Arnaut Daniel, L’aur’amara
A
cura di Mario Eusebi. Roma, Carocci editore, “Biblioteca
Medievale”, 2019, pagg. 165, € 18,00.
Quan
chai la fuelha
dels
aussors entressims
e·l
freg s’erguelha
don
seca∙l vais e∙l
vims,
dels
dous refrims
vei
sordezir la bruelha:
mas
ieu sui prims
d’Amor,
qui que s’en tuelha.
Quando
cade la foglia
delle
più alte cime
e
il freddos’inasprisce
per
cui si secca il nocciolo e il salice,
dei
dolci gorgheggi
vedo
impoverirsi il bosco:
ma
io sono prossimo
ad
Amore, chiunque se ne allontani.
(Traduzione
di Eusebi, adattata all’ordine originale delle parole)
L’occitanico
può sembrare simile al catalano. Ma è un’impressione fuorviante.
Così come tutt’altra lingua è il provenzale odierno. Logico che
sono lingue imparentate per derivazione comunque dal latino, ma
differiscono l’una dall’altra per un’ evoluzione diversa di
ciascuna, successiva al XII secolo. Senza contare che esistevano ed
esistono differenze locali. Pertanto si consiglia una lettura
individuale di ciascun poeta. Arnaut Daniel, Arnaldo Daniello, in
italiano, è poeta assai ammirato al suo tempo, ma
guardato con diffidenza dopo il romanticismo, perché troppo
artificioso, freddo, un calcolatore della lingua, non un poeta.
Dante, tuttavia,
lo definisce “il miglior fabbro del parlar materno”. E
ha ragione. Non a caso, però, lo dice “fabbro”: mette in rilievo
perciò la sua abilità architettonica, la sfida di costruire poesia
con regole ferree, strette, su pochi, pochissimi elementi. Proprio
ciò che dispiaceva ai romantici. E dispiace ai semplificatori di
oggi.
Nella
“copla”, strofa, sopra citata, le rime si riducono a due, ma
distribuite per otto versi, quattro versi per rima. Altre volte tutte
le coplas hanno
le stesse rime della prima copla.
E, infine, è sua l’invenzione della sestina, un componimento di
sei strofe di sei versi
ciascuna
delle quali ciascuna
propone in fine di verso un parola rima. Ogni strofa ripete le parole
intrecciando l’ultima alla prima, la penultima alla seconda, la
terzultima alla terza: ABCDEF, FAEBDC, CFDABE, ECBFAD, DEACFB,
BDFECA, la tornada, il congedo di tre versi ripropone l’ordine
iniziale ABCDEF, ma con rime al mezzo. Così
è costruita la mirabile sestina
“Lo ferm voler qu’el cor m’intra”, il fermo volere che nel
cuore m’entra. Dante accetta la sfida e anzi rilancia, e compone
una sestina doppia, “Io son venuto al punto de la rota”.
Aranut,
insomma, è della cerchia dei poeti che si fanno intendere solo da
chi fa parte della cerchia: poesia intellettualistica, se mai altra,
lambiccatissima, artificiosissima, e – proprio per questo? -
sublime. Oggi probabilmente sarebbe sbeffeggiato dai tanti, troppi,
fautori della semplicità, della comprensione, dell’immediatezza e
dell’intellegibilità dell’arte. Come la mettiamo? Dante lo
chiama “miglior fabbro del parlar materno”. Petrarca –
Triumphus Cupidinis, IV, 40-42 - “ch’a la sua terra / ancor fa
honor col suo dir strano e bello” (“strano e bello”, traduzione
in volgare fiorentino del “trobar clus”, poetare chiuso, oggi
diremmo ermetico). Leggiamoci per intero una sua poesia.
Ab
gai so cuindet e leri
fas
motz e capus e doli,
que
seran verai e sert
quan
n’aurai passat la lima,
qu’Amor
marves plan’e daura
mon
chantar que delieis mueu
cui
Pretz manten e governa
Tot
jorn melhur e esmeri
quar
la gensor am e coli
del
mon, so∙us dic en
apert:
sieu
so del pe tro qu’al cima,
e
si tot venta∙ill
freg’aura
l’amor
qu’ins el cor mi plueu
mi
ten caut on plus iverna.
Mil
messas n’aug e∙n
proferi
e∙n
art lum de cer’e d’oli
que
Dieu m’en don bon acert
de
lieis on no∙m val
escrima;
e
quan remir sa crin saura
e∙l
cors qu’a graile e nueu
mais
l’am que qui∙m des
Luzerna.
T’an
l’am de cor e la queri
quìab
trop voler cug la∙m
toli,
s’om
ren per trop amar pert,
que∙l
sieu cors sobretrasima
lo
mieu tot e non s’aisaura:
tan
n’a de ver fag reneueu
q’obrador
n’ai’e taverna.
