PADOVA. AUDITORIUM POLLINI
ORCHESTRA
DI PADOVA E DEL VENETO
Direttore
e pianista, Orazio Sciortino
Qualcuno
potrebbe oppormi un conflitto d’interessi. Il concerto sul quale
sto scrivendo queste righe, infatti, si è tenuto all’Auditorium
Pollini di Padova il 14 marzo scorso. Sulla Sinfonia di Haydn nel
programma ho tenuto una lezione il sabato seguente, nella Sala dei
Giganti. Ma qui scrivo solo del concerto. Il programma condensava 50
anni di musica, da Carl Philipp Emanuel Bach a Beethoven. Tra i due,
una sinfonia di Haydn. Tre compositori, dunque, di continuo e
spericolato sperimentalismo. Con un atteggiamento per l’atto della
composizione che, senza tema di anacronismo, si potrebbe chiamare
avanguardistico. Succede, in certe svolte della storia, che gli
artisti sentano il bisogno di sperimentare nuove forme, di sfidare il
pubblico a confrontarsi con esperienze inusitate. Un momento tale,
prima di C. Ph. E. Bach e di Haydn, era stato il secolo precedente,
il XVII, nel quale i musicisti di ogni paese d’Europa, ma
soprattutto in Italia e in Francia, si avventurarono in un territorio
inesplorato, abbandonarono a poco a poco la fluidità delle armonie
modali per gettarsi avidi in una zona ancora inesplorata, un
continente dove c’era scritto: hic sunt leones, e i leoni
aggredivano il musicista dalle nuove funzioni dell’armonia tonale,
la sovrapposizione e di melodie diverse o della stessa a diverse
altezze, lasciava il posto a una successione verticale di accordi.
Nel passaggio, però, da un sistema all’altro – ed è il caso del
secolo XVIII – i musicisti tengono il piede in due staffe:
sperimentano l’andamento accordale, ma non se la sentono di
rinunciare alla combinazione contrappuntistica delle linee
orizzontali (non sempre si tratta di vere e proprie melodie). Il
paese che più si avventura in queste sperimentazioni non è più
l’Italia, e nemmeno la Francia (ma in nessuno dei due paesi
tuttavia il contrappunto è messo da parte, se mai è piegato a
ubbidire alle concatenazioni armoniche comandate dal basso). Il
figlio secondogenito di Johann Sebastian Bach è forse il musicista
che dopo la metà del secolo si avventura di più, sottoponendo anche
la strutturazione dell’intero brano a una logica della sorpresa,
dell’imprevisto, si direbbe perfino dell’improvvisazione,
combinando tra loro elementi non solo contrastanti, ma perfino
eterogenei: melodie minime, scaturite quasi solo da una fioritura,
alle quali fanno seguito inaspettate irruzioni di tempeste armoniche.
E’ il caso dei due bellissimi Concerti per clavicembalo/pianoforte
e orchestra in re maggiore Wq 43 n. 2, del 1772, e in mi maggiore
(orchestra di soli archi) Wq 14, del 1760, eseguiti in quest’ordine
da Orazio Sciortino, in veste sia di pianista sia di direttore.
Nel
Settecento, almeno dalla metà in poi, il clavicembalo vede
affiancarsi un nuovo strumento, il pianoforte (chiamarlo fortepiano
per distinguerlo dal pianoforte moderno può essere utile, ma di
fatto si tratta del pianoforte, in russo ancora oggi il pianoforte si
chiama fortepiano), e proprio C. Ph. E. Bach registra questa
trasformazione componendo un concerto per clavicembalo, pianoforte e
orchestra, gesto di una modernità sconvolgente, come sarebbe stato
negli anni ‘50 del secolo scorso scrivere un’opera per orchestra
e registrazione elettronica. Lettura penetrante, anzi direi
illuminante, quella di Orazio Sciortino, proprio perché dei due
concerti ha messo in evidenza la solidità costruttiva fondata però
su un’invenzione estemporanea, come si è detto, quasi
d’improvvisazione. Ma senza perdere mai il filo, appunto, della
continuità musicale. Tocco sensibilissimo, quello di Sciortino, che
ha anche penetrato con raffinata sensibilità la mobilità
imprevedibile del melodizzare di Carl Philpp Emanuel Bach, l’uso
strutturale della fioritura – come avveniva nella scrittura
clavicembalistica di Couperin e come avverrà in quella pianistica di
Chopin – come a dire che da una parte è riassunta e trasformata
l’esperienza dell’invenzione barocca e dall’altra sono poste le
premesse per uno sviluppo nuovo di ciò che poi i romantici
chiameranno espressione, ma che non è invenzione romantica, perché
anzi la sensibilità di Carl Philipp Emanuel è addirittura
capillare, umorale, imprevedibile: più che alla rappresentazione
degli affetti, la sua musica sembra ispirarsi all’umore istantaneo,
