martedì 28 gennaio 2020

Il senso della poesia




Ieri, giorno della memoria, ho postato su Facebook una poesia di Umberto Saba, La capra.

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Qualcuno ha sentito quel “varia” in fine di verso come un inciampo. E per rispondergli ho sviluppato un’analisi della poesia congiunta a una riflessione. Ecco il testo. Ma qui voglio svilupparlo.

Varia” fa rima con “solitaria”. I poeti che usano la rima comunicano significati ed emozioni anche con la rima. La voce "non varia", resta sempre uguale, resta sempre la stessa, ed è per questo che è "solitaria", non assomiglia a nessun'altra voce. Tutto questo Saba non lo spiega. Lo comunica semplicemente accostando l'espressione "non varia" all'attributo "solitaria". Crea un corto circuito, un'associazione, che dovrebbe fulminare il lettore o l'ascoltatore. Si pensi anche a quanti pensieri, quante emozioni, si condensino nella rima “semita” / “vita”.

La poesia, tutta, sempre, di ogni tempo, ha molti livelli di lettura: quello metrico, troppo spesso trascurato, dovrebbe invece costituire il punto di partenza. Anche perché lo è, una partenza, per il poeta, partenza e punto di arrivo: nel tragitto si brucia tutto il senso della poesia.

Prendiamo la famosa terzina che attacca il racconto di Francesca nell'Inferno:

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria, e ciò sa il tuo dottore.

Dolore” fa rima con “dottore”. Non si tratta di un dolore qualunque, di un sentimento, di un'emozione, ma di una condizione permanente dell'anima esclusa dalla salvezza. Il dolore è appunto quello dell'esclusione. Francesca da dannata, Virgilio da pagano. La felicità allora è la vita vissuta, che ricordarla, ora, nell'esclusione da qualsiasi felicità, è dolore inconfrontabile di cui non ce n'è nessuno "maggiore", il troncamento di “maggiore” rende nascosta la rima con “dolore” e “dottore”. Il poeta non è uno che sente, ma uno che scrive il proprio sentire. Ed è la scrittura il suo interesse principale, perché solo la scrittura gli permette di comunicare il sentire. Ma il discorso è lungo e complesso. Un giorno ci tornerò sopra. Qui stendo solo qualche riflessione. Però insisto sul fatto che la poesia ha vari livelli di lettura, tutti indispensabili, nessuno escluso, per comprenderne appieno il senso.

Il problema della ricezione della poesia è, come ho detto, intricato e complesso. In genere oggi dai più si tende a privilegiare l’emozione personale che si ha leggendola o sentendola leggere. E’ un costume assai diffuso, condiviso, si crede che sia il modo più facile per accostarsi alla poesia e per farvi accostare chi non la conosce ancora. Pochi si fermano a riflettere sulla violenza che invece questo atteggiamento esercita sul poeta. Non parliamo poi se si tratta di poesia difficile: Arnaut Daniel, Dante, Donne, Eliot, Mallarmé, poeti che richiedono un immenso bagaglio culturale per essere non già compresi, ma anche solo decifrati. Ci si giustifica per lo più affermando che per un primo accostamento alla poesia semplificarne il “contenuto”, spesso invece complesso, è il modo migliore per farla apprezzare. Non si riflette, però, che in questo modo se ne può distorcere il senso che il poeta vorrebbe comunicarci. Alla base, al solito, in un’epoca di narcisi come la nostra, c’è la convinzione che l’esigenza dell’io che legge debba essere prevalente, debba anzi vincere su qualsiasi altra considerazione: l’emozione è la chiave interpretativa giusta, la mia emozione coglie sempre ciò che il poeta vuole dirmi e se io non provo emozione allora forse non è poesia. Ma le cose stanno veramente così? Non viene il sospetto che la mia emozione, da sé sola, non sia lo strumento adeguato per giudicare la qualità di una poesia? Chi sono io, quale orgoglio il mio, per sovrappormi alla voce del poeta?

