ORAZIO SCIORTINO
Selfprotrait
Sony
Classical 88985355002
1
cd
Chamber
Music for piano and strings
Swiss
Music Ensemble “New Music”
Ambra
Piano Trio
claves
50-1754
1
cd
Questa
non vuole essere una recensione delle musiche di Orazio Sciortino, né
ancora meno di Orazio Sciortino interprete di sé stesso, bensì una
riflessione sul luogo che oggi riesce ad abitare, soprattutto in
Italia, un giovane compositore che è anche straordinario pianista.
Un tempo, diciamo fino a tutto il secolo XIX, ma non mancano anche
figure esemplari nel secolo XX (Rachmaninov, Šostakovič,
per esempio, non a caso russi), il compositore e l’interprete
s’identificavano nella stessa persona. Da Bach a Chopin, da Mozart
a Liszt, da Beethoven a Brahms, l’esercizio dello strumento
s’incide profondamente nell’elaborazione della pagina. Dal
secondo Novecento in poi si fa più raro. Anche se non mancano anche
oggi – Sciortino, per esempio, appunto -
esempi di virtuosi che sono anche eccellenti compositori. C’è,
però, una sorta di ostacolo, o di diga, che s’alza spesso
insormontabile, oggi, soprattutto dopo l’evanescenza e la
dissoluzione delle
avanguardie. Evanescenza però più apparente che reale. Il flusso
scardinatore s’insinua, infatti,
anche nelle più consolanti rievocazioni di un’armonia consonante
perduta. Nemmeno un Ludovico Einaudi può, senza smentirsi, pensare
di avere riappacificato la musica con il mondo. Quella pace, se mai
ce n’è
stata una
– ma si è mai pensato a quanti grimaldelli si annidano nei
pentagrammi di Frescobaldi, di Bach, di Chopin? - è perduta per
sempre. Il tempo è irreversibile, anche nella musica. Trovo in due
compositori dl secondo
Ottocento questa
commovente – e disperata – consapevolezza della pace perduta:
Brahms, naturalmente, e l’inconmpreso, anzi frainteso “consolante”
Dvořák. Gli ultimi pezzi pianistici di Brahms dilatano le
connessioni armoniche e tematiche al punto di dissolverle o quanto
meno smembrarle. Ma ancora più emozionante è
la per certi aspetti
ingenua consapevolezza di Dvořák. Nel
suo mirabile quintetto con pianoforte op. 81, l’Andante con moto,
Dumka (in ceco, pensiero
triste), presenta a un
certo punto un motivo cullante, che rigira su sé stesso, e dal quale
il musicista non sembra più capace di uscire. Ecco:
il compositore che succede alle avanguardie del secondo Novecento si
trova nella stessa situazione. Come se tutto fosse stato già detto.
Con in più il fatto che il detto non si limita alla sola
rottura, alla rivoluzione sperimentale, ma è anche il detto che
quella rottura ha
contestato e sgretolato con
la sperimentazione. In
parole povere: come se non fosse più possibile ripetere né Brahms
né Boulez. E allora, chi sa, meglio infiltrasi nei corridoi, nelle
camere di passaggio o di sgombro. Perché no, Ravel? Perché no,
Scriabin? Ma come riflessi in uno specchio deformante, in una sorta
di evanescente – di nuovo, l’evanescenza! - anamorfosi. Come
se il valzer di un café chantant
fosse passato attraverso le maglie dell’op. 19 di Schoenberg. E
come se la distanza tra la maschera di Stockhausen e la suasione del
piano bar fosse abolita.
Si ascoltino con attenzione due
momenti mirabili: i Due valzer per aspettare la mezzanotte del
1015-1016, per pianoforte, e il quarto pezzo dal Diario di un poeta
per violoncello e pianoforte, pagina che a sua volta procede da echi
ungarettiani, vale a dire da un prosciugamento della memoria, per
isolare singoli istanti di stupore o di disorientamento. Si volesse
scendere ad analisi più strettamente musicale, ciò che anche a una
prima lettura e a un primo ascolto colpisce è non tanto la libertà
con cui il musicista si sente in diritto di muoversi in qualunque
direzione, ma quanto dell’esperienza di dissoluzione alla quale le
avanguardie ci hanno sottoposto si è ormai depositato,
inesorabilmente – irreversibilmente? - sulle scritture dell’oggi.
Sta qui la forza, e insieme la limpidezza di visione, che questa
musica ci fa sentire. Che il passato non può essere più né
recuperato né, peggio, negato, e che questo passato è sia quello
per noi oggi consolante rifugio tonale, sia la sua disgregazione,
inconsolabili e inconsolate sia la nostalgia del paradiso inabissato,
fossilizzato, sia l’illusione di rivitalizzarlo smembrandolo in
lacerti urlanti di dolore. Incredibile, però, quanta tenerezza,
quanta dolcezza, affiori proprio da questa consapevolezza della
catastrofe. Raro ascoltare oggi una musica di così molteplice
specularità: che rifiuta sia la – falsa – riproposta di una
concordanza non più ricomponibile, sia il fallace e in fondo
rassicurante proposito di ristabilire un punto fermo ricominciando da
capo, azzerando il passato. Quel passato ci ritorna addosso come un
desiderio o come una colpa, forse, certo come una malattia
inguaribile. Di cui, chi sa, non si vuole guarire. E allora la
musica, perché no? si fa elettrocardiogramma del cuore bloccato,
analisi, vivisezione del cervello malato. Ma
per andare dove? Alla consapevolezza, forse, che il vicolo cieco in
cui ci siamo imbucati non è poi l’errore o
l’orrore che ci
spaventava entrando, ma il luogo in cui abitiamo, l’unico
abitabile, l’unico che ci è concesso, e nel quale la grazia di una
gioia sta proprio nella consapevolezza che si tratta di una grazia,
che non è un regalo, e nemmeno il frutto di una fatica, ma l’attimo
di un percorso in cui si coglie il nodo di sé stessi e non se ne
inorridisce. Perché in quel riconoscerci – passato, presente e
attesa di un futuro – sta la natura, anzi lo scopo del nostro
esserci, la vibrazione che distingue il vivente dal sasso, la cellula
dalla molecola. E noi dentro, prigionieri, o conficcati, come il feto
in un utero, nell’immenso alveo dell’evoluzione. Dalla quale non
è permesso uscire.
Fiano
Romano, 1 marzo 2019
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