No
vuelh de Roma l’emperi
ni
qu’om m’en fassa postoli
qu’en
lieis non aia revert
per
cui m’art lo cors e∙m
rima;
e
si∙l maltrait no∙m
restaura
ab
un baizar anz d’annueu,
mi
auci e si enferna.
Ges
pel maltrag que∙n soferi
de
ben amar no∙m destoli;
si
tot me ten en dezert
per
lieis fas lo son e∙l rima:
piegz
tratz, aman, qu∙om que laura,
qu’anc
non amet plus d’un hueu
selh
de Moncli Audierna.
Ieu
sui Arnaut qu’amas l’aura
e
cas la lebre ab lo bueu
e
nadi contra suberna.
Con
gaio suono graziosetto e lieto
faccio
parole e sgrosso e piallo
che
saranno vere e certe
quando
ci avrò passato la lima;
perché
Amore subito appiana e indora
la
mia canzone che da lei muove
il
cui Pregio sostiene e governa.
Ogni
giorno miglioro e mi affino
perché
la più gentile amo e servo
del
mondo, ve lo dico apertamente;
suo
sono dal piede fino al capo,
e
se anche soffia un’aura fredda
l’amore
che nel cuore mi piove
mi
tiene caldo quanto più s’inverna.
Mille
messe ascolto ed offro
e
ardo lume di cera e d’olio
che
Dio mi doni buona riuscita
con
lei con cui non vale scherma;
e
quando guardo il suo crine d’oro
e
il corpo che ha agile e nuovo
più
l’amo di chi mi desse Lucerna.
Tanto
l’amo di cuore e la bramo,
che
per troppo volere penso di togliermela,
se
cosa per troppo amare si perde,
perché
il suo cuore sovrasta
il
mio talmente e non si stacca
tanto
n’ha davvero fatto usura
ch’artigiano
n’abbia e taverna.
Non
voglio di Roma l’impero,
né
che mi si faccia apostolo
se
in lei non ho riparo
per
cui m’arde il cuore e brucia;
e
se il duolo non mi risana
con
un bacio prima dell’anno,
mi
uccide e s’inferna.
Per
la doglia di cui soffro
di
ben amare non mi distolgo,
anche
se così mi tiene in abbandono
per
lei faccio il suono e la rima:
peggio
sto, amando, che chi lavora,
che
mai non amò più di un uovo
quegli
di Moncli Audierna.
Io
sono Arnaldo che ammucchio l’aria,
e
caccio la lepre con il bue,
e
nuoto contro corrente.
Ho
cercato di restare fedele, traducendo, al dettato di Arnaldo. Ma non
è facile. E solo la rima finale di ogni copla sono riuscito a
salvare. Perduta però nella tornada (il congedo). Il virtuosismo di
richiamare in ogni copla le rime della prima non è solo sfoggio di
bravura architettonica, ma un modo di richiamare l’attenzione sulla
scrittura, è una poesia, questa, che sì parla d’amore, ma insieme
parla del modo di parlare d’amore. Dante ne restò perciò
impressionato, perché anche lui cercava una poesia che parlasse
della poesia. Insomma la scrittura non dimentica mai di essere al
contempo riflessione sulla scrittura. Lascio ai competenti filologi
romanzi di approfondire questo aspetto. Qui richiamo questo modo di
fare poesia perché mi sembra istruttivo di quanti modi esistano nei
quali si possa scrivere poesia. Non senza osservare in margine quanto
alla luce di una poesia come questa, della quale la musica faceva
parte irrinunciabile, quanto, dico, appaia ridicola, provinciale,
settaria la polemica alzatasi in Italia per il Nobel a Bob Dylan.
Ma,
ritornando ad Arnaut Daniel, e alle riflessioni che suscita in
riferimento alla poesia di oggi, all’arte di oggi, viene da pensare
che alla validità della poesia non contribuisce certo la sua
comprensibilità, la sua facilità, o per opposizione la sua
artificiosa complessità. Nell’un caso come nell’altro il senso
della poesia sta nella sua scrittura. Che sia semplice o complicata.
Dante può scrivere intricatissime sestine (maestro riconosciuto,
come s’è visto, Arnaut) e perfino inventarsi una sestina doppia,
ma anche buttare giù un piccola ballata (ballatetta) di immediata
efficacia:
Per
una ghirlandetta ch’io vidi
mi
farà sospirare ogni fiore.
La
semplicità non è spontanea, bensì costruita. Questo c’insegna
la poesia “difficile” di Arnaut o delle rime petrose o di quelle
dottrinali di Dante. Che anche la semplicità non nasce immediata, ma
è frutto di pensiero, di costruzione, in una parola di scrittura. Ma
questo dovrebbe poi insegnarci anche a non schierarsi, oggi, per
un’arte comprensibile a tutti, come l’unica vera arte. Esiste
un’arte complicata, artificiosa, difficile, anzi spesso
difficilissima, che capiscono pochi, forse pochissimi, ma non per
questo meno arte di quella che conquista subito il pubblico. Nel XXVI
canto del Purgatorio Dante lo spiega benissimo.
"O frate", disse,
"questi ch’io ti cerno
col dito", e additò un spirto innanzi,
"fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ ha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro".
Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.
El cominciò liberamente a dire:
"Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
col dito", e additò un spirto innanzi,
"fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ ha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro".
Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.
El cominciò liberamente a dire:
"Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’ esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!".
Poi s’ascose nel foco che li affina.
Due
versi stupendi concludono uno, “come per l’acqua il pesce
andando al fondo”, l’incontro con Guinizelli, l’altro, “poi
s’ascose nel foco che li affina”, quello con Arnaut Daniel, del
quale i versi precedenti sono insieme un’imitazione e una sfida
alla poesia dello stesso Arnaut, e nella sua stessa lingua. Quello
che può sembrare un discorso evoluzionistico della poesia da
Guittone a Guinizelli è in realtà un mettere invece in rilievo la
superiorità di una poesia che affronta la complessità del reale
alla quale adegua la propria complessità strutturale, sulla poesia
che si accontenta di una bravura costruttiva, senza misurarsi,
appunto, con la più complessa realtà di una poesia che fa del
ripensamento filosofico della realtà stessa la propria ineliminabile
e insostituibile sostanza.
Questa
forse troppo lunga riflessione, o piuttosto divagazione, mi è nata
dalla lettura di un libretto appena ristampato da Carocci editore,
nella collana “Biblioteca Medievale”, che raccoglie quanto ci è
rimasto della poesia di Arnaut Daniel, e pubblicato per la cura,
pazientissima, attenta, di Mario Eusebi. La
prima edizione, esaurita, e sparita dalle librerie, era del 1996. E’
una lettura che consiglio caldamente. Non solo perché ci pone a
confronto con un grande poeta, alle origini della moderna poesia
europea, ma perché c’insegna a diffidare di schemi e pregiudizi
che prefigurino il giudizio sull’opera. Si possono avere distinte
idee di ciò che è poesia, ma nessuna esaurirà l’immensa
ricchezza e varietà della poesia di tanti popoli, di tante lingue,
di tante epoche. Non sarà la nostra, piccola, circoscritta, idea di
poesia a poter racchiudere il senso della poesia che leggiamo. Ma è
da questa lettura che dobbiamo trarre, di volta in volta, l’idea
che della poesia ha il poeta che leggiamo. Non è la nostra idea di
poesia che deve guidare la lettura, ma la lettura deve guidarci a
scoprire l’idea di poesia che celano i versi che leggiamo. Celano.
Non l’ho scritto a caso. Un trattato indiano di estetica del IX
secolo, il Dhvanyāloka
di Ānandavardhana,
dice che essenza della poesia è il dhvani, il suono, l’eco, la
risonanza, che non è il significato delle parole, non è manifestato
dal significato delle parole,
ma appunto dal suono, dall’eco, dalla risonanza che le
parole suscitano
nell’ascoltatore. Il
trattato lo si può leggere tradotto in italiano e curato da
Vincenzina Mazzarino per Einaudi, NUE, Torino, 1983. La
poesia non è il detto, dunque,
per il pensatore indiano (il
suo trattatello è un po’ l’equivalente di quello che per la
tradizione occidentale è la Poetica di Aristotele),
ma il non detto che sta
celato sotto il detto, e che si manifesta non in sé, ma nella sua
risonanza, appunto nel dhvani. Probabilmente i poeti provenzali
avrebbero condiviso una tale idea di poesia. E in ogni caso, anche
per loro, la poesia non è mai il detto, ma sempre l’altro, il
lontano, il lonh,
come lo chiama
Jaufré Rudel. Anche l’amore, quasi mai corrisposto, e mai nella
poesia di Arnaut Daniel, è sempre un Amor de lonh,
un Amor de terra
lonhdana.
Qualcuno
mi obietterà che quest’idea di poesia artificiosa,
intellettualistica, non è democratica. E da quando la poesia ha
l’obbligo di essere democratica? Anzi, così posto, il dissidio è
mal posto. La poesia non è democratica perché tutti possono
capirla. Ma
perché ogni poeta aggiunge qualcosa alla conoscenza del mondo. E
come per capire, che so, il teorema di Euclide, devo conoscere
Euclide, conoscere anzi la matematica, così per capire la poesia
devo conoscere il linguaggio con cui mi parla, che non è affatto lo
stesso che uso al mercato per acquistare un chilo di pomodori. E’
un linguaggio che ha una storia, punti di riferimento. Devo conoscere
sia la storia sia i punti di riferimento. O dovrò dire, per assurdo,
che Euclide non è democratico?
Fiano
Romano, 3 marzo 2019
Nessun commento:
Posta un commento