Ieri, giorno della memoria, ho
postato su Facebook una poesia di Umberto Saba, La capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
Qualcuno
ha sentito quel “varia” in fine di verso come un inciampo. E per
rispondergli ho sviluppato un’analisi della poesia congiunta a una
riflessione. Ecco il testo. Ma qui voglio svilupparlo.
“Varia”
fa rima con “solitaria”. I poeti che usano la rima comunicano
significati ed emozioni anche con la rima. La voce "non varia",
resta sempre uguale, resta sempre la stessa, ed è per questo che è
"solitaria", non assomiglia a nessun'altra voce. Tutto
questo Saba non lo spiega. Lo comunica semplicemente accostando
l'espressione "non varia" all'attributo "solitaria".
Crea un corto circuito, un'associazione, che dovrebbe fulminare il
lettore o l'ascoltatore. Si pensi anche a quanti pensieri, quante
emozioni, si condensino nella rima “semita” / “vita”.
La
poesia, tutta, sempre, di ogni tempo, ha molti livelli di lettura:
quello metrico, troppo spesso trascurato, dovrebbe invece costituire
il punto di partenza. Anche perché lo è, una partenza, per il
poeta, partenza e punto di arrivo: nel tragitto si brucia tutto il
senso della poesia.
Prendiamo
la famosa terzina che attacca il racconto di Francesca nell'Inferno:
Nessun
maggior dolore
che
ricordarsi del tempo felice
nella
miseria, e ciò sa il tuo dottore.
“Dolore”
fa rima con “dottore”. Non si tratta di un dolore qualunque, di
un sentimento, di un'emozione, ma di una condizione permanente
dell'anima esclusa dalla salvezza. Il dolore è appunto quello
dell'esclusione. Francesca da dannata, Virgilio da pagano. La
felicità allora è la vita vissuta, che ricordarla, ora,
nell'esclusione da qualsiasi felicità, è dolore inconfrontabile di
cui non ce n'è nessuno "maggiore", il troncamento di
“maggiore” rende nascosta la rima con “dolore” e “dottore”.
Il poeta non è uno che sente, ma uno che scrive il proprio sentire.
Ed è la scrittura il suo interesse principale, perché solo la
scrittura gli permette di comunicare il sentire. Ma il discorso è
lungo e complesso. Un giorno ci tornerò sopra. Qui stendo solo
qualche riflessione. Però insisto sul fatto che la poesia ha vari
livelli di lettura, tutti indispensabili, nessuno escluso, per
comprenderne appieno il senso.
Il
problema della ricezione della poesia è, come ho detto, intricato e
complesso. In genere oggi dai più si tende a privilegiare l’emozione
personale che si ha leggendola o sentendola leggere. E’ un costume
assai diffuso, condiviso, si crede che sia il modo più facile per
accostarsi alla poesia e per farvi accostare chi non la conosce
ancora. Pochi si fermano a riflettere sulla violenza che invece
questo atteggiamento esercita sul poeta. Non parliamo poi se si
tratta di poesia difficile: Arnaut Daniel, Dante, Donne, Eliot,
Mallarmé, poeti che richiedono un immenso bagaglio culturale per
essere non già compresi, ma anche solo decifrati. Ci si giustifica
per lo più affermando che per un primo accostamento alla poesia
semplificarne il “contenuto”, spesso invece complesso, è il modo
migliore per farla apprezzare. Non si riflette, però, che in questo
modo se ne può distorcere il senso che il poeta vorrebbe
comunicarci.
Alla base, al solito, in un’epoca di narcisi come la nostra, c’è
la convinzione che l’esigenza dell’io che legge debba essere
prevalente, debba anzi
vincere su qualsiasi
altra considerazione: l’emozione è la chiave interpretativa
giusta, la mia emozione coglie sempre
ciò che il poeta vuole
dirmi e se io non provo
emozione allora forse non è poesia.
Ma le cose stanno veramente così? Non
viene il sospetto che la mia emozione, da sé sola, non sia lo
strumento adeguato per giudicare la qualità di una poesia? Chi sono
io, quale orgoglio il mio, per sovrappormi alla voce del poeta?
