sabato 25 gennaio 2020

Giulio Cesare, un eroe barocco







GIULIO CESARE
UN EROE BAROCCO
Raffaele Pe, controtenore
Raffaella Lupinacci, mezzosoprano (nel duetto handeliano da Giulio Cesare)
La lira di Orfeo

il cd
Glossa Music
GCD923516

Il concerto dell’altra sera al Teatro Argentina di Roma, per l'Accademia Filarmonica Romana: Giulio Cesare, un eroe barocco, che però Raffaele Pe conduce in tournée per l’Italia, è un esempio istruttivo di come spesso si abbiano idee ristrette su che cosa sia il teatro. Non esiste, infatti, un solo modello di teatro – quello in base al quale molti affermano che ciò che non vi si adegua non è teatro – ma ne esistono molti, e cambiano di paese in paese, di epoca in epoca, e convivono, anche se diversi, nella stessa epoca. Brecht, Pirandello, Hofmansthal, O’ Neill, Pinter, Beckett, Puccini, Britten, Janáček, Berg, Poulenc, Bernstein, Barber, non scrivono lo stesso tipo di teatro, eppure ogni loro opera è a pieno titolo teatro. Il punto sta nel non porsi idee pre-concette quando si entra in un teatro, per assistere a uno spettacolo. Perfino lo stesso modello di teatro può conoscere declinazioni diverse e addirittura inconfrontabili. Nel barocco, dal seicento a tutto il settecento, convivono forme diversissime di teatro. Si pensi solo a quanto sono diversi Shakespeare, Racine e Lope de Vega. O nella stessa Francia, Corneille, Racine, Crébillon. Raffaele Pe ci conduce, pentagramma per pentagramma, nell’evoluzione del melodramma serio settecentesco, disegnando la figura emblematica di un solo eroe: Giulio Cesare. Da George Frideric Handel (1685-1759) a Francesco Bianchi (1752-1810) passano meno di 70 anni, ma il panorama teatrale, il gusto del pubblico, cambiano radicalmente. Vivo Handel nessun drammaturgo avrebbe osato ciò che un secolo prima aveva osato Shakespeare: fare vedere sulla scena l’assassinio di Cesare. L’assassinio doveva avvenire fuori scena, e c’era poi sempre qualcuno a raccontarlo. Nella ripresa successiva alla creazione veneziana del melodramma La morte di Giulio Cesare, che Bianchi aveva portato sulle scene nel 1788, e dunque un anno prima della presa della Bastiglia, il pubblico vide assassinare Cesare sulla scena. Ma perché a Parigi si erano visti decapitare un re e una regina, dal vero, non sulla scena.

Ora, il melodramma barocco è un teatro di passioni, non di azioni. Si chiamavano affetti. L’ultimo Bianchi assiste alla trasformazione di un teatro di affetti in teatro d’azione (a dire il vero c’era stato anche Gluck! ma in Italia non aveva avuto grande esito). Nel teatro barocco tutto è simbolico, anche la voce. E un eroe, figura fuori dell’ordinario, non può cantare con voce ordinaria. Così vediamo e ascoltiamo una figura virile che canta con voce acuta di soprano o di contralto. La stessa straordinarietà della visione e dell’ascolto si fa simbolo della straordinarietà della figura. Il sistema che permetteva la realizzazione di questa figura era crudele, anzi feroce, addirittura, per qualche singolo che diventava famoso e acquistava ricchezze, si rovinava la vita di moltissime persone. I castrati che raggiungevano il successo erano pochissimi, agli altri toccava una vita di solitudine, di stenti e d’infelicità. E’ stato giusto dunque proibirne la pratica. Già Parini scriveva parole dure contro l’evirazione. Per ricuperare dunque l’esecuzione del melodramma barocco negli stessi registri vocali, si sono a lungo usate le voci femminili.