all’inafferrabile sensazione del momento. Ad aprire il concerto
Sciortino aveva scelto però una delle pagine più emblematiche di
Beethoven: l’ouverture Egmont. Le musiche per la tragedia di
Goethe, e in particolare l’ouverture, hanno un valore quasi
emblematico del pensiero compositivo di Beethoven: aggredire subito
l’ascoltatore con una situazione musicale tesa, irta di contrasti
violenti, che s’immette e si rafforza poi in un canto a gola
spiegata, tesissimo anch’esso, per poi concludere l’avventura
musicale con un gesto trionfalistico di esultanza, non meno
esasperato e teso della situazione precedente di costrizione e di
angoscia. E’ il paradigma della Quinta e della Nona, ma anche del
Fidelio, che anzi dà corpo drammaturgico a questo procedimento, e
che in fondo fa capire come tutta l’invenzione beethoveniana abbia
radici teatrali, alla faccia di chi si ostina a negargli talento
drammaturgico, ma, come aveva bene intuito Wagner, il dramma, in
Beethoven, non ha bisogno di un’esplicitazione teatrale, bensì è
già pienamente realizzato dalla costruzione musicale: il dramma è
la musica stessa. Sciortino ha bene individuato questo aspetto della
scrittura beethoveniana, e l’ouverture la si è ascoltata aggredire
l’ascoltatore con violenza, ma insieme anche con tenerezza,
attraverso contrasti sempre più intensi per concludersi nella
concitazione frenetica del finale gioioso e trionfale. A conclusione
del bellissimo concerto la Sinfonia n. 80 di Franz Joseph Haydn, un
capolavoro di costruttivismo musicale, in cui il lavoro astratto
dell’elaborazione ritmica e contrappuntistica si associa
all’evidenza dei brevi, icastici motivi, nemmeno temi, che la
realizzano. Un ritmo sincopato che dal primo movimento, dove è solo
un accidente secondario, si fa nell’ultimo tempo vero e proprio
elemento tematico. L’attacco tempestoso, stürmisch
appunto, sfocia in un motivetto di Lāndler
che chiude l’esposizione. Due battute vuote ritardano l’ingresso
dell’elaborazione, all’inizio della seconda parte, e tale
elaborazione non è praticata sul tema iniziale, bensì sul motivetto
di valzerino paesano. La drammaticità, la tragicità dello Sturm un
Drang cede il posto alla festa, al divertimento, ma è poi nel corpo
stesso della danza che di nuovo si alza la tempesta, si scatena il
dramma. Tragico e comico non sono separabili. C’è qui già in atto
ciò che Mozart realizza appena l’anno dopo, nel 1785, nelle Nozze
di Figaro: commedia e tragedia sono compenetrate nella commedia umana
che prevede sia la gioia che il dolore, sia il pianto che la risata.
La sinfonia Haydn la pubblica da Artaria proprio nel 1785. L’adagio
è di una cantabilità contenuta, ma che si oscura e
affonda presto anche qui
in climi cupi, di tensione armonica. Il minuetto fa già pensare a
Schubert. Che meraviglia, dunque, se alla fine il pubblico esploda in
fragorosi applausi? Come del resto aveva reagito anche il pubblico
viennese dei concerti
di Quaresima, nel 1784, quando
la sinfonia gli venne proposta insieme alle altre due, n. 79 e n. 81,
che costituiscono quasi un ciclo unitario. Coincidenza, anche a
Padova, la brava e sensibile Orchestra di Padova e del Veneto ha
suonato questa sinfonia nel periodo di Quaresima.
In
margine, un’osservazione: Orazio Sciortino, oltre che straordinario
pianista e sensibilissimo direttore, è anche, o forse soprattutto,
compositore. Ho scritto, recentemente, su queste stesse
pagine di due suoi cd, uno più bello e stimolante dell’altro, Self
portrait, della Sony, e Chamber Music for piano and strings, della
claves, rimando a quelle righe il lettore. Ma qui voglio mettere in
evidenza un fatto: che un compositore interpreta in maniera spesso
assai più intrigante ciò che suona o dirige, perché sa entrare tra
le righe della scrittura. Non è il caso che faccia gli esempi. Sono,
credo, nella memoria di tutti. Orazio Sciortino vi appartiene con una
sua cifra tutta particolare, quella di leggere il passato come fosse
presente. Non nel senso di modernizzare superficialmente la
partitura, bensì in quello più profondo di penetrarne le ragioni
compositive, le nervature
architettoniche, il senso stesso della scrittura, perché in un modo
e non in un altro. E non si tratta di intellettualismo. Perché il
pubblico lo coglie perfettamente, ed esplode giustamente in
entusiastici applausi.
Fiano
Romano, 19 marzo 2019