venerdì 10 gennaio 2020

Beethoven, Leonore: un'interpretazione intimistica







Beethoven, Leonore
René Jacobs
Petersen. Schmitt. Ivanshchenko. Johannsen. Weisser. Naymi. Chum
Freiburger Barockorchester
rcher Sing-Akademie

harmonia mundi HMM 902414 15 (2019)
Limited Edition
Registrata dal vivo alla Philarmonie di Parigi il 7 novembre 2017

2 cd

Ein Stoß – und er verstummt! Un colpo – e lui ammutolisce. Sta qui il centro di tutta l’opera. Rocco inorridisce. Ma china il capo, e si arrende agli ordini del potente. C’è chi ha perfino scritto che il libretto del Fidelio di Beethoven, scritto da Joseph Sonnleithner, è fiacco, irrilevante, in una parola: mediocre. Che la musica va per conto suo. Una moglie, Leonore, si traveste da uomo e si fa arruolare come guardia carceraria nella prigione dov’è rinchiuso suo marito, Florestano, per tentare di liberarlo. Pizarro, il governatore della regione, ha imprigionato Florestano, per impedirgli di denunciare il suo coinvolgimento in un brutto affare di concussione. Deve perciò eliminare l’unico testimone che lo accusa. Sembra una storia di oggi. Si è scritto molto sull’anelito di libertà che ispirerebbe tutto il Fidelio, già dalla sua prima versione, Leonore, nel 1805, quella qui registrata da René Jacobs. Ed indubbiamente tutta la vicenda e tutta la musica che la rappresenta sulla scena sono un appassionato inno alla libertà. Ma c’è di più. Beethoven è inorridito, più che sdegnato, da quanto nella società umana prevalga l’ingiustizia, e quanto essa riesca con la corruzione o con il terrore a legare le mani di chi potrebbe opporsi o contrastarla. Rocco è un bravo uomo, che ama la famiglia, la patria, Dio. Ma ubbidisce al governatore, ne esegue gli ordini, che sa ingiusti. In realtà lo capiamo subito, quanto egli sia in fondo succube dei potenti, incapace di opporsi alla loro prevaricazione, tutto sommato Rocco è un mediocre senza ideali, e lo capiamo prima che l’azione precipiti. Ubbidisce al potere perché il suo vero valore di riferimento non sono la giustizia, Dio, la patria, la famiglia: ma il denaro. Senza denaro non è possibile salvarsi nella macchina sociale che stritola i deboli. Beethoven gli dedica una mirabile aria, per esprimere questi concetti. E da vero drammaturgo non dà giudizi morali sul personaggio: lo rappresenta in tutto il suo egoismo terra terra di piccolo borghese.

Strumento dell’ingiustizia umana è il carcere, dove, più che i criminali, sono incatenati gli sgraditi all’ordine sociale dominante. E Beethoven rappresenta con un’efficacia insuperata l’orrore dell’idea stessa di carcere, d’imprigionamento, di soppressione della libertà. E’ contro tutto questo che lotta Leonore, la moglie di Florestano, per amore del marito, certo, ma anche per un’intima convinzione dell’inaccettabilità della condizione di prigioniero. Non ha ancora riconosciuto nel prigioniero il marito, ma è inorridita e profondamente indignata dalle condizioni nelle quali è costretto. Wer du auch seist, ich will dich retten, / Bei Gott, du sollst kein Opfer sein!” Chiunque tu sia, voglio salvarti, / per Dio, tu non dovrai essere una vittima! Si è detto, e si è scritto, che Leonore non commuove, che l’amore coniugale non è un argomento efficacemente drammaturgico. E perché? Fosse un’amante, un’adultera, sarebbe più commovente? 

Wilhelmine Schröder-Devrient nella parte di Fidelio, quando punta la pistola al petto di Pizzarro

Pannain scrive che nel Fidelio non ci sono personaggi, ma ideali, figure simboliche. Non è vero: e ho cercato di dimostrarlo. Un Rocco lo troviamo in ogni società, è anzi il tipo umano più comune, quello che crede di non farsi complice del potente, solo perché sta zitto, non compie lui stesso il delitto. Pizarro è il potente che abusa del suo potere, che ne è avido, ne fa il principio fondante della propria esistenza. Mancano esempi nel mondo di oggi?