Già
la breve osservazione sopra esposta
sul senso della rima tra
“non varia” e
“solitaria”
dovrebbe instillare qualche dubbio. Ma
si obietta: “Troppo
complicato fornire tutte queste analisi, tutte queste spiegazioni! Se
il lettore si commuove alla lettura perché cercare altro?” Ma
quella commozione, chiedo,
corrisponde alla commozione che vuole suscitare il poeta? Non è un
atto di violenza sul poeta imporgli questa
mia emozione, prima ancora che io mi sia chiarito che cosa il poeta
vuole davvero dirmi?
L’immediata
emozione suscitata da
una poesia, e perfino la sua immediata comprensione
possono essere spesso
un inganno. Il famosissimo sonetto di Dante “Tanto gentile e tanto
onesta pare”, osserva Auerbach, in
Mimesis, è scritto in
una lingua che non è più l’italiano di oggi, anche se tutte le
parole del sonetto si usano ancora oggi.
Ma hanno cambiato di significato. Quasi nessuna, infatti,
significa per Dante ciò che significa oggi. “Gentile” significa
“nobile”, non amabile, cortese (altra parola che allora
significava altro). “Pare”, dal verbo parere, non significa
sembra, ma appare, viene alla vista. “Salutare” (mi
saluta) allude al
sostantivo salute, che non
signica lo stato fisico del corpo, ma
significa per Dante la
salvezza dell’anima,
e sottintende un dono della Grazia. E così via.
L’analisi
lessicografica, metrica, dottrinale di una poesia non è dunque
qualcosa di accessorio, come troppi credono, ma lo strumento più
pertinente per entrare nel suo mondo. E non raffredda affatto
l’emozione, ma anzi se mai l’accresce, perché approfondisce il
rapporto del mio io con l’io del poeta che mi parla in quella
poesia, non sovrappone la mia prevaricante emozione alla emozione che
realmente il poeta vuole comunicarmi con quella poesia. E conoscendo
di più io mi commuovo anche di più.
Qui
viene fuori un’altra lezione, che si può apprendere proprio
affrontando la lettura, la conoscenza, l’approfondimento di una
poesia: s’impara ad ascoltare l’altro, si mette da parte il
proprio prevaricante io per lasciare posto all’io di chi mi parla.
Viviamo in un epoca di parlanti, di blateratori, di perenni
sillabanti. Impariamo a diventare ascoltatori, a dare peso alle
parole degli altri, a chiederci che cosa ci vogliano dire. Un mondo
in cui tutti parlano e nessuno ascolta è un mondo di monadi isolate,
che non comunicano tra di loro. La poesia può esserci di grande
aiuto, può insegnarci ad ascoltare. Naturalmente ciò richiede da
parte di tutti noi una grande umiltà, un metterci da parte, ci
dispone a non chiedere
niente, a non imporre nostri bisogni, nostre esigenze al
messaggio dell’altro,
perché questi bisogni,
queste esigenze riguardano solo noi, non
hanno niente a che vedere con chi ci parla. L’esigenza,
il bisogno di dire, sta tutto dalla sua parte, da
parte nostra il nostro
dovere deve limitarsi ad ascoltare. Solo quando chi ci parla avrà
esaurito il suo messaggio, e noi lo avremo compreso, solo allora
potremo dire anche noi
ciò che pensiamo, ciò
che vogliamo. E starà a
lui allora di ascoltarci. In questo scambio ciascuno contribuirà ad
arricchire l’altro.
Tornando
alla poesia, non si dimentichi mai che la voce del poeta è una voce
molto particolare, una voce per la quale le parole hanno più
importanza delle cose che le
parole dicono. Perché
quelle cose sono dette come
sono dette proprio
perché il poeta ha reinventato le parole che usa, le ha, per così
dire, pronunciate come se fosse la prima volta che
le pronuncia. Il
linguaggio della poesia non è la lingua di tutti i giorni. Non lo è
nemmeno quando il poeta usa la lingua di tutti i giorni. Perché la
lingua del poeta è una lingua che viene rifondata da capo ogni volta
che il poeta la pronuncia. Emily Dickinson lo dice in maniera
mirabile:
A
word is dead, when it is said
Some
say -
I
say it just begins to live
That
day
Una
parola è morta, una volta detta
Dicono
alcuni -
Io
dico che proprio comincia a vivere
Quel
giorno
(traduzione
di Andrea Sirotti, alla quale mi sono permesso di aggiungere un
“proprio” per rendere il “just” del terzo verso e di
sostituire “inizia” con “comincia”).
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