Donne, del resto, che interpretano nel melodramma ruoli maschili non mancano fino ai giorni nostri, o quasi. In genere si affidano loro figure di adolescenti o di giovani: Cherubino, nelle Nozze di Figaro di Mozart, il figlio di Guglielmo Tell nell’opera omonima di Rossini, Tancredi nell’altra opera omonima di Rossini (ma anche altre opere rossiniane prevedono donne che vestono ruoli maschili), Oscar nel Ballo in maschera di Verdi, Octavian nel Rosenkavalier di Richard Strauss. Da qualche decennio, però, si ricorre alla figura del controtenore, una voce maschile che canta in un registro acuto, ricorrendo al falsetto. In genere la voce più adatta è quella baritonale, perché più ricca di armonici. La caratteristica dei castrati era di cantare in un registro acuto con la forza e il fiato pieni di un uomo. Il controtenore non può in genere sfoggiare un volume così pieno, un fiato così forte. E questo ha fatto a lungo mettere in evidenza una certa difformità dalla voce del castrato. Ma Raffaele Pe sembra smentire queste impressioni, perché la sua voce s’impone con forza e volumi potenti. Bisognerà chiedere a lui il segreto. Soprattutto, e qui allora entriamo nella padronanza di una tecnica, sorprende e colpisce con meraviglia la fluidità, la scorrevolezza del canto. Come se non gli costasse fatica. Capiamo allora l’entusiasmo che tali voci suscitavano nel passato. Perché veramente l’atto simbolico del canto teatrale qui si fa sostanza stessa del gesto teatrale, della rappresentazione. Quasi un miracolo. Come la musica di un verso raciniano – que le jour recommence et que le jour finisse / sans que jamais Titus puisse voir Bérénice – che qui si fa totalmente, esclusivamente musica, per sortilegio dello stesso registro vocale, un canto d’angelo si direbbe che però ci raffigura il dolore dell’uomo, la sua gioia, il suo entusiasmo. 

 

Sta in questo corto circuito tra la voce irreale e la concretezza umana della sofferenza o della felicità il contatto con un impossibile che si fa possibile, vale a dire che a raccontarci il nostro stesso dolore o la nostra gioia sia una voce che non è nostra, ma è sovra-umana, irreale. Ma proprio in ciò sta la sua immensa forza teatrale: perché il dolore, la gioia, non sono espressi, come pretenderà dopo la musica romantica, non sono realisticamente impersonati da chi canta, non sono cioè la traduzione musicale del dolore o della gioia – illusione in cui cade il romanticismo, che vorrebbe far coincidere rappresentazione e realtà – ma sono la rappresentazione simbolica del dolore o della gioia, sono – soprattutto – rappresentazione, non immedesimazione, di qualcosa che non c’è, ma cui si allude simbolicamente. Il cantante, insomma, rappresenta il personaggio, non è il personaggio. In questo, il teatro barocco ha molti punti di contatto con il teatro moderno, con Pirandello, con Brecht. Non a caso, del resto, i musicisti che interpretano musica e teatro barocchi si trovano a proprio agio anche nella musica e nel teatro di oggi.

Il programma della serata, e del cd (Giulio Cesare a baroque hero, Glossa Music GCD923516) di cui la serata ripropone gli stessi brani, ci conduce da pagine sublimi di Handel a quelle di Geminiano Giacomelli (1692-17409, di Carlo Francesco Pollarolo (1653-1723), di Niccolò Piccinni (1728-1800) e di Francesco Bianchi (1752-1810). Raffaele Pe ci regala anche due splendidi bis, entrambi handeliani: ripropone il duetto “Son nato a lagrimar” dal Giulio Cesare, insieme al mezzosoprano Raffaella Lupinacci, e il sublime (se fosse possibile si dovrebbe dire sublimillimo) Largo, che è l’aria “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo (la melodia viene in realtà dall’aria del Piacere nell’oratorio Il Trionfo del Tempo e del Disinganno). Strumentalmente sostiene tutto il concerto La Lira di Orfeo, gruppo strumentale fondato dallo stesso Pe, violino concertatore Luca Giardini, al clavicembalo Davide Pozzi, arpa Chiara Granata. Il teatro Argentina di Roma, pieno, ha decretato per tutti un vero e proprio trionfo. Ma chi sa quanti si saranno accorti, applaudendo, che applaudivano una musica che già da sé stessa è rappresentazione, teatro. Soprattutto quando la sua forza simbolica è realizzata con l’intelligenza, la sensibilità, e soprattutto con la pertinenza di un interprete che tocca così spesso quel sublime che questa musica pretende di rappresentare.


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