Già la breve osservazione sopra esposta sul senso della rima tra “non varia” e “solitaria” dovrebbe instillare qualche dubbio. Ma si obietta: “Troppo complicato fornire tutte queste analisi, tutte queste spiegazioni! Se il lettore si commuove alla lettura perché cercare altro?” Ma quella commozione, chiedo, corrisponde alla commozione che vuole suscitare il poeta? Non è un atto di violenza sul poeta imporgli questa mia emozione, prima ancora che io mi sia chiarito che cosa il poeta vuole davvero dirmi?

L’immediata emozione suscitata da una poesia, e perfino la sua immediata comprensione possono essere spesso un inganno. Il famosissimo sonetto di Dante “Tanto gentile e tanto onesta pare”, osserva Auerbach, in Mimesis, è scritto in una lingua che non è più l’italiano di oggi, anche se tutte le parole del sonetto si usano ancora oggi. Ma hanno cambiato di significato. Quasi nessuna, infatti, significa per Dante ciò che significa oggi. “Gentile” significa “nobile”, non amabile, cortese (altra parola che allora significava altro). “Pare”, dal verbo parere, non significa sembra, ma appare, viene alla vista. “Salutare” (mi saluta) allude al sostantivo salute, che non signica lo stato fisico del corpo, ma significa per Dante la salvezza dell’anima, e sottintende un dono della Grazia. E così via.

L’analisi lessicografica, metrica, dottrinale di una poesia non è dunque qualcosa di accessorio, come troppi credono, ma lo strumento più pertinente per entrare nel suo mondo. E non raffredda affatto l’emozione, ma anzi se mai l’accresce, perché approfondisce il rapporto del mio io con l’io del poeta che mi parla in quella poesia, non sovrappone la mia prevaricante emozione alla emozione che realmente il poeta vuole comunicarmi con quella poesia. E conoscendo di più io mi commuovo anche di più.

Qui viene fuori un’altra lezione, che si può apprendere proprio affrontando la lettura, la conoscenza, l’approfondimento di una poesia: s’impara ad ascoltare l’altro, si mette da parte il proprio prevaricante io per lasciare posto all’io di chi mi parla. Viviamo in un epoca di parlanti, di blateratori, di perenni sillabanti. Impariamo a diventare ascoltatori, a dare peso alle parole degli altri, a chiederci che cosa ci vogliano dire. Un mondo in cui tutti parlano e nessuno ascolta è un mondo di monadi isolate, che non comunicano tra di loro. La poesia può esserci di grande aiuto, può insegnarci ad ascoltare. Naturalmente ciò richiede da parte di tutti noi una grande umiltà, un metterci da parte, ci dispone a non chiedere niente, a non imporre nostri bisogni, nostre esigenze al messaggio dell’altro, perché questi bisogni, queste esigenze riguardano solo noi, non hanno niente a che vedere con chi ci parla. L’esigenza, il bisogno di dire, sta tutto dalla sua parte, da parte nostra il nostro dovere deve limitarsi ad ascoltare. Solo quando chi ci parla avrà esaurito il suo messaggio, e noi lo avremo compreso, solo allora potremo dire anche noi ciò che pensiamo, ciò che vogliamo. E starà a lui allora di ascoltarci. In questo scambio ciascuno contribuirà ad arricchire l’altro.

Tornando alla poesia, non si dimentichi mai che la voce del poeta è una voce molto particolare, una voce per la quale le parole hanno più importanza delle cose che le parole dicono. Perché quelle cose sono dette come sono dette proprio perché il poeta ha reinventato le parole che usa, le ha, per così dire, pronunciate come se fosse la prima volta che le pronuncia. Il linguaggio della poesia non è la lingua di tutti i giorni. Non lo è nemmeno quando il poeta usa la lingua di tutti i giorni. Perché la lingua del poeta è una lingua che viene rifondata da capo ogni volta che il poeta la pronuncia. Emily Dickinson lo dice in maniera mirabile:

A word is dead, when it is said
Some say -
I say it just begins to live
That day

Una parola è morta, una volta detta
Dicono alcuni -
Io dico che proprio comincia a vivere
Quel giorno

(traduzione di Andrea Sirotti, alla quale mi sono permesso di aggiungere un “proprio” per rendere il “just” del terzo verso e di sostituire “inizia” con “comincia”).

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