della memoria, per isolare singoli istanti di stupore o di disorientamento. Si volesse scendere ad analisi più strettamente musicale, ciò che anche a una prima lettura e a un primo ascolto colpisce è non tanto la libertà con cui il musicista si sente in diritto di muoversi in qualunque direzione, ma quanto dell’esperienza di dissoluzione alla quale le avanguardie ci hanno sottoposto si è ormai depositato, inesorabilmente – irreversibilmente? - sulle scritture dell’oggi. Sta qui la forza, e insieme la limpidezza di visione, che questa musica ci fa sentire. Che il passato non può essere più né recuperato né, peggio, negato, e che questo passato è sia quello per noi oggi consolante rifugio tonale, sia la sua disgregazione, inconsolabili e inconsolate sia la nostalgia del paradiso inabissato, fossilizzato, sia l’illusione di rivitalizzarlo smembrandolo in lacerti urlanti di dolore. Incredibile, però, quanta tenerezza, quanta dolcezza, affiori proprio da questa consapevolezza della catastrofe. Raro ascoltare oggi una musica di così molteplice specularità: che rifiuta sia la – falsa – riproposta di una concordanza non più ricomponibile, sia il fallace e in fondo rassicurante proposito di ristabilire un punto fermo ricominciando da capo, azzerando il passato. Quel passato ci ritorna addosso come un desiderio o come una colpa, forse, certo come una malattia inguaribile. Di cui, chi sa, non si vuole guarire. E allora la musica, perché no? si fa elettrocardiogramma del cuore bloccato, analisi, vivisezione del cervello malato. Ma per andare dove? Alla consapevolezza, forse, che il vicolo cieco in cui ci siamo imbucati non è poi l’errore o l’orrore che ci spaventava entrando, ma il luogo in cui abitiamo, l’unico abitabile, l’unico che ci è concesso, e nel quale la grazia di una gioia sta proprio nella consapevolezza che si tratta di una grazia, che non è un regalo, e nemmeno il frutto di una fatica, ma l’attimo di un percorso in cui si coglie il nodo di sé stessi e non se ne inorridisce. Perché in quel riconoscerci – passato, presente e attesa di un futuro – sta la natura, anzi lo scopo del nostro esserci, la vibrazione che distingue il vivente dal sasso, la cellula dalla molecola. E noi dentro, prigionieri, o conficcati, come il feto in un utero, nell’immenso alveo dell’evoluzione. Dalla quale non è permesso uscire.

Fiano Romano, 1 marzo 2019