Ci si sofferma, infatti, assai poco sull’intreccio assai complesso di idee, sentimenti, emozioni che Beethoven mette in scena nella sua opera. Ansia di libertà, amore coniugale, pietà umana per le sofferenze (Leonore e Florestano), smania di potere, cinismo, mancanza di principi morali saldi, complicità con le abiezioni dei potenti, per pavidità, per proprio tornaconto (Pizzarro e Rocco), visione ristretta della vita, piccole ambizioni, mediocrità di sentimenti (Jachino, Marzelline). Impressionante non è solo la cattiveria dei potenti, sembra dirci Beethoven, ma anche il silenzio, l’accondiscendenza, la cecità degli umili. Rocco, Jachino, Marzelline vivono in un carcere dove accadono fatti orribili, e non se ne scandalizzano, lo assumono come quotidianità inevitabile, come normale situazione di convivenza sociale. Gli unici a comprendere la realtà della situazione sono non a caso i prigionieri. Il coro dei prigionieri che anelano a respirare l’aria della libertà è un momento teatrale d’intensità quasi insopportabile, perché vi sembra rappresentata in una sola scena, di una meravigliosa individuazione musicale, la condizione perenne d’ingiustizia che regola da sempre la storia umana. Lo squillo di trombe che scioglie l’azione e libera Florestano è un gesto teatrale, è anzi l’utopia teatrale di come dovrebbero accadere gli avvenimenti nella storia e come invece non accadono. Il coro finale, nel momento in cui Leonore scioglie le catene del marito non a caso evoca la Marsigliese. Beethoven ci aveva sperato, si era illuso. Il Fidelio è l’opera di questa speranza, di questa illusione. La libertà di ciascuno non può essere vera libertà se non è la libertà di tutti. L’inno della Nona suggellerà con un immenso abbraccio questa utopia.

Ma René Jacobs non ha inciso il Fidelio del 1814, bensì la Leonore di nove anni prima. Perché, sostiene, è la versione più riuscita dell’opera. Non sono d’accordo. Il Fidelio delle versioni successive, e soprattutto l’ultima, del 1814, ci guadagna in concisione e drammaticità. Ma la scelta di Jacobs ha un senso, vuole evitare proprio l’estrema concisione della versione definitiva. Questa incisione dell’Harmonia Mundi è stata registrata alla Philarmonie di Parigi. La registrazione non è impeccabile. Il suono appare un po’ schiacciato. E si avverta talora un certo squilibrio tra i timbri strumentali dell’orchestra. Ma l’interpretazione è intensa. Alcune scelte sono indicative dell’idea insieme intima e piena di sfumature con cui è letta la partitura. Per esempio, il terzo atto della Leonore si apre con la scena della cisterna in cui è tenuto prigioniero Florestano. Nel Fidelio, che è in due atti invece che in tre, la stessa scena apre il secondo atto. Siamo abituati a sentire Fliorestano che all’inizio grida “Gott!”, Dio, come un urlo violento di ribellione. E poi, piano, commenta: “Welch Dunkel hier!” Che buio qui. Maximilian Schmitt, il Florestano di questa incisione attacca invece subito piano. Abituato al grido della tradizione, che assimila il ruolo di Florestano a quello di un Heldentenor, si potrebbe pensare a una scelta interpretativa controcorrente, e forse arbitraria. Ma si controlli che cosa scrive Beethoven nella partitura. La tradizione può averci convinto che il grido sia la scelta giusta. Jon Vickers, diretto da Klemperer, grida. René Kollo, da Solti, grida. Peter Hofmann, diretto da Bernstein, attacca prima piano e poi gradualmente alza la voce fino al grido. Ma Beethoven, in partitura, segna: p.  

Tutta l’interpretazione di Jacobs è giocata su questo piano d’intimità e di discrezione. Anche la Leonore di Marlis Petersen sembra rifuggire da accenti eroici per ripiegarsi in una dolente consapevolezza della propria fragilità. Tanto più eroica allora ci appare la sua dedizione non solo all’amore del marito, ma all’amore dell’umanità, in nome della quale ella è disposta a rischiare la propria vita. Così, la malvagità di Pizzarro, Johannes Weisser, non è solo la manifestazione truce di un “vilain”, figura quasi archetipica nel teatro, ma ci mostra la terribile quotidianità del sopruso da parte di chi può esercitarlo sugli altri. L’ambiguità, la mediocrità di un Rocco, Dimitry Ivashchenko, semopre sotto le righe, sono l’ambiguità e la mediocrità dell’uomo comune che non vuole fastidi, che pensa solo a sé stesso. Affettuoso, e perfino volitivo, con chi non può contrastarlo o ferirlo, ma servile con il potente. Si perde qualcosa del senso eroico dell’opera con questo tono quasi sempre sotto le righe? Forse. Ma si guadagna in umanità dei personaggi. E, soprattutto, ne risulta smentita la supposta poca teatralità dell’opera, l’estraneità di Beethoven ai meccanismi della drammaturgia. E’ invece un’opera teatralissima, avvincente, multiforme, ricca di contrasti e di sfumature, anche psicologiche. E non è vero che Beethoven insegua un suo disegno musicale indifferente alle esigenze della scena. E’ vero tutto il contrario, che Beethoven inventa via via le forme musicali che si adeguino alla situazione drammatica. Ma non nel senso di un continuo drammaturgico – allora avremmo Wagner - , bensì nel fissare di volta in volta, con un’aria, un terzetto, un quartetto, il nodo drammatico della situazione teatrale. Tant’è vero che sarà proprio questa invenzione di una musica che piega le forme strumentali a farsi carico dell’azione drammatica che fornirà il modello del sistema musicale con cui è strutturato il Wozzeck di Berg. La forma musicale non è uno schema imposto alla scena, ma è la sintesi di musica e dramma, della forma musicale che si fa dramma, nel senso che il dramma è raccontato per intero dalla musica, e non è quindi possibile distinguere il valore musicale dal valore drammatico, perché sono la stessa cosa.

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