venerdì 1 marzo 2019

Orazio Sciortino, due belle registrazioni




ORAZIO SCIORTINO
Selfprotrait
Sony Classical 88985355002
1 cd

Chamber Music for piano and strings
Swiss Music Ensemble “New Music”
Ambra Piano Trio
claves 50-1754
1 cd

Questa non vuole essere una recensione delle musiche di Orazio Sciortino, né ancora meno di Orazio Sciortino interprete di sé stesso, bensì una riflessione sul luogo che oggi riesce ad abitare, soprattutto in Italia, un giovane compositore che è anche straordinario pianista. Un tempo, diciamo fino a tutto il secolo XIX, ma non mancano anche figure esemplari nel secolo XX (Rachmaninov, Šostakovič, per esempio, non a caso russi), il compositore e l’interprete s’identificavano nella stessa persona. Da Bach a Chopin, da Mozart a Liszt, da Beethoven a Brahms, l’esercizio dello strumento s’incide profondamente nell’elaborazione della pagina. Dal secondo Novecento in poi si fa più raro. Anche se non mancano anche oggi – Sciortino, per esempio, appunto - esempi di virtuosi che sono anche eccellenti compositori. C’è, però, una sorta di ostacolo, o di diga, che s’alza spesso insormontabile, oggi, soprattutto dopo l’evanescenza e la dissoluzione delle avanguardie. Evanescenza però più apparente che reale. Il flusso scardinatore s’insinua, infatti, anche nelle più consolanti rievocazioni di un’armonia consonante perduta. Nemmeno un Ludovico Einaudi può, senza smentirsi, pensare di avere riappacificato la musica con il mondo. Quella pace, se mai ce n’è stata una – ma si è mai pensato a quanti grimaldelli si annidano nei pentagrammi di Frescobaldi, di Bach, di Chopin? - è perduta per sempre. Il tempo è irreversibile, anche nella musica. Trovo in due compositori dl secondo Ottocento questa commovente – e disperata – consapevolezza della pace perduta: Brahms, naturalmente, e l’inconmpreso, anzi frainteso “consolante” Dvořák. Gli ultimi pezzi pianistici di Brahms dilatano le connessioni armoniche e tematiche al punto di dissolverle o quanto meno smembrarle. Ma ancora più emozionante è la per certi aspetti ingenua consapevolezza di Dvořák. Nel suo mirabile quintetto con pianoforte op. 81, l’Andante con moto, Dumka (in ceco, pensiero triste), presenta a un certo punto un motivo cullante, che rigira su sé stesso, e dal quale il musicista non sembra più capace di uscire. Ecco: il compositore che succede alle avanguardie del secondo Novecento si trova nella stessa situazione. Come se tutto fosse stato già detto. Con in più il fatto che il detto non si limita alla sola rottura, alla rivoluzione sperimentale, ma è anche il detto che quella rottura ha contestato e sgretolato con la sperimentazione. In parole povere: come se non fosse più possibile ripetere né Brahms né Boulez. E allora, chi sa, meglio infiltrasi nei corridoi, nelle camere di passaggio o di sgombro. Perché no, Ravel? Perché no, Scriabin? Ma come riflessi in uno specchio deformante, in una sorta di evanescente – di nuovo, l’evanescenza! - anamorfosi. Come se il valzer di un café chantant fosse passato attraverso le maglie dell’op. 19 di Schoenberg. E come se la distanza tra la maschera di Stockhausen e la suasione del piano bar fosse abolita. 



Si ascoltino con attenzione due momenti mirabili: i Due valzer per aspettare la mezzanotte del 1015-1016, per pianoforte, e il quarto pezzo dal Diario di un poeta per violoncello e pianoforte, pagina che a sua volta procede da echi ungarettiani, vale a dire da un prosciugamento della memoria, per isolare singoli istanti di stupore o di disorientamento. Si volesse scendere ad analisi più strettamente musicale, ciò che anche a una prima lettura e a un primo ascolto colpisce è non tanto la libertà con cui il musicista si sente in diritto di muoversi in qualunque direzione, ma quanto dell’esperienza di dissoluzione alla quale le avanguardie ci hanno sottoposto si è ormai depositato, inesorabilmente – irreversibilmente? - sulle scritture dell’oggi. Sta qui la forza, e insieme la limpidezza di visione, che questa musica ci fa sentire. Che il passato non può essere più né recuperato né, peggio, negato, e che questo passato è sia quello per noi oggi consolante rifugio tonale, sia la sua disgregazione, inconsolabili e inconsolate sia la nostalgia del paradiso inabissato, fossilizzato, sia l’illusione di rivitalizzarlo smembrandolo in lacerti urlanti di dolore. Incredibile, però, quanta tenerezza, quanta dolcezza, affiori proprio da questa consapevolezza della catastrofe. Raro ascoltare oggi una musica di così molteplice specularità: che rifiuta sia la – falsa – riproposta di una concordanza non più ricomponibile, sia il fallace e in fondo rassicurante proposito di ristabilire un punto fermo ricominciando da capo, azzerando il passato. Quel passato ci ritorna addosso come un desiderio o come una colpa, forse, certo come una malattia inguaribile. Di cui, chi sa, non si vuole guarire. E allora la musica, perché no? si fa elettrocardiogramma del cuore bloccato, analisi, vivisezione del cervello malato. Ma per andare dove? Alla consapevolezza, forse, che il vicolo cieco in cui ci siamo imbucati non è poi l’errore o l’orrore che ci spaventava entrando, ma il luogo in cui abitiamo, l’unico abitabile, l’unico che ci è concesso, e nel quale la grazia di una gioia sta proprio nella consapevolezza che si tratta di una grazia, che non è un regalo, e nemmeno il frutto di una fatica, ma l’attimo di un percorso in cui si coglie il nodo di sé stessi e non se ne inorridisce. Perché in quel riconoscerci – passato, presente e attesa di un futuro – sta la natura, anzi lo scopo del nostro esserci, la vibrazione che distingue il vivente dal sasso, la cellula dalla molecola. E noi dentro, prigionieri, o conficcati, come il feto in un utero, nell’immenso alveo dell’evoluzione. Dalla quale non è permesso uscire.

Fiano Romano, 1 marzo 2019

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