ROMA, IUC
ISTITUZIONE
UNIVERSITARIA DEI CONCERTI
AULA
MAGNA DELL’UNIVERSITA’ “LA SAPIENZA”
Alexander
Lonquich, pianoforte
“Die
Wahlverwandtschaften”, le affinità elettive
“Die
Wahlverwandtschaften”, le affinità elettive, intitola Goethe il
suo romanzo più moderno. I rapporti umani, e soprattutto quelli
amorosi, vi appaiono regolati secondo l’attrazione molecolare degli
elementi, viventi e no. Dall’inorganico all’organico la Natura
sembra squadernarci un’unica successione di elezioni attrattive. Le
odierne neuroscienze sembrano dargli ragione. Ma Alexander Lonquich
va ancora oltre e assume la sublime metafora (ma solo una metafora?)
goethiana anche come parametro di predilezioni musicali, di
associazioni mentali che le pagine di autori diversi di epoche
diverse possano suscitare in chi legge, in chi suona, in chi ascolta.
Così, un abbozzo quasi stenografico di Janáček,
“L’anello d’oro”, siglato quasi in punto di morte, è
accostato a un cupo “Foglio d’album” schumanniano, a una
meravigliosa riflessione di Carl Philpp Emanuel Bach che si accomiata
dal suo prediletto pianoforte Silbermann: commoventissimo commiato
dal proprio amato strumento musicale, il titolo è già tutto un
programma; “Abschied von meinem Silbermannschen Claviere in einem
Rondo”, distacco dal mio pianoforte Silbermann in forma di rondo.
Ognuno sa quanto intimo, segreto, sia il rapporto di un musicista con
il proprio strumento. E i pianoforti berlinesi Silbermann erano nel
Settecento ciò che sarebbero poi stati i Bechstein, gli Steinweg
diventati Steinway. Silbermann riusci a convincere Johann Sebastian
Bach, il padre di Carl Philip Emanuel, della bontà di questo nuovo
strumento, tanto che Bach se ne fece mandare tre a Lipsia. Era il
1747, la morte, nel 1750, ci ha privati della sperimentazione che
sicuramente Bach aveva subito avviata e messa in atto. Ma c’è
rimasta quella del figlio, straordinaria, e decisiva per Beethoven.
Il commiato musicale di Carl Philipp Emanuel è del 1781. C’è un
folgorante preludio di Beethoven, del 1803, che Lonquich ha voluto
proporre, subito dopo Stravinskij: in esso si condensa quasi un
secolo di musica, e se ne prefigura un altro: vi si coglie il lungo
respiro contrappuntistico di Johann Sebastian, ma anche l’emotività
del figlio Carl Philipp Emanuel, e in più l’ossessione di una
sintesi ritmica, di una cellula unica che generi tutto il pezzo e un
piacere della cantabilità che sarà di Schumann. Gli altri brani
interpretati da Lonquich sono di Bruckner, di Skrjabin, di Reger, c’è
perfino un bizetiano Theodor Wiesengrund Adorno, chi se lo sarebbe
aspettato, l’allievo di Berg che ammicca alla leggerezza francese,
ma del resto lo si poteva immaginare da uno come lui, ammiratore,
anzi adoratore di Baudelaire. Una sorta di diario intimo, dunque,
questa che Lonquich chiama playlist, ma non già solo dei sentimenti,
bensì soprattutto delle letture musicali o, meglio, dei sentimenti
suscitati dalle letture: non già programmate, quanto se mai
occasionali, assimilate per contrasto o per affinità. Una lezione
mirabile di pensiero musicale. Perché poi al fondo qui sta il nodo:
che la musica è una forma del pensare. Non nel senso che possa
essere tradotta in parole, bensì che la musica stessa è un atto del
pensiero. Non a caso a questo “catalogo delle belle che amò”
incarnantesi in pagine musicali, il seduttore pianista, a sua volta
sedotto dalle seducenti crittografie, gli dà l’avvio con una
sberleffeggiante cifratura, quella “Circus Polka, per un giovane
elefante” che Stravinskij compone nel 1942 per pianoforte, su
commissione di Balanchine, per il Circo Barnum. David Ruskin ne fece
subito un arrangiamento per banda, ma nel 1944 Stravinskij la
strumentò per un organico di 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2
fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, percussioni,
archi: con quest’organico fu eseguita dalla Boston Symphony
Orchestra. Come in uno specchio convesso vi s’intravede, anzi vi
s’intrascolta la Marcia Militare di Schubert. Ecco, allora, che
memoria, parodia (in senso musicale e no), rievocazione da cabaret o
da circo, assumo l’aspetto di una maschera, come chi sa sono sempre
tutte le musiche, evocazioni del tempo perduto. E perciò Theodor W.
Adorno, come s’è detto, si traveste da Bizet, Grieg sembra
preannunciare cattedrali inghiottite dall’acqua, Stefan Wolpe,
compositore che andrebbe riconsiderato e soprattutto ripresentato nei
concerti, scatena una fantasia di tagliente, staffilante intelligenza
in un Tango del 1927 e ancora più nell’incantante Stehende Musik
di due anni prima. La playlist, come la chiama Lonquich, comprende
18 brani di 14 compositori. Il filo rosso che unisce queste pagine è
una spericolata sperimentazione, perfino da parte del pur prudente
Rachmaninov, il “Preludio” op. 23 n.7 (1923), infatti, non è
ancora del tutto infagottato dal successo. Ma ecco, poi, che alla
fine Beethoven, non a caso, nella prima parte del concerto, accostato
subito, in apertura, alla Polka di Stravinskij, sembra, nella seconda
parte della serata, mettervi il suggello dell’incessante ricerca di
un senso quasi dal niente, dalla cellula minima, dalla molecola da
cui si costruisce ogni organismo, vivente e no. Una sorta di sigillo
che certifica l’unità dell’esistente, il cielo stellato in alto,
come scrive Kant, amorosamente annotato da Beethoven, e il principio
morale sulla terra, nell’uomo (“dentro di noi”, scrive
Beethoven). Le “33 Variazioni in do maggiore su un valzer di
Diabelli” op. 120, sembrano chiarirci, infatti, ciò che
prefigurava il breve “Preludio in fa minore” (la tonalità della
sua prima sonata per pianoforte, e dell’op. 57 (Appassionata),
dell’inizio del secondo atto del “Fidelio” e poi della grande
aria di Florestano, e del Quartetto op. 95): nel senso che qui la
musica si fa concreta costruzione della memoria e prefigurazione di
una musica che verrà, e questo ancora prima, molto prima, che nel
cervello di Wagner baluginasse l’idea di una musica dell’avvenire:
Beethoven rievoca Bach, Mozart, Haydn, ma prefigura anche Chopin,
Brahms, perfino Bartók.
Dall’ “ingenuo” valzer, cambiato, trasformato, ristrutturato,
reinventato, verändert,
appunto, e non già
semplicemente variato,
nel corso di 32 variazioni, la 33a variazione
o, piuttosto, trasformazione, in tempo di minuetto, dopo tanta
rivoluzione, sconvolgimento, cambiamento, rimodellamento dell’idea
di partenza, ristabilisce da capo l’ordine, la misura, il senso,
isola e circoscrive nel Settecento di Haydn e di Mozart il paradiso
perduto: che però non può più essere quello che era, ma ci si
mostra piuttosto come la sua rievocazione, la si ascolta, cioè, in
uno spazio cambiato, in un tempo “variato”, da una condizione
prospettica trasformata: lo spazio dell’oggi. Non è la prima
volta, a dire il vero, per Beethoven. C’era già stata la
enigmatica, ammiccante, stupenda, già quasi “neoclassica” Ottava
Sinfonia. E c’erano stati i tempi di minuetto sparsi attraverso
tutto il percorso delle sonate per pianoforte. Vi si trasente già
quasi Stravinskij.
Ma a solidificare, infine,
memoria e premonizioni, Lonquich ci regala un bis speciale: un
elaboratissimo improvviso di Chopin, il secondo in fa diesis
maggiore. Tra le più visionarie pagine di Chopin. Vi si sente,
sembra, un’eco delle variazioni beethoveniane.
Veränderungen
le chiama Beethoven: cambiamenti, trasformazioni in altro. Chopin
agisce, sembra, nella stessa direzione, anche se in altro modo.
L’idea non resta mai quella di partenza o, se ritorna, ritorna
diversa, o se ritorna uguale, vi si riverbera tutto ciò che è
accaduto prima del ritorno. C’è una sonata di Beethoven in cui ciò
accade con lancinante, dolorosissima, quasi disperata chiarezza:
l’op. 109. Il finale è un tema con variazioni. Ma concluse le
variazioni il tema riappare tale e quale. Non lo si riascolta, però,
tale e quale, come si era presentato la prima volta. Perché nella
memoria dell’ascoltatore resta ancora impressa l’avventura delle
variazioni precedenti il ritorno del tema. Il tema appare ormai quasi
un altro: quasi fosse il ricordo di sé stesso. Il paradiso evocato
può appunto essere solo evocato, la sua felicità è perduta per
sempre. Schumann ne farà tesoro soprattutto nei Lieder,
“Dicheterliebe”, “Frauen-Liebe und Leben”. L’uguale che
ritorna ci si mostra diverso, ci si presenta altro. L’altro ci si
rivela, appunto, come il nodo in cui si lega tutta la musica
ascoltata, la musica stessa ci si manifesta come pensiero, il
pensiero musicale che può scaturire da una singola idea, da una
minima cellula, da una singola molecola, e trasformarsi, costruirsi
attraverso molteplici e numerose affinità elettive. Lonquich ha
presentato l’interessantissimo programma all’Aula Magna
dell’Università La Sapienza di Roma, per l’Istituzione
Universitaria dei Concerti. Ma questa sua playlist la sta
interpretando in giro per l’Italia. A Milano sarà per il 25 marzo,
alla Sala Verdi del Conservatorio per le Serate Musicali. E’
un’esperienza da non perdere. L’intelligenza dell’interpretazione
corrisponde all’intelligenza della proposta, per esempio nella
sensibilità del tocco che fa seguire distintamente il gioco
contrappuntistico delle voci. Se ne esce conquistati e commossi.
Perché ogni distinzione, ogni separazione tra pensiero ed emozione,
tra ragione e sentimento, è abolita: tutte quante le molecole e le
cellule del nostro corpo reagiscono all’unisono raggiunte, colpite,
e colte da questa musica che sembra arrivarci dall’iperuranio di un
Pensiero che pensa sé stesso. L’Amor che muove il sole e l’altre
stelle, direbbe Dante, configurando un’unità dell’esistente che
è poi la stessa, in altro modo, vagheggiata da Goethe.
ROMA,
IUC
ISTITUZIONE
UNIVERSITARIA DEI CONCERTI
AULA
MAGNA DELL’UNIVERSITA’ “LA SAPIENZA”
Alexander
Lonquich, pianoforte
“Die
Wahlverwandtschaften”, le affinità elettive
Fiano
Romano, 11 marzo 